lunedì 17 aprile 2023

The Italy Project - Franco Fracassi, Paola Pentimella Testa

 Il 14 novembre del 1974 Pier Paolo Pasolini scrisse sul Corriere della sera un articolo intitolato Io so, ma non ho le prove.

Oggi tutto quello che Pasolini avrebbe voluto leggere, quelle prove che non aveva, le avrebbe trovate in un libro intitolato The Italy Project.

The Italy Project spiega chi detiene il vero Potere dell’Italia, da molti, troppi anni, e riesce a coordinare tante organizzazioni fuorilegge per i suoi scopi.

Franco Fracassi e Paola Pentimella Testa possono scriverlo, e dimostrarlo, senza essere ammazzati, ormai il Potere non ha più paura di niente e nessuno (forse), anche se Julian Assange, Edward Snowden e Wikileaks devono sparire.

Se vi ricordate quel gioco della Settimana Enigmistica (unisci i punti) per scoprire un disegno potete capire come è costruito il libro.

Franco Fracassi e Paola Pentimella Testa elencano, raccontano, spiegano centinaia di fatti che da soli muoiono lì, ma se uniti nel modo giusto mostrano un enorme e tragico disegno di morte.

Tutto (o quasi) quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere (o se lo avete fatto, le risposte non c’erano) lo trovate nel libro di Paola Pentimella Testa e Franco Fracassi.

La Nato e Portella della Ginestra, il caso Moro, l’omicidio di David Rossi (Mps) e quello di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, Falcone e Borsellino, mafia e terrorismo, Jugoslavia e commercio delle armi, fra le altre cose, sono punti del disegno complessivo che troverete nel libro.

Ma il Potere è sempre un passo avanti, è un gioco di scatole cinesi (o di Matrioske Russe, a scelta), dietro la Nato ci sono gli Stati Uniti d’America, poi la Gran Bretagna, poi gli altri paesi, vassalli per sempre.

Dietro gli Stati Uniti d’America c’è il complesso militare-industriale, di cui aveva paura Eisenhower (leggi qui), dietro il complesso militare-industriale c’è, chissà, qualche società segreta della massoneria, o di illuminati (leggi qui), o una setta diabolica, la realtà supera la fantasia.

Due considerazioni laterali al libro:

avete notato la “stranezza” della diversa efficienza del NORAD nel caso del pallone sonda cinese e nel caso degli aerei dell’undici settembre 2001?

la seconda è che certi fatti apparentemente di ordinaria amministrazione potrebbero rivelarsi delle precondizioni per evoluzioni possibili (per esempio, l’autonomia differenziata può essere un caso normale di squallida iniquità, o, in un futuro, se necessario, potrebbe essere utile per sfasciare l’Italia come è successo alla Jugoslavia).

Carlo Palermo e Daniele Ganser, fra gli altri, stanno nella ricca bibliografia, da non trascurare.

Per l’acquisto del libro (418 pagine, edito nel 2022) scrivere all’indirizzo email:
francofracassi1@gmail.com

  

 

 

 

Nel 1943, all’alba dello sbarco Alleato in Sicilia, gli Stati Uniti imposero alle autorità italiane un vero e proprio contratto dal titolo “The Italy Project”. Un contratto in stile mafioso: protezione in cambio di sottomissione. Da quel momento in poi è stata Washington a decidere come e da chi dovevamo essere governati. Con le buone e con le cattive. Da quel momento in poi nel nostro Paese si sono susseguite stragi, omicidi, sequestri di persona, colpi di Stato. Tutto in nome di “The Italy Project”. Questo libro parla di come dal 1943 in poi vi sia stato un accordo tra mafia, terrorismo nero e terrorismo rosso con lo Stato italiano, accordo garantito e gestito dalla massoneria per conto degli Stati Uniti d’America. E probabilmente ancora in essere. Dalla strage di Portella della Ginestra a quelle di Capaci e di via d’Amelio, dal golpe Borghese al sequestro Moro, dalla strage di piazza Fontana a quella di Bologna, dall’omicidio del presidente dell’Eni Enrico Mattei a quelli di Ilaria Alpi e di Nicolò Calipari, un filo rosso sangue che lega la storia d’Italia. E attraverso di questo si dipana la politica estera degli Stati Uniti d’America. “The Italy Project” è frutto di un’inchiesta durata trent’anni, di migliaia di pagine di documenti studiati, di centinaia di testimoni ascoltati, di decine di Paesi visitati. “The Italy Project” è la nostra storia, quella dei nostri nonni e dei nostri genitori e quella che sarà dei nostri figli. A meno che tutto questo non venga fermato.

da qui

 

 

 

 

 

 

una lettera di Marco a Franco Fracassi:

Leggendo Italy Project non possono che saltare in mente altri aspetti inquietanti: 

 – Per quanto riguarda l’Italia, sono ormai decenni che il nostro paese è sotto attacco mediante la distruzione del complesso industriale, ma anche dal punto di vista economico e sociale. Sembrerebbe infatti che siamo stati scelti come laboratorio di qualsiasi esperimento (distruzione dei diritti dei lavoratori e più in generale della normativa sul lavoro, creazione dei lavori precari, distruzione dei salari, ecc.; per non parlare del trattamento che ci è stato riservato in questi ultimi anni di pandemia con le relative conseguenze a livello sociale o pensiamo ancora alle riforme della scuola). Ecco che allora è lecito domandarsi se tra quanto riportato in Italy Project e questi aspetti ci sia un nesso; probabilmente no. Ma non sarà forse che, visto il nostro sonno perenne, si è constatato che il nostro paese sia terreno fertile per questo e qualsiasi altro progetto senza che vi sia nessuna reazione? In tal caso magari, oltre agli obiettivi ottenuti con il progetto Italia, qualcuno particolarmente infastidito dalla nostra potenza economica e industriale (dai tempi di Mattei e Olivetti) avrà indubbiamente tratto dei vantaggi importanti. 

