sabato 8 aprile 2023

Italia, il Paese della gente triste - Mariano Rampini

Malinconia accompagnata dalla mancanza di stimoli e dal desiderio di migliorare. Quasi che il destino dell’Italia sia di «finire con un lamento». Un quadro niente affatto confortante quello che il Censis dipinge nel suo Rapporto 2022 sulla situazione sociale del Paese.

Il Bel Paese: una favola? Italiani brava gente: un’altra fiaba? Le favole, si sa, hanno quasi sempre un lieto fine. Ma quella che ha come protagonista il nostro Paese è una di quelle che – per usare le parole del Vate (Nota mia: Giacomo Leopardi nella sua poesia A Silvia) – «…ieri ci illuse…» e oggi continua a farlo. Perché le fiabe a un certo punto si scontrano inevitabilmente con la realtà. E se la realtà è quella dei numeri della statistica, la disillusione è ancora più cocente.

A estrarli dal cilindro magico è stato ancora una volta il Censis. Che si è assunto questo doloroso compito da più di cinquant’anni presentando sempre nel mese di dicembre il proprio Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. (https://www.censis.it/)

Una fotografia da molti anni in bianco e nero, con poche, pochissime sfumature di grigio. Basta scorrere i titoli dei Rapporti degli ultimi anni che ci presentano un’Italia «Irrazionale», «Una ruota quadrata che non gira», in preda a un inconsulto «Furore di vivere». Oppure a un «sovranismo psichico» tinto di cattiveria. Sembra quasi che questi numeri siano la rappresentazione di un un’ombra cupa che si stende in ogni angolo di quello che fu, e avrebbe potuto continuare a essere, il Paese del sole.

Quest’anno la musica non cambia, anzi peggiora. L’esterno – quel mare sconosciuto e infido che tanti temono – è entrato di prepotenza nelle nostre case. Prima la pandemia con il suo corollario di incertezze, dubbi, paure, insicurezze. Poi è giunta anche la guerra e non sono pochi coloro che credono di ascoltare da lontano il galoppo furibondo dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Un numero per tutti: 61%. Questa l’altissima percentuale, secondo le rilevazioni del Censis (in verità mai smentite nel lungo arco di tempo in cui i suoi ricercatori hanno lavorato) degli italiani che temono il deflagrare di un nuovo conflitto mondiale. E ancora: si ha paura (59%, ben più della metà dei nostri concittadini) del ricorso alle armi nucleari. Pochissimi di meno (il 58%) coloro che pensano a un’entrata in guerra dell’Italia.

La storia ‒ pardon, la Storia ‒ è entrata nelle nostre case, ci ha messi dinanzi a una realtà che solo pochi (ahimè) ricordano. Cosa succede allora? Che le richieste degli italiani non cambiano: sicurezza (nel lavoro, nella cura della propria salute), maggiore equità sociale. Come se bastasse la bacchetta magica sventolata come propaganda elettorale, per assicurare a tutte e tutti un futuro migliore. Ma sembra scomparsa ogni tensione ideale. Anche quella ‒ di per se stessa negativa ‒ del populismo. Non ci sono reazioni forti, voglia di ribellione, desiderio di agire per cambiare. Su tutti si è stesa una coperta livida di disillusione che conduce – il Rapporto Censis è chiaro su questo punto ‒ alla malinconia.

Il post-populismo

Non che manchino le richieste di un miglioramento delle condizioni di vita (reali, non come quelle che, ricorda il Censis, sono evocate da qualche “leader politico demagogico”). Ma sono voci sommesse. Con una punta di disperazione: i ricercatori presentano un dato che fa tremare le vene ai polsi. Il 92% degli italiani pensa a un’inflazione capace di durare a lungo. Una larghissima fetta di popolazione (siamo ben oltre il 70%) teme che non potrà contare su significativi aumenti delle proprie entrate. Ne deriva la paura di un’ulteriore diminuzione del tenore di vita: lo temono quasi il 70% degli intervistati e la percentuale sale a sfiorare l’80% in chi ha già un reddito basso. La propensione al risparmio (una delle voci in genere considerate positive da più di un’indagine statistica) sembra essere scomparsa: il 64,4% ha già cominciato a intaccare le proprie riserve economiche (Nota mia: non è che manca la propensione al risparmio, è che le difficoltà costringono ad intaccare i propri risparmi!).

