Malinconia accompagnata dalla mancanza di stimoli e dal desiderio di migliorare. Quasi che il destino dell’Italia sia di «finire con un lamento». Un quadro niente affatto confortante quello che il Censis dipinge nel suo Rapporto 2022 sulla situazione sociale del Paese.
Il Bel Paese: una favola? Italiani brava
gente: un’altra fiaba? Le favole, si sa, hanno quasi sempre un lieto fine. Ma
quella che ha come protagonista il nostro Paese è una di quelle che – per usare
le parole del Vate (Nota
mia: Giacomo Leopardi nella sua poesia A Silvia) – «…ieri ci
illuse…» e oggi continua a farlo. Perché le fiabe a un certo punto si scontrano
inevitabilmente con la realtà. E se la realtà è quella dei numeri della
statistica, la disillusione è ancora più cocente.
A estrarli dal cilindro magico è stato
ancora una volta il Censis. Che si è assunto questo doloroso compito da più di
cinquant’anni presentando sempre nel mese di dicembre il proprio Rapporto
annuale sulla situazione sociale del Paese. (https://www.censis.it/)
Una fotografia da molti anni in bianco e
nero, con poche, pochissime sfumature di grigio. Basta scorrere i titoli dei
Rapporti degli ultimi anni che ci presentano un’Italia «Irrazionale», «Una
ruota quadrata che non gira», in preda a un inconsulto «Furore di vivere».
Oppure a un «sovranismo psichico» tinto di cattiveria. Sembra quasi che questi
numeri siano la rappresentazione di un un’ombra cupa che si stende in ogni
angolo di quello che fu, e avrebbe potuto continuare a essere, il Paese del
sole.
Quest’anno la musica non cambia, anzi
peggiora. L’esterno – quel mare sconosciuto e infido che tanti temono – è
entrato di prepotenza nelle nostre case. Prima la pandemia con il suo
corollario di incertezze, dubbi, paure, insicurezze. Poi è giunta anche la
guerra e non sono pochi coloro che credono di ascoltare da lontano il galoppo
furibondo dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Un numero per tutti: 61%.
Questa l’altissima percentuale, secondo le rilevazioni del Censis (in verità
mai smentite nel lungo arco di tempo in cui i suoi ricercatori hanno lavorato)
degli italiani che temono il deflagrare di un nuovo conflitto mondiale. E
ancora: si ha paura (59%, ben più della metà dei nostri concittadini) del
ricorso alle armi nucleari. Pochissimi di meno (il 58%) coloro che pensano a
un’entrata in guerra dell’Italia.
La storia ‒ pardon, la Storia ‒ è
entrata nelle nostre case, ci ha messi dinanzi a una realtà che solo pochi
(ahimè) ricordano. Cosa succede allora? Che le richieste degli italiani non
cambiano: sicurezza (nel lavoro, nella cura della propria salute), maggiore
equità sociale. Come se bastasse la bacchetta magica sventolata come propaganda
elettorale, per assicurare a tutte e tutti un futuro migliore. Ma sembra scomparsa
ogni tensione ideale. Anche quella ‒ di per se stessa negativa ‒ del populismo.
Non ci sono reazioni forti, voglia di ribellione, desiderio di agire per
cambiare. Su tutti si è stesa una coperta livida di disillusione che conduce –
il Rapporto Censis è chiaro su questo punto ‒ alla malinconia.
Il post-populismo
Non che manchino le richieste di un
miglioramento delle condizioni di vita (reali, non come quelle che, ricorda il
Censis, sono evocate da qualche “leader politico demagogico”). Ma sono voci sommesse.
Con una punta di disperazione: i ricercatori presentano un dato che fa tremare
le vene ai polsi. Il 92% degli italiani pensa a un’inflazione capace di durare
a lungo. Una larghissima fetta di popolazione (siamo ben oltre il 70%) teme che
non potrà contare su significativi aumenti delle proprie entrate. Ne deriva la
paura di un’ulteriore diminuzione del tenore di vita: lo temono quasi il 70%
degli intervistati e la percentuale sale a sfiorare l’80% in chi ha già un
reddito basso. La propensione al risparmio (una delle voci in genere
considerate positive da più di un’indagine statistica) sembra essere scomparsa:
il 64,4% ha già cominciato a intaccare le proprie riserve economiche (Nota mia: non è che manca
la propensione al risparmio, è che le difficoltà costringono ad intaccare i
propri risparmi!).