 

 – Guardando al di fuori dell’Italia, è possibile che un tale progetto ci sia stato o ci sia tuttora anche per altri paesi europei? Magari a livello militare? Penso ad esempio ad un ipotetico progetto Germania nel secolo scorso, che nonostante due guerre devastanti “inspiegabilmente” tornava a risollevarsi economicamente e armarsi per poi scatenare il caos in Europa. Oppure un più recente progetto Polonia, che attualmente risulta essere il paese europeo (e NATO) più armato? 

 

Che ognuno di questi paesi abbia un suo ruolo? A pensar male a volte….soprattutto se si pensa da dove provengono i flussi di denaro per tutti questi progetti. 

 

La Nato e le stragi in Italia: non è un romanzo – Davide Conti

(Il Manifesto, 5 febbraio 2022)

Leggere la storia. Da Piazza Fontana a Piazza della Loggia e alla stazione di Bologna: tanti gli elementi storici emersi di connessione tra gruppi neofascisti e ufficiali dell’Alleanza atlantica.

L’ultima inchiesta sulla strage fascista di Brescia del 28 maggio 1974 ha condotto gli inquirenti sulla soglia d’ingresso di Palazzo Carli a Verona, sede del comando Nato. Li ha portati lì un testimone all’epoca interno agli ambienti di Ordine Nuovo (On), il gruppo fondato da Pino Rauti responsabile dell’eccidio di Piazza Fontana come di quello a Piazza della Loggia.

Per raccontare la storia delle stragi in Italia si deve partire dal “principio di realtà”, crudo ma efficace, espresso dal generale Mario Arpino in commissione parlamentare stragi: “C’era una parte politica che per noi – i militari – era quasi rappresentante del nemico. Allora era così”. Quella era la cornice storico-politica: la Guerra Fredda tra blocchi militari contrapposti.

In quel quadro in Italia emerse il fenomeno dello stragismo con una continuità e una violenza senza pari nell’Europa dell’epoca. Il Paese era zona di frontiera geopolitica, inserito nella Nato ma “abitato” dalla contraddizione irriducibile: la presenza del più grande partito comunista d’Occidente, fondatore della Repubblica.

I caratteri anticomunisti dell’eversione 1969-1974 indicano quanto le stragi siano “figlie” della divisione bipolare del mondo e come sia ineludibile discutere il ruolo della Nato nel nostro Paese, ovvero un’alleanza militare strumento della Guerra Fredda in funzione anti-sovietica…

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Gladio e gli apparati deviati: la genesi della “strategia della tensione” – David Cardillo

Gladio, le infiltrazioni deviate nelle forze armate, i legami tra settori della Difesa italiana e organizzazioni estremiste, il disegno politico degli Usa: David Cardillo torna sull’Osservatorio con la seconda puntata di “Italia, campo di battaglia”.

Le manovre eversive che hanno portato a Portella della Ginestra (i cui contorni ricordano vagamente quanto avvenuto a Milano ventidue anni dopo), con il loro corollario di legami tra corpi dello Stato italiano, neofascisti, criminalità organizzata e servizi segreti e militari americani, possono così essere considerate l’inizio di un’operazione politica e psicologica la cui fase topica è stato il quinquennio 1969-74, ma la cui durata si è dipanata per l’intera guerra fredda, e che secondo alcuni ha avuto una coda con gli attentati mafiosi del 1992-93. Un’operazione che, come già accennato, ha visto la Nato pesantemente coinvolta. Come scritto dalla gola profonda del neofascismo Vincenzo Vinciguerra in un documento presentato alla Corte d’Assise di Venezia nell’estate del 1987:

“Si cercavano uomini-arma selezionandoli tra i simpatizzanti, gli aderenti e i militanti di Ordine Nuovo per una causa che non era la loro. Uomini da inserire, nel più assoluto segreto, in organismi NATO a difesa di quel mondo occidentale dominato dall’America nella cui vittoria militare sull’Europa si individuavano le origini della decadenza occidentale e della “finis Europae”.”[1]

Un primo passo, in tal senso, è stato compiuto nel 1951 con l’operazione Stay-Behind” (nota, in Italia, con il nome improprio di Gladio), la struttura paramilitare segreta della Nato sorta per continuare a combattere il nemico in caso di invasione degli eserciti del patto di Varsavia, ma adattata anche per contrastare il nemico interno, il Pci. Come dichiarato dal militante del Msi Vittorio Andreuzzi, cooptato in Gladio:

“Ci fu spiegato dagli istruttori che la nostra organizzazione sarebbe dovuta entrare in funzione per contestare moti di piazza comunisti. Non fu detto, se non con brevi cenni, che la struttura doveva servire anche per contrastare un’invasione straniera. Ricordo con certezza che, più che altro, si parlò, da parte degli addestratori, della necessità di prepararci a fronteggiare i comunisti italiani e le loro iniziative sovversive”. [2]

Tra i vari compiti di Gladio vi era quello di attuare il “Piano Demagnetize”, un progetto elaborato sempre nel 1951 dal Psychological Strategy Board (l’organismo creato nello stesso anno dal Dipartimento di Stato americano per condurre operazioni psicologiche all’estero), e reso operativo con un accordo tra i servizi segreti americani e italiani, al fine di depotenziare l’influenza sulla società italiana e esercitata dalle forze di orientamento comunista attraverso l’impiego di gruppi anticomunisti. Un fine per il quale la denominazione del piano esprimeva l’intento di ridurre quella sorta di “attrazione magnetica” che le idee comuniste andavano esercitando sulle popolazioni di alcuni paesi, in particolare Italia, e che andava smagnetizzata.