Da qui il nodo gordiano che stringe alla gola il nostro Paese. Le diseguaglianze, qualcosa che gli italiani dichiarano di odiare. Differenze eccessive tra retribuzioni dei dipendenti rispetto a quelle dei dirigenti (87,8%), buonuscite milionarie dei manager (86,6%), tasse poche e mal pagate dai giganti del web (84,1%), facili guadagni degli influencer (81,5%), sprechi per feste e mondanità delle “celebrità” (78,7%), uso dei jet privati (73,5%). Insomma un insieme di elementi che sembrano tutti contrapporre un esercito di meno abbienti a una minoranza di “ricchi” – senza virgolette è più vero – sciuponi.

Il fattore che però deve indurre a una profonda riflessione chiunque intenda farsi portavoce di queste rivalse è che vengono pronunciate con acrimonia ma senza mostrare alcuna vera volontà di riscatto.

Non c’è desiderio di conflitto, di mobilitazioni collettive (di ogni tipologia dagli scioperi alle manifestazioni di piazza). Gli italiani appaiono spenti, incapaci di reagire. Malinconici. Appunto: veri e propri «cittadini perduti della Repubblica».

Una prova? Quella delle ultime elezioni dove 18 milioni di italiani (all’incirca il 39% degli aventi diritto al voto) hanno scelto di non votare (astensioni, schede bianche o annullate, rileva il Censis), di non esprimere il proprio scontento attraverso l’unico vero strumento che la democrazia mette nelle loro mani. Fra il 2018 e il 2022, questo esercito silenzioso e malinconico è cresciuto di oltre quattro milioni di unità.

Una malinconia profonda, figlia dell’incertezza, facile a diffondersi in un Paese dove punti di riferimento reali mancano. Quelle che non mancano sono le promesse elettorali mai mantenute. E, soprattutto una sorta di stanchezza mentale che non induce più nessuno a pensare di cambiare le proprie sorti attraverso forme di sacrificio. In sostanza gli influencer possono dire ciò che vogliono ma una fetta larghissima del campione (oltre l’83%) non ha intenzione di seguirne le indicazioni. I prodotti di prestigio non attirano più di tanto (lo dichiara il 70 e passa per cento). Né tantomeno lo fa la moda (torniamo ben sopra l’80%). Soprattutto, poi, da segnalare come il 36% sia disposto a dedicarsi al lavoro per “far carriera” e magari guadagnare di più.

Insomma tirando le somme il Censis rivela come un’alta percentuale ‒ ci si avvicina al 90%, quindi davvero alta ‒ di italiani, dinanzi al susseguirsi di eventi non controllabili (pandemia, guerra, crisi ambientale) provi tristezza, malinconia, incapacità di affrontare questioni di molto superiori a quell’«io» che aveva dominato l’ultimo decennio. Quasi che ci si sia andati a schiantare contro un muro insuperabile. Quello della realtà. Il muro dell’essere cittadini di un mondo dove quei cavalieri a cui si accennava in precedenza galoppano indisturbati da sempre.

Molti, moltissimi i dati che fornisce il Rapporto. Un volume che ogni politico del nostro Paese dovrebbe portare con sé nella propria borsa (firmata?). E consultare prima di assumere qualsiasi decisione che possa influenzare i comuni destini.

La sicurezza sanitaria, ad esempio. Un 53% del campione teme la non autosufficienza e l’invalidità. Con loro ci sono gli italiani che hanno paura di perdere il lavoro (47,6%) o di subire incidenti o infortuni (43,3%) sempre sul lavoro. O di non poter disporre di redditi sufficienti in vecchiaia (ben più del 47%). E non manca la paura diffusa verso l’assistenza sanitaria: il 42% esprime i propri timori per la necessità di pagare di tasca propria eventuali, «impreviste» emergenze di salute.

Qui si innestano altri numeri. E danno poco conforto ma, al tempo stesso indicano con precisione dove dovrebbe agire la mano del governo o dei governi che seguiranno all’attuale.

La povertà invisibile?

A cominciare dalla povertà. Già, perché in Italia esistono famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta (un valore che oscilla e che è comunque legato al rapporto fra la composizione familiare e la possibilità di acquisto dei prodotti di un “paniere” di beni essenziali: cibo, medicine ecc. – NDR). E non è un fenomeno marginale. Il Rapporto Censis (supportato in questo anche dai dati dell’Istat e della Caritas) cita un numero che fa rabbrividire: 1,9 milioni di famiglie cioè 5,6 milioni di persone, dunque 1 milione in più rispetto al 2019. Buona parte di esse (il 44,1%) risiede nelle Regioni del sud.