Da qui il nodo gordiano che stringe alla
gola il nostro Paese. Le diseguaglianze, qualcosa che gli italiani dichiarano
di odiare. Differenze eccessive tra retribuzioni dei dipendenti rispetto a
quelle dei dirigenti (87,8%), buonuscite milionarie dei manager (86,6%), tasse
poche e mal pagate dai giganti del web (84,1%), facili guadagni degli
influencer (81,5%), sprechi per feste e mondanità delle “celebrità” (78,7%),
uso dei jet privati (73,5%). Insomma un insieme di elementi che sembrano tutti
contrapporre un esercito di meno abbienti a una minoranza di “ricchi” – senza
virgolette è più vero – sciuponi.
Il fattore che però deve indurre a una
profonda riflessione chiunque intenda farsi portavoce di queste rivalse è che
vengono pronunciate con acrimonia ma senza mostrare alcuna vera volontà di
riscatto.
Non c’è desiderio di conflitto, di
mobilitazioni collettive (di ogni tipologia dagli scioperi alle manifestazioni
di piazza). Gli italiani appaiono spenti, incapaci di reagire. Malinconici.
Appunto: veri e propri «cittadini perduti della Repubblica».
Una prova? Quella delle ultime elezioni
dove 18 milioni di italiani (all’incirca il 39% degli aventi diritto al voto)
hanno scelto di non votare (astensioni, schede bianche o annullate, rileva il
Censis), di non esprimere il proprio scontento attraverso l’unico vero
strumento che la democrazia mette nelle loro mani. Fra il 2018 e il 2022,
questo esercito silenzioso e malinconico è cresciuto di oltre quattro milioni
di unità.
Una malinconia profonda, figlia
dell’incertezza, facile a diffondersi in un Paese dove punti di riferimento
reali mancano. Quelle che non mancano sono le promesse elettorali mai
mantenute. E, soprattutto una sorta di stanchezza mentale che non induce più
nessuno a pensare di cambiare le proprie sorti attraverso forme di sacrificio.
In sostanza gli influencer possono dire ciò che vogliono ma una fetta
larghissima del campione (oltre l’83%) non ha intenzione di seguirne le
indicazioni. I prodotti di prestigio non attirano più di tanto (lo dichiara il
70 e passa per cento). Né tantomeno lo fa la moda (torniamo ben sopra l’80%).
Soprattutto, poi, da segnalare come il 36% sia disposto a dedicarsi al lavoro
per “far carriera” e magari guadagnare di più.
Insomma tirando le somme il Censis
rivela come un’alta percentuale ‒ ci si avvicina al 90%, quindi davvero alta ‒
di italiani, dinanzi al susseguirsi di eventi non controllabili (pandemia,
guerra, crisi ambientale) provi tristezza, malinconia, incapacità di affrontare
questioni di molto superiori a quell’«io» che aveva dominato l’ultimo decennio.
Quasi che ci si sia andati a schiantare contro un muro insuperabile. Quello
della realtà. Il muro dell’essere cittadini di un mondo dove quei cavalieri a
cui si accennava in precedenza galoppano indisturbati da sempre.
Molti, moltissimi i dati che fornisce il
Rapporto. Un volume che ogni politico del nostro Paese dovrebbe portare con sé
nella propria borsa (firmata?). E consultare prima di assumere qualsiasi
decisione che possa influenzare i comuni destini.
La sicurezza sanitaria, ad esempio. Un
53% del campione teme la non autosufficienza e l’invalidità. Con loro ci sono
gli italiani che hanno paura di perdere il lavoro (47,6%) o di subire incidenti
o infortuni (43,3%) sempre sul lavoro. O di non poter disporre di redditi
sufficienti in vecchiaia (ben più del 47%). E non manca la paura diffusa verso
l’assistenza sanitaria: il 42% esprime i propri timori per la necessità di
pagare di tasca propria eventuali, «impreviste» emergenze di salute.
Qui si innestano altri numeri. E danno
poco conforto ma, al tempo stesso indicano con precisione dove dovrebbe agire
la mano del governo o dei governi che seguiranno all’attuale.
La povertà invisibile?
A cominciare dalla povertà. Già, perché
in Italia esistono famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta (un
valore che oscilla e che è comunque legato al rapporto fra la composizione
familiare e la possibilità di acquisto dei prodotti di un “paniere” di beni
essenziali: cibo, medicine ecc. – NDR). E non è un fenomeno marginale. Il
Rapporto Censis (supportato in questo anche dai dati dell’Istat e della
Caritas) cita un numero che fa rabbrividire: 1,9 milioni di famiglie cioè 5,6
milioni di persone, dunque 1 milione in più rispetto al 2019. Buona parte di
esse (il 44,1%) risiede nelle Regioni del sud.