Punto di collegamento tra Gladio e i gruppi neofascisti era l’”Aginter Presse”, ufficialmente un’agenzia stampa, in realtà una centrale dell’intelligence al servizio della Cia e della Nato fondata dall’ex ufficiale delle forze armate francesi e membro fondatore dell’organizzazione terroristica di estrema destra Oas (Organisation de l’Armée Secrète) Yves Guérin-Sérac, per conto dei quali insegnava a praticare la strategia della tensione attraverso l’infiltrazione e l’intossicazione dei movimenti e le tecniche con cui attribuire la responsabilità degli attentati a persone o a organizzazioni estranee.[3] Nel novembre del 1969, l’ Aginter Presse ha redatto un documento, intitolato La nostra attività politica, in cui c’era scritto che occorreva fare sì che i comunisti venissero incolpati di attentati compiuti da estremisti di destra, e che tracce e indizi dovessero essere predisposti a questo fine.[4]  Si trattava delle cosiddette operazioni “false flag”, ovvero azioni condotte sotto mentite spoglie per coprirne le reali matrici, il cui  prodromo, come abbiamo visto,  può essere considerata la strage di Portella della Ginestra, del primo maggio 1947.

I primi passi verso l’attuazione di questi progetti sono stati intrapresi nel 1963, con l’inaugurazione della prima stagione dei governi di centro-sinistra. La  strategia  statunitense  va  inserita nel quadro storico della guerra fredda, che vede l’Italia nei panni del paese cardine  della  contrapposizione  dei  due  blocchi,  tanto  per  la  sua  posizione  geopolitica  (paese  affacciato sul Mediterraneo e terra di confine con i paesi oltre la cortina di ferro), quanto per il  suo  contesto  politico  interno  (il  paese  con  il  più  forte  partito  comunista  occidentale,  con un bacino elettorale del 25%-30% che ne fa stabilmente la seconda forza politica italiana).  Le politiche del centrosinistra in questo periodo erano caratterizzate da nuove linee sia a livello interno – la cosiddetta “strategia dell’attenzione” ideata da Aldo Moro, sostenuta dal PSI di Francesco De Martino e indirizzata al PCI di Enrico Berlinguer – e sul parte estera con una posizione più indipendente dalle linee guida statunitensi nell’area del Mediterraneo e più interessata agli interessi nazionali italiani.[5]

Per contrastare il primo governo formato da Aldo Moro, percepito come un possibile cavallo di troia del comunismo, il capostazione della Cia in Italia, William Horney, ha cominciato ad attivarsi sia formando squadre d’azione formate da estremisti di destra (arruolati dal membro del servizio segreto militare Sifar colonnello Renzo Rocca, per compiere attentati contro sedi della Democrazia Cristiana da attribuire alle sinistre), sia creando gruppi di pressione che chiedessero misure d’emergenza per fronteggiare la violenza dei comunisti…

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La strategia della tensione e la battaglia per il potere in Italia – Giuseppe Gagliano

Vorremmo rivolgere la nostra attenzione alla conclusione del saggio di Marco Dondi intitolato L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974” (Editore Laterza, 2015).

Infatti, riteniamo le conclusioni dell’autore – tanto quanto quelle di Aldo Giannuli relative al saggio sulla strategia della tensione siano di estrema rilevanza sia sotto il profilo storico che sotto il profilo politico per comprendere chiaramente la storia del nostro paese.

In linea di massima la strategia della tensione si concretizzò con la guerra non ortodossa formulata fin dal 1965 che fu impiegata contro il partito comunista, il partito socialista, i sindacati e i movimenti sorti dal 1968 e, più in generale, contro il centrosinistra. All’interno della strategia della tensione il ruolo del golpe fu molto importante: infatti il vero scopo del colpo di Stato non era di farlo ma di servirsi di esso come una minaccia psicologica verso la classe dirigente e verso la pubblica opinione.

La prima osservazione compiuta dall’autore è quella relativa al fatto che ben cinque organizzazioni e i loro atti criminosi furono coperti dall’istituzione come per esempio Ordine Nuovo. Infatti la protezione dello Stato svolse un ruolo di acceleratore dei processi di destabilizzazione. Infatti i Nuclei di difesa dello Stato, la rosa dei venti e la P2 erano veri e propri vasi comunicanti con i servizi informazione difesa, con l’Uaar, con gli uffici informativi dell’esercito e infine con il Noto servizio. Secondo l’autore i nuclei, la Rosa dei Venti e la P2 volevano mutare la struttura costituzionale della Repubblica e la loro pericolosità risiedeva proprio nel fatto di essere composti da personalità che avevano alti incarichi all’interno dello Stato in ambito politico, militare e nel contesto della intelligence.

A rendere il quadro ancora più drammatico è il fatto che queste tre strutture non soltanto hanno inciso in modo funesto attraverso attentati terroristici sulla vita del nostro paese ma hanno influito in modo considerevole sulle nomine delle forze armate, degli apparati di sicurezza e hanno profondamente condizionato l’esito dei processi.