Cosa si fa per loro? Si parla di lavoro, di assistenza? Si possiede una percezione esatta delle loro necessità? E, soprattutto quali possibilità vengono offerte per uscire da questa tragica posizione? Come potranno inserirsi nel mondo del lavoro i tanti giovani tra i 18 e il 24 anni che sono usciti dal sistema di «istruzione e formazione»? Già, perché il problema della povertà è anche questo e i numeri sono impietosi soprattutto nel confronto europeo. In Italia la dispersione scolastica interessa, a livello nazionale il 12,7% di questi giovani nelle regioni del Sud, contro una media europea che si arresta al 9,7%.

Nella Ue c’è una quota di 25-34enni diplomati pari all’85,2%. In Italia si scende al 76,8% (71,2% nel sud). Non basta: anche i laureati, cioè quella parte di giovani che potrebbero inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro sono pochi rispetto al resto d’Europa. La percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di un titolo di studio terziario raggiunge quota 26,8% in Italia (20,7% al sud) rispetto a una media europea ben più alta pari al 41,6%.

La sanità è davvero per tutti?

Abbandoniamo in chiusura il Rapporto Censis restando nel campo dei numeri. Questa volta a gettare luce sulle ombre dell’assistenza sanitaria (troppe, davvero troppe) è un altro Rapporto, quello curato dall’Opsan, l’osservatorio sulla povertà sanitaria (https://www.opsan.it/) che è l’organo di ricerca della Fondazione Banco Farmaceutico, onlus creata nel 2008 ma già operante fin dai primissimi anni del secolo.

Cosa ci mostra quest’altra indagine? Che nel 2022 sono state 390 mila le persone costrette a ricorrere a svariate realtà assistenziali per potersi curare. Si torna a parlare di povertà assoluta confermando i dati Censis e aggiungendovi quello relativo alla “povertà sanitaria”.

Il Servizio Sanitario Nazionale, in sostanza, lascia fuori della porta ‒ nonostante la sua impronta universalistica ‒ moltissimi cittadini. Nel Rapporto Opsan si legge che: «nel 2021 (ultimi dati disponibili) il 43,5% (cioè 3,87 miliardi di euro) della spesa farmaceutica è stata pagata dalle famiglie (+6,3% rispetto al 2020), con profonde differenze tra le possibilità di quelle povere e quelle non povere».

In sostanza gli indigenti hanno a disposizione pro capite 9,9 euro mensili contro i 66,83 euro di chi indigente non è. Restando nel solo campo dei farmaci la quota a disposizione dei meno abbienti è pari a 5,85 euro mensili contro i 26 euro di chi dispone di maggiori entrate.

In sostanza, il 60% della spesa sanitaria di chi vive in povertà finisce in “emergenze” mentre le famiglie con maggiori risorse destinano il 38%.

Perché avviene questo? Per un meccanismo perverso ‒ figlio dei tanti tagli subiti nel tempo dall’assistenza farmaceutica del Ssn ‒ non esiste copertura per i cosiddetti farmaci Otc, quelli «da banco»: si è creata così una vera e propria frattura tra coloro che sono sotto la soglia di povertà e coloro che, invece, ne sono al di sopra.

Aumentano anche le diseguaglianze tra le fasce più ricche della popolazione e quelle medio-basse: nel 2021 a ridurre le spese sanitarie a loro carico (la rinuncia riguarda in generale le visite mediche e gli accertamenti diagnostici periodici) sono stati oltre 4 milioni e 768 mila famiglie (pari a quasi 11 milioni di persone). Di queste, neanche a dirlo, 1 milione e 884 mila persone vivono sotto la soglia della povertà assoluta.

L’elenco dei numeri presentati è certamente lungo. E i numeri, si sa, non destano simpatie perché spesso impediscono repliche demagogiche. Però pensare di ignorarli o, quantomeno, di nasconderli sotto un tappeto, per spostare l’attenzione degli italiani verso problematiche ‒ l’immigrazione in particolare, quella che molti definiscono invasione ma che tale non è e che a conti fatti contribuisce in maniera fattiva al benessere nazionale (articolo) ‒ destinate ad usum delphini (Nota mia: il link alla voce in Wikipedia che spiega l’uso di questa espressione in latino) e solo a quello, è un peccato mortale. Soprattutto perché fomentando paura e insicurezza, si colpiscono al cuore la speranza, il desiderio di riscatto, la dignità e il desiderio di vivere delle persone. Si lascia loro, insomma, solo un’esistenza malinconica. E non dovrebbe essere questo il destino di un Paese.

da qui

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