USA, crociata contro TikTok - Michele Paris
...Lo scorso novembre era stato invece il direttore dell’FBI, Christopher Wray, ad avvertire che Pechino poteva sfruttare TikTok per operazioni di spionaggio o, addirittura, per prendere il controllo degli smartphone su cui è installata l’applicazione. Poco più tardi, l’uso del “social” cinese era stato vietato sui dispositivi aziendali dei dipendenti del governo federale e di una ventina di amministrazioni statali.
Fermo
restando che il controllo del governo cinese delle informazioni a cui TikTok potrebbe
potenzialmente avere accesso non è stato per ora in nessun modo dimostrato, è
evidente che la facoltà di raccogliere informazioni di massa a livello globale
è in primo luogo una caratteristica di siti, motori di ricerca e “social
network” ideati e di stanza in America. Questi ultimi collaborano oltretutto
regolarmente con il governo di Washington, consegnando su richiesta dati
ultra-sensibili dei loro utenti, quasi sempre a loro insaputa.
L’uso dei
“social” come strumento di propaganda o di controllo dell’informazione è
un’altra prerogativa dell’apparato di potere USA. Proprio negli ultimi mesi,
Elon Musk ha favorito la pubblicazione in varie tranches dei cosiddetti
“Twitter Files”, ovvero trascrizioni di e-mail e comunicazioni varie tra i
vertici di Twitter ed esponenti del governo che confermavano
come fosse applicata una censura di fatto delle notizie da diffondere tra gli
utenti del “social” con sede a San Francisco. Com’è ormai noto, risalgono poi
al 2013 le prime rivelazioni di Edward Snowden sulle attività della NSA,
impegnata a monitorare virtualmente tutte le comunicazioni elettroniche che
avvengono sul territorio americano e non solo.
Al di là del
merito delle accuse contro TikTok, è indiscutibile che il governo
degli Stati Uniti sia di gran lunga il più attivo nel campo della sorveglianza
digitale, del controllo/manipolazione delle informazioni e delle operazioni di
propaganda su scala planetaria. Il tentativo di demonizzazione di TikTok,
così da scoraggiare gli utenti americani dall’utilizzarlo, appare inoltre
insensato anche da un altro punto di vista. In una realtà dove la privacy è
ormai un’illusione e il monitoraggio sul web è pervasivo, non è cioè chiaro,
come ha spiegato un’analisi della
rivista Jacobin, per quale ragione gli utenti americani dovrebbero
preoccuparsi maggiormente del controllo (presunto) esercitato dal governo
cinese rispetto a quello (dimostrato) del loro governo.
Più in
generale, si chiede l’articolo, la preoccupazione più grande per un americano è
la “minaccia” di TikTok o “il tentacolare apparato della
sicurezza nazionale post-11 settembre”? Apparato che, oltretutto, ha già mostrato
le proprie potenzialità autoritarie e repressive negli ultimi due decenni. In
definitiva, anche prendendo per vere le accuse rivolte al “social” cinese, si
legge in un recente editoriale del
sito Tech Policy Press, “TikTok non è un prodotto del
comunismo cinese, bensì del capitalismo della sorveglianza americano”. Se il
Congresso intende realmente risolvere le minacce insite in questa applicazione,
avverte l’articolo, allora “dovrebbe vietare la ‘pubblicità targettizzata’ [da
internet] e non TikTok”.
La
pericolosità di TikTok è dunque un pretesto che gli Stati
Uniti intendono sfruttare per aggiungere un altro tassello alla campagna
anti-cinese in atto. L’atmosfera da nuova Guerra Fredda tra Washington e
Pechino deve evidentemente permeare tutti gli ambiti e, nel caso del “social”
di condivisione di video, si intreccia alla sfida in ambito informatico e
tecnologico che da tempo infiamma i rapporti tra le prime due potenze
economiche del pianeta.
L’altro
aspetto legato alla crociata contro TikTok è il fermento
legislativo del Congresso USA per introdurre un nuovo giro di vite sulla
libertà di espressione e sul controllo della rete. Una bozza di legge è stata depositata
alla Camera (“DATA Act”) e prevede una serie di iniziative decisamente estreme.
Una di queste è la possibilità di congelare tutti i beni di quegli americani
che “consapevolmente” trasferiscano informazioni personali sensibili a una
qualsiasi entità appartenente a un soggetto cinese o semplicemente “sottoposto
all’influenza” cinese.
Il testo è
così generico da fare immaginare facilmente le possibili implicazioni che ne
deriverebbero, tanto più se si considera che la legge dovrebbe essere applicata
in qualsiasi parte del mondo. Il risultato potenziale sarebbe il divieto di
fatto dell’uso di qualsiasi software di origine cinese in qualunque parte del
pianeta, inclusi gli stessi paesi alleati degli Stati Uniti.
Un secondo
disegno di legge, con maggiori possibilità di essere approvato, è in
discussione al Senato (“RESTRICT Act”) ed è appoggiato dall’amministrazione
Biden. Questo provvedimento consegnerebbe all’esecutivo ulteriori poteri di
controllo sulle comunicazioni informatiche. Ad esempio, il governo sarebbe
tenuto a “proibire” o “limitare” qualsiasi transazione o attività relativa
all’ambito delle comunicazioni di compagnie controllate da “avversari
stranieri”, se viene rilevata una minaccia alla sicurezza nazionale americana.
Potenzialmente,
la legge permetterebbe al governo di vietare a qualsiasi organo straniero di
possedere e operare strumenti informatici e delle comunicazioni sul mercato
USA, consentendo il ricorso a metodi di censura con ampia discrezione. Sul
fronte domestico, nell’ipotesi peggiore e più assurda, un utente americano
potrebbe essere incriminato per il solo accesso a piattaforme di paesi ritenuti
“nemici” degli Stati Uniti, come ad esempio il servizio di messaggistica
cinese WeChat o, appunto, TikTok.
L’opposizione
in sede politica negli Stati Uniti a questa deriva semi-totalitaria è
decisamente limitata e riguarda quasi soltanto l’ala libertaria del Partito
Repubblicano. Il senatore del Kentucky Rand Paul ha infatti introdotto una
proposta di legge per bloccare il bando di TikTok e il
corollario ultra-repressivo previsto dalle varie proposte in discussione. Il
senatore repubblicano, per la sua iniziativa, fa riferimento alle protezioni
del Primo Emendamento alla Costituzione americana, relativo alla libertà di
parola e di stampa. L’aria che tira a Washington non promette tuttavia nulla di
buono ed è probabile che, a breve e in una qualche forma, arriverà una nuova
stretta in nome della lotta alla molto presunta minaccia cinese.
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