Passiamo adesso ad una seconda considerazione fatta dall’autore. Se tutto ciò fu possibile è perché un gruppo ristretto di uomini politici non solo conosceva l’esistenza di queste strutture, anche se non le dirigeva, ma ebbe modo di sfruttarne politicamente l’azione.

Per quanto riguarda il ruolo complessivo delle forze armate e delle forze dell’ordine queste – ed è la seconda considerazione – erano in gran parte favorevoli ad una svolta autoritaria che le indusse a tradire il giuramento di fedeltà verso la costituzione.

Per quanto riguarda il ruolo della CIA – ed è la terza considerazione – questa svolse una forma di controllo e di assenso delle operazioni collegate per esempio all’attività di ON, funzione analoga svolta anche dalla Nato. Inoltre, entrambe le istituzioni sovranazionali, si serviranno dei gruppi di estrema destra anche come una sorta di manovalanza per porre in essere la guerra non ortodossa.

Vediamo adesso alla magistratura e alla quarta riflessione di Dondi. Una delle ragioni – ma certamente non la sola – che ha rallentato in modo considerevole le indagini della magistratura sono state le reticenze, le ritrattazioni e i depistaggi posti in essere anche dai servizi di sicurezza.

Un’altra ragione è da individuare nel tentativo di neutralizzare le indagini in corso attraverso la centralizzazione a Roma di più indagini, centralizzazione che ha contribuito “a disinnescare i pericoli di delegittimazione su una parte il mondo politico” come afferma l’autore (pag.402). Ma anche i contrasti di natura tecnica in merito alla competenza territoriale tra tribunali hanno contribuito in modo rilevante ad ostacolare l’accertamento della verità. Un altro strumento – sempre nel contesto della magistratura indubbiamente sospetto – fu quello dei trasferimenti come nel caso dei giudici di Treviso Giancarlo Stiz e di Aldo Vittozzi.

Più volte abbiamo fatto riferimento al ruolo dei servizi segreti. Ebbene sia le indagini giudiziarie che quelle della Commissione sul terrorismo e sulle stragi hanno sottolineato come le trame stragiste furono sempre note ai vertici dei servizi di sicurezza che hanno fatto di tutto per negare le informazioni date alla magistratura creando nuove piste -ovviamente false – producendo masse di documenti depistanti o facendo emergere nuovi testimoni che poi hanno in un secondo momento ritrattato.

Fondamentale è stata la manipolazione fatta dai servizi della stampa con nuove rivelazioni che hanno enormemente rallentato le indagini della magistratura facendo nascere “un ginepraio di carte, personaggi, ipotesi false o verosimili che hanno reso più ardua ricostruzione della verità“ (pag. 404). Se pensiamo per esempio all’inchiesta sull’Italicus sia i servizi che la P2 hanno spesso devastato i processi portando a non raccogliere determinati elementi o a nasconderne altri. E certamente quest’opera di depistaggio è durata fino agli anni Ottanta.

Ma è certamente la quinta riflessione quella che riveste un ruolo di particolare significato .Il ruolo dei servizi è stato per certi versi ancora più grave quando hanno contribuito alla fuga di importanti testimoni senza naturalmente poi trascurare il fatto che molti testimoni sono morti, vi sono stati suicidi inspiegabili e addirittura ricoveri in manicomio tutti episodi questi sui quali – sottolinea l’autore – i servizi sono intervenuti. Se pensiamo a Piazza Fontana di casi simili ce ne sono circa una decina come ha dimostrato Marco Sassano. Ma la responsabilità più grave,sotto il profilo giuridico, penale e morale è il fatto che i servizi sono stati i principali fautori della eversione al punto che il servizio segreto italiano ha certamente giocato un ruolo fondamentale sia nella nascita del terrorismo che nella sua caduta.

Pensiamo per esempio che Vito Miceli, dopo essere divenuto deputato per il Movimento Sociale nel 1976, fu invitato due anni dopo negli Stati Uniti a partecipare ad un incontro riservato con uomini dell’entourage di Henry Kissinger a dimostrazione ulteriore degli stretti legami internazionali che ebbe sempre la strategia della tensione.

Numerosi magistrati hanno infatti sottolineato che lo sviluppo del terrorismo di destra non sia stato una deviazione ma un vero e proprio normale esercizio, per quanto criminoso, di una funzione istituzionale svolta non solo dai servizi ma anche da gran parte dei corpi militari dello Stato, dalla mafia, dalla ‘ndrangheta e dalla loggia P2.

Se, ad esempio, rivolgiamo la nostra attenzione al ruolo svolto da Umberto D’Amato e dal suo ufficio: questo svolse vere e proprie funzioni di polizia politica come durante gli anni del fascismo. Ma se tutto ciò fu possibile – ribadisce l’autore opportunamente – dipese dalla complicità e dalla connivenza – oltre che dalla convenienza – delle più alte cariche dello Stato e cioè del Ministero della Difesa e degli interni, del Presidente del consiglio e della Repubblica. E quando i servitori dello stato non servivano più venivano liquidati o scaricati come fecero anche Andreotti e Taviani.