Cosa si fa per loro? Si parla di lavoro,
di assistenza? Si possiede una percezione esatta delle loro necessità? E,
soprattutto quali possibilità vengono offerte per uscire da questa tragica
posizione? Come potranno inserirsi nel mondo del lavoro i tanti giovani tra i
18 e il 24 anni che sono usciti dal sistema di «istruzione e formazione»? Già,
perché il problema della povertà è anche questo e i numeri sono impietosi
soprattutto nel confronto europeo. In Italia la dispersione scolastica interessa,
a livello nazionale il 12,7% di questi giovani nelle regioni del Sud, contro
una media europea che si arresta al 9,7%.
Nella Ue c’è una quota di 25-34enni
diplomati pari all’85,2%. In Italia si scende al 76,8% (71,2% nel sud). Non
basta: anche i laureati, cioè quella parte di giovani che potrebbero inserirsi
più facilmente nel mondo del lavoro sono pochi rispetto al resto d’Europa. La
percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di un titolo di studio
terziario raggiunge quota 26,8% in Italia (20,7% al sud) rispetto a una media
europea ben più alta pari al 41,6%.
La sanità è davvero per tutti?
Abbandoniamo in chiusura il Rapporto
Censis restando nel campo dei numeri. Questa volta a gettare luce sulle ombre
dell’assistenza sanitaria (troppe, davvero troppe) è un altro Rapporto, quello
curato dall’Opsan, l’osservatorio sulla povertà sanitaria (https://www.opsan.it/)
che è l’organo di ricerca della Fondazione Banco Farmaceutico, onlus creata nel
2008 ma già operante fin dai primissimi anni del secolo.
Cosa ci mostra quest’altra indagine? Che
nel 2022 sono state 390 mila le persone costrette a ricorrere a svariate realtà
assistenziali per potersi curare. Si torna a parlare di povertà assoluta
confermando i dati Censis e aggiungendovi quello relativo alla “povertà
sanitaria”.
Il Servizio Sanitario Nazionale, in
sostanza, lascia fuori della porta ‒ nonostante la sua impronta universalistica
‒ moltissimi cittadini. Nel Rapporto Opsan si legge che: «nel 2021 (ultimi dati
disponibili) il 43,5% (cioè 3,87 miliardi di euro) della spesa farmaceutica è
stata pagata dalle famiglie (+6,3% rispetto al 2020), con profonde differenze
tra le possibilità di quelle povere e quelle non povere».
In sostanza gli indigenti hanno a
disposizione pro capite 9,9 euro mensili contro i 66,83 euro di chi indigente
non è. Restando nel solo campo dei farmaci la quota a disposizione dei meno
abbienti è pari a 5,85 euro mensili contro i 26 euro di chi dispone di maggiori
entrate.
In sostanza, il 60% della spesa
sanitaria di chi vive in povertà finisce in “emergenze” mentre le famiglie con
maggiori risorse destinano il 38%.
Perché avviene questo? Per un meccanismo
perverso ‒ figlio dei tanti tagli subiti nel tempo dall’assistenza farmaceutica
del Ssn ‒ non esiste copertura per i cosiddetti farmaci Otc, quelli «da banco»:
si è creata così una vera e propria frattura tra coloro che sono sotto la
soglia di povertà e coloro che, invece, ne sono al di sopra.
Aumentano anche le diseguaglianze tra le
fasce più ricche della popolazione e quelle medio-basse: nel 2021 a ridurre le
spese sanitarie a loro carico (la rinuncia riguarda in generale le visite
mediche e gli accertamenti diagnostici periodici) sono stati oltre 4 milioni e
768 mila famiglie (pari a quasi 11 milioni di persone). Di queste, neanche a
dirlo, 1 milione e 884 mila persone vivono sotto la soglia della povertà
assoluta.
L’elenco dei numeri presentati è
certamente lungo. E i numeri, si sa, non destano simpatie perché spesso
impediscono repliche demagogiche. Però pensare di ignorarli o, quantomeno, di
nasconderli sotto un tappeto, per spostare l’attenzione degli italiani verso
problematiche ‒ l’immigrazione in particolare, quella che molti definiscono
invasione ma che tale non è e che a conti fatti contribuisce in maniera fattiva
al benessere nazionale (articolo)
‒ destinate ad usum delphini (Nota mia: il link alla voce in Wikipedia che spiega l’uso di questa
espressione in latino) e solo a quello, è un peccato mortale. Soprattutto perché fomentando
paura e insicurezza, si colpiscono al cuore la speranza, il desiderio di
riscatto, la dignità e il desiderio di vivere delle persone. Si lascia loro,
insomma, solo un’esistenza malinconica. E non dovrebbe essere questo il destino
di un Paese.
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