Ora, alla luce di queste drammatiche considerazioni che procedono di pari passo con quelle di Giannuli e di Fasanella, supporre che nel nostro paese la conclusione della strategia della tensione abbia posto termine ad intrighi e complicità legate anche alla sovranità limitata del nostro paese sarebbe una pericolosissima illusione. Basterebbe fare due soli esempi: le vicenda di Pollari, Pio Pompa e Mancini del Sismi e Robert Seldon Lady della Cia legate anche ad Abu Omar – ancora una volta, guarda caso, proprio la CIA è direttamente coinvolta – e quelle della P4 con Luigi Bisignani, personaggio questo che, per certi versi, ricorda Francesco Pazienza.

da qui

 

 

La strategia segreta della Nato – Verbale

Prima sessione della Nato a Bruxelles, 17 settembre 1949 

Pubblichiamo il testo di una conversazione riservata fra Truman, i vertici politico-militari degli Stati Uniti e i ministri degli Esteri dei paesi dell’Alleanza Atlantica. In questo incontro dell’aprile 1949 sono fissati i cardini della geopolitica antisovietica.

PRESIDENTESignori1, ho chiesto di incontrarvi questa sera senza che fossero presenti i vostri più stretti collaboratori proprio per sottoporvi in estrema confidenza gli orientamenti della mia nazione sui gravi problemi che attualmente dobbiamo affrontare. Di ciò che vi dirò, finora sono stati messi a conoscenza solo i membri del Consiglio per la sicurezza nazionale che hanno dato parere favorevole, devo chiedervi di comunicare il mio pensiero solo ai vostri capi di governo e ai ministri della Difesa.

Il fatto di essere qui riuniti a Washington per la firma del Patto Atlantico rispecchia perfettamente la natura della nostra comune preoccupazione – lo schiacciante potenziale militare dell’Urss. Eppure vorrei sottolineare che la minaccia sovietica non è soltanto militare, è la minaccia del comunismo in quanto idea, in quanto forza sociale dinamica ed egualitaria che si nutre degli squilibri economici e sociali del mondo, a costituire un problema-base per l’Occidente, sebbene infatti trovi forza significativa nella potenza sovietica, nel lungo periodo è l’idea in sé a costituire una minaccia ancor più insidiosa.

Il Patto Atlantico, come già l’Erp 2 e come il futuro programma di assistenza tecnologica americana, costituiscono grossi passi in avanti verso lo sviluppo di una futura controffensiva. Ma tutti noi sappiamo bene che il Patto Atlantico è più di un simbolo della nostra comune determinazione, un accordo attraverso il quale noi dobbiamo procedere per sviluppare misure concrete di primo contenimento, per poter poi sconfiggere il mondo comunista. Quando dico sconfiggere non mi riferisco all’azione militare, in quanto voi tutti siete ben consci che il popolo americano non accetterebbe una guerra d’aggressione. Mi riferisco piuttosto alla possibilità di ottenere un equilibrio di potenza sufficiente a far superare il debilitante timore di un’aggressione sovietica e in seguito, da questa sicura posizione di forza, intraprendere una serie di iniziative tese da un lato a rimuovere nel mondo non sovietico le cause delle controversie economiche e sociali su cui il comunismo prospera, dall’altro a creare attive contromisure che minino la base della potenza sovietica.

Il Patto Atlantico tende proprio a sottolineare la comune consapevolezza da parte dei nostri paesi che solamente dall’azione congiunta si può sperare di ottenere lo scopo che ci è comune, senza pagare uno scotto schiacciante che alla fine potrebbe spingerci ad adottare misure di stampo totalitario. Perciò, questa sera desidero andare oltre le tematiche insite nel Patto Atlantico ed esporvi con un approccio globale l’essenza della politica comune necessaria per perseguire il nostro proposito. Mi rendo conto che la maggior parte di ciò che dirò creerà in molti di voi alcune perplessità, come anche che il mio discorso presuppone una comune linea d’azione e una comune sensibilità, circostanze cioè che in pratica sono molto difficili da ottenersi; l’accettazione del mio discorso comporta inoltre il sacrificio di alcuni tradizionali obiettivi economici e di sicurezza; ciò potrebbe rendere l’accettazione non particolarmente auspicabile da parte vostra. Ma, nell’odierno stato di crisi che caratterizza la nostra era, ritengo che grandi problemi richiedono grandi decisioni e che la prioritaria necessità di fermare l’Urss ci costringa a sacrificare quelli che di fatto sono obiettivi secondari al crescente bisogno di sviluppare una politica fruttuosa, capace in primo luogo di garantire la nostra sopravvivenza e secondariamente di far trionfare l’Occidente.

 

La nostra opinione è che al problema esistano solo due soluzioni. La prima consisterebbe nel battere i sovietici con le loro stesse armi – un vasto programma di riarmo e una spietata soppressione del comunismo nei nostri paesi. Tale soluzione è tuttavia impraticabile negli Stati democratici. Riguardo al primo punto infatti è assai improbabile che il governo degli Stati Uniti o della maggioranza dei vostri paesi possa riuscire a far accettare di buon grado un programma di riarmo ai propri popoli. Sebbene i governi eletti possano in una qualche misura orientare l’opinione pubblica, in ultima analisi essi devono conformarsi ai sentimenti dell’elettorato. Posso assicurarvi che l’attuale governo americano, su cui dovrebbe gravare il maggior peso del fardello, in questo momento non può prendere in considerazione questo approccio. In ogni caso dal punto di vista economico questo programma non sarebbe praticabile in Europa occidentale, dove la maggior parte delle risorse deve ancora essere devoluta alla ricostruzione. Negli Stati Uniti invece ciò comporterebbe l’imposizione di controlli economici, circostanza che, visto l’attuale clima che si respira nel Congresso e nell’opinione pubblica, rende il tutto impossibile.

Riguardo al secondo punto invece si arriverebbe alla violazione delle istituzioni fondamentali che stiamo cercando di preservare. Sopprimere i partiti comunisti potrebbe anche non essere d’estrema utilità, mentre in vece potrebbe inquinare la fiducia nelle libertà civili e promuovere un clima di tipo autoritario. Enormi spese di riarmo, con annessi controlli sull’economia, potrebbero pure sortire lo stesso effetto. Non ultimo, ciò comporterebbe la diversione di risorse dai programmi di benessere economico e sociale sui quali noi contiamo molto per rimuovere quelle cause che promuovono il comunismo all’interno dei nostri confini; questi programmi sono mezzi efficaci contro il comunismo interno almeno quanto lo sono le armi contro l’Urss. In oltre, un riarmo da parte americana ridurrebbe la scala dei nostri programmi d’aiuti verso l’estero, incluso l’aiuto tecnologico, al punto da inficiare la ricostruzione e lo sviluppo economico oltreoceano.

Infine, dobbiamo prendere in considerazione l’effetto di un vasto riarmo occidentale sull’Urss; in particolare dovremmo soffermarci sul pericolo che ciò potrebbe spingere il Cremlino a considerare la possibilità di una guerra preventiva. Dobbiamo infatti avere ben presente che, a dispetto dell’enorme potenziale di guerra americano, le nazioni occidentali sono praticamente disarmate e non hanno nessuna possibilità di impedire che le cinquecento divisioni sovietiche schiaccino l’Europa occidentale e la maggior parte dell’Asia. Per stare tranquilli, noi abbiamo la bomba atomica; ma è bene che consideriamo le attuali limitazioni di carattere strategico al suo impiego e anche il grosso problema di assoggettare un impero che si estende dalla Kamčatka allo Skagerrak con quest’arma, per non parlare poi della necessità di doverla eventualmente usare contro i nostri alleati dell’Europa occidentale quando fossero occupati. In ogni caso, anche se un giorno potremmo respingere un attacco sovietico, ciò comporterebbe uno sforzo di incalcolabile grandezza; anche se la futura vittoria fosse sicura, le conseguenze per gli Stati Uniti, ma soprattutto per l’Europa occidentale, potrebbero essere disastrose.

Esiste tuttavia un altro tipo di politica, più consono alle nostre capacità, che, se perseguito in modo consistente e vigoroso, con piena cooperazione da parte di ogni partner, offre grossa speranza di successo. Il punto su cui tutti i nostri servizi di spionaggio insistono è che l’Urss al momento non tende a trasformare la guerra fredda in calda. Sebbene abbia compreso che il tempo in cui otteneva sostanziali guadagni grazie ai continui mutamenti successivi alla seconda guerra mondiale sia ormai finito, il Cremlino, almeno apparentemente, crede nella possibilità di un eventuale decesso del capitalismo occidentale e ritiene che sia il caso di attendere l’anticipata crisi dell’economia americana cercando di avvicinare il più possibile il proprio potenziale militare a quello dell’Occidente. Non dobbiamo tuttavia illuderci su quale sia l’obiettivo di fondo sovietico. A dispetto di qualsiasi spostamento tattico verso una politica di superficiale cooperazione in linea con la dottrina leninista del flusso e riflusso i partiti comunisti occidentali continueranno i loro tentativi di minare le basi della società occidentale. Quindi noi dobbiamo guardare al tempo in cui l’Urss, moltiplicato il proprio potenziale economico – in particolare la capacità scientifica di produrre nuove armi – e assimilati i paesi satelliti in Europa e in Asia, si sentirà in grado di sfidare con la forza un Occidente relativamente più debole.

Noi ancora confidiamo, sulla base dei nostri calcoli più ottimistici, di poter contare su diversi anni di respiro. Il nostro governo crede che i membri del Patto Atlantico e tutte le altre nazioni ben orientate debbano utilizzare pienamente questo periodo per sviluppare una politica comune che ci dia modo di affrontare tranquillamente il futuro, e anche di andare noi stessi all’offensiva nella guerra fredda. Dobbiamo considerare che il nazionalismo sovietico è dinamico; deve per forza espandersi e il solo modo per sconfiggerlo non consiste nel suo mero contenimento, ma nel portare la guerra ideologica nella sfera sovietica. Di conseguenza, vorrei illustrarvi sei punti chiave della politica che gli Stati Uniti ritengono essenziale proseguire. Come ho detto in precedenza, sarà assai arduo far accettare nei nostri paesi questa politica, che richiede il sacrificio di alcuni obiettivi nazionali tradizionali. Molti di questi punti presuppongono rischi calcolati riguardo ai quali va fatta una prudente analisi prima di qualsiasi decisione politica. Su questi argomenti prevediamo preliminarmente un ampio scambio di idee. Ma è importante che tutto ciò avvenga tenendo ben presente il nostro obiettivo di fondo, affinché si esamini ogni politica non dal punto di vista degli effetti immediati, ma come parte di un grande disegno. Signor Segretario, vuole illustrare il primo punto?

SEGRETARIO DI STATOAbbiamo l’impressione che nessun’altra questione determina una maggiore varietà di opinioni fra le nazioni del Patto Atlantico quanto quella relativa alla Germania e al Giappone. Il punto di vista americano è semplicemente questo. Noi vediamo Germania e Giappone come centri – al momento neutralizzati, ma inevitabilmente destinati a risorgere – di grande potenza, posti fra l’Urss e l’Occidente. Non vi è dubbio alcuno che l’Urss si ponga come obiettivo principale l’assorbimento della Germania nell’orbita sovietica. Vi sono già segnali che l’Urss sta invertendo la dura politica economica di saccheggio della Zona orientale e sta incoraggiando la rinascita del nazionalismo tedesco con l’idea che una rinata Germania, alleata con i sovietici, sarebbe quasi imbattibile. Naturalmente il Cremlino è ben conscio che la Germania potrebbe puntare a est come a ovest, ma spera di evitarlo mediante lo stretto controllo del partito comunista. Dal punto di vista occidentale, anche noi ci rendiamo conto dei pericoli insiti nell’incoraggiare la rinascita tedesca. Crediamo tuttavia che i vantaggi di orientare la Germania verso Occidente e di controbattere le mosse sovietiche giustifichino il rischio calcolato.

Qualsiasi politica alleata che non consenta una ragionevole opportunità di rinascita tedesca può spingere quella nazione fra le braccia dell’Urss. Di conseguenza, sollecitiamo le potenze occidentali ad adottare una comune politica di sostegno alla rinascita economica tedesca, accelerando lo sviluppo di istituzioni democratiche e combattendo attivamente la sovversione comunista. Tale politica non prevede l’abbandono di adeguati controlli di sicurezza mediante il divieto di mantenere alcuni specifici tipi di impianti industriali e mediante restrizioni sulle forze armate, se non addirittura proibendone del tutto la formazione. L’opinione dei nostri esperti sulla Germania è che bisogna incoraggiare un governo tedesco occidentale ragionevolmente centralizzato con opportuni freni e bilanciamenti fra il potere federale e quello statale, rimuovendo altresì le restrizioni alla ricostruzione economica tedesca e integrando gradualmente la Germania nel blocco europeo occidentale…

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Intervista a Guido Salvini:

 

 

N.A.T.O., Gladio e la strategia della tensione – Three Monkeys Online

Nell’agosto del 1990, il Primo Ministro italiano, Giulio Andreotti, affermò che in Italia durante la Guerra Fredda, è esistito un esercito segreto chiamato Gladio. Le sue rivelazioni destarono clamore, non solo perché ammetteva ciò che era stato a lungo negato (anche dallo stesso Andreotti quando fu sottoposto ad una inchiesta giudiziaria nel 1974 nelle vesti di Ministro italiano della Difesa), ma perchè continuò a sostenere che c’era una rete di eserciti segreti del tipo ‘stay behind‘ [N.d.T.: questo era il vero nome di Gladio] che operava in tutte le nazioni facenti parte della NATO. In breve, questa fu una questione che non coinvolgeva solo l’Italia.

Man mano che i dettagli venivano resi noti, la storia diventava ancor più inverosimile. Sulla scia della Seconda Guerra Mondiale, all’inizio della Guerra Fredda, le agenzie dell’intelligence, guidate essenzialmente da Inghilterra e Stati Uniti, hanno stabilito una rete d’agenti e di eserciti segreti attraverso l’Europa, una rete che sarebbe rimasta segreta ma attiva durante la Guerra Fredda. Una rete militare non regolata, equipaggiata con armi pesanti.

Lo scandalo che ne derivò, e che attraversò l’Europa, fu messo in sordina dallo scoppio della prima Guerra del Golfo (Saddam Hussein invase il Kuwait nell’agosto del 1990) e quindici anni dopo l’affermazione di Andreotti, Gladio e la rete della NATO [di eserciti] stay-behind, restano in larga misura un argomento con un gran numero di domande non risposte. Il lettore occasionale potrebbe chiedersi il perché di tutto questo interesse verso una struttura segreta della Guerra Fredda. In parte perché ci sono troppi dubbi irrisolti. L’esistenza di una rete è un dato di fatto. Ciò è stato confermato, finora, da diversi capi di stato, da tre indagini parlamentari (Italia, Belgio, Svizzera), e non meno importante, da una strana smentita* e successiva conferma dell’esistenza da parte della stessa NATO nel 1990. Ed ancora, lasciando da parte coloro che sono coinvolti nella rete, poche persone sanno in realtà come funzionava tale rete, o come definiva il proprio ruolo. Ci sono prove sufficienti e testimonianze personali per sostenere, al limite, legami fortuiti con i gruppi terroristi di destra, attivi negli anni ’70 ed ’80, o per di più si potrebbe asserire che questa stessa rete era addirittura responsabile dell’implementazione della cosiddetta ‘strategia della tensione’: l’uso deliberato di terrorismo per far passare gli elettori di una data nazione, spaventati, verso destra, verso un governo quindi caratterizzato da ‘giustizia e ordine’. Le domande non hanno risposta perché, durante le indagini parlamentari, quando si ricerca il soggetto da indagare, prima o poi ci si imbatte in disposizioni di segreti di stato. Sottolineando la natura ‘off-limits’ del tema, pare che un diplomatico della NATO abbia asserito “Non mi aspetterei una risposta a troppe domande, anche se la Guerra Fredda è finita. Le prove di un presunto legame con il terrorismo, se questo esisteva, sono ben nascoste”.[ Reuters, 15 Novembre 1990].

Tra coloro che cercano risposte in merito, compare il dottor Daniele Ganser, uno storico svizzero e capo del gruppo di ricerca presso il Centro per gli Studi sulla Sicurezza dell’Istituto Federale di Tecnologia (ETH) a Zurigo, autore del libro “NATO’s Secret Armies – Operation Gladio and Terrorism in Western Europe” [N.d.T. : Gli eserciti segreti della NATO – Operazione Gladio e terrorismo in Europa Occidentale].

Ciò che Ganser pone subito in rilievo a proposito delle origini della rete, è il bisogno di considerare l’atmosfera dell’immediato dopo-guerra per capire i motivi che ne stanno alla base. “Si deve sottolineare il fatto che alcuni di questi erano uomini davvero rispettabili”…

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Franco Fracassi – The Italy Project

 

 

La vedova del prefetto Sodano…

 

 

Strage di Bologna, i giudici sono certi: coinvolti la P2 e i servizi segreti – Stefano Baudino

La terribile strage di Bologna del 2 agosto del 1980, in cui rimasero uccise 85 persone, contribuirono i servizi segreti di Federico Umberto D’Amato e la P2 di Licio Gelli. È questa la convinzione dei giudici della Corte d’Assise di Bologna, messa nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo a carico di Paolo Bellini, ex terrorista di Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore materiale del massacro assieme agli estremisti neri Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini.

La Corte parte dalla “constatazione della prova granitica della presenza di Bellini il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna”, il quale “fu ripreso in alcuni fotogrammi di un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che si riferiscono ad un momento di pochi minuti successivo alla deflagrazione”. Tale conclusione è autorizzata dall’”avvenuto riconoscimento dell’imputato in termini di certezza da parte di Maurizia Bonini (ex moglie di Bellini, che ha identificato nell’ex coniuge l’uomo ripreso a camminare nell’area del binario 1 della stazione nel filmato registrato pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, Ndr) all’udienza del 21 luglio 2021″.

Da Bellini, però, il discorso si sposta su piani superiori. “Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo – dicono i giudici – che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel ‘Documento Bologna‘, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato (ex direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, iscritto alla P2, Ndr) la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”. Il “Documento Bologna“, ritrovato tra le carte di Gelli nel 1982 e analizzato nel processo ai mandanti della strage di Bologna nel 2021, riporta movimenti finanziari e destinatari per un totale di 15 milioni di dollari, veicolati da Gelli su conti off-shore e poi distribuiti in contanti pochi giorni prima dell’attentato.

I giudici evidenziano che “anche un terrorista della nuova generazione come Fioravanti, nella sua smania di protagonismo, si avvicinò progressivamente ad elementi di spicco del neocostituito gruppo ‘Costruiamo l’Azione‘ come Paolo Signorelli e Fabio De Felice, i quali a loro volta erano strettamente legati ai servizi segreti e a Licio Gelli”. La Corte asserisce che “la prossimità di Fioravanti ai soggetti sopra menzionati, così come i suoi accertati rapporti diretti con Licio Gelli, inducono a ritenere che l’idea di colpire Bologna nacque in quello stesso contesto e fu coordinata da un livello superiore, avvalendosi anche dell’opera dei servizi deviati“. In quella fase, Fioravanti “era considerato sul piano operativo il soggetto più determinato ed incontenibile e, dunque, di fronte all’invito a partecipare ad un’impresa così eclatante, si poteva prevedere che non si sarebbe tirato indietro”. Altri esecutori materiali “furono scelti, probabilmente da figure di vertice dell’eversione nera o forse da esponenti dei servizi, tra personaggi che offrivano garanzie assolute di riserbo, per la loro appartenenza politica o per la loro condizione di latitanza”. A muoversi “dietro a tale macchinazione”, in base a “consistenti indizi”, c’era proprio “Licio Gelli”.

La Corte si sofferma sulle ragioni sottese all’organizzazione dell’attentato, che sono da ricondurre a un chiaro disegno politico. Riprendendo la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha individuato nella strage di Bologna la realizzazione della strategia della tensione ufficialmente aperta con la strage di Portella della Ginestra, i giudici sostengono che tale analogia sia “importante perché consente di cogliere, come e ormai pacifico per quel lontano evento del 1947, un filo nero, che giunge a Bologna, di azioni coordinate e connesse per interferire sui libero e autonomo sviluppo della politica nazionale da parte di forze esterne, generalmente legate agli esiti del secondo conflitto mondiale”. La “causale plurima” della strage trova infatti le sue radici “nella situazione politico-internazionale del paese e nei rapporti tra estremisti neri e centrali operative della strategia della tensione sui finire degli anni Settanta”.

In questa cornice agirono, dunque, “Gelli, la P2, i servizi segreti e quel centro occulto di potere coagulatosi intorno all’ex capo dell’Ufficio affari riservati”. La strage di Bologna, secondo la Corte, ha infatti visto il ruolo di mandanti “nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage di Bologna”.

Per i giudici, “anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”. Tra gli obiettivi, vi erano infatti la “necessità di impedire ogni prospettiva di accesso della sinistra al potere in Italia” e “l’attuazione del Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli “attraverso l’impiego misurato della strategia delle bombe”, in un quadro “di guerra psicologica, di provocazione e di preparazione dell’opinione pubblica al taglio delle ali estreme del sistema politico”.

da qui

 

 

La regia della Nato nella strategia della tensione – Saverio Ferrari

L’ultima inchiesta sulla strage di piazza della Loggia a Brescia. 

Il 20 dicembre scorso la Procura dei minori e quella ordinaria del Tribunale di Brescia, guidata da Francesco Prete, hanno congiuntamente, con uno stringato comunicato ufficiale, notificato l’avvenuta chiusura delle indagini relative all’ultima inchiesta sulla strage di piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974, quando una bomba occultata in un cestino porta rifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista.

Otto furono i morti, e oltre cento i feriti. L’attentato ha già due colpevoli, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo l’unico rimasto in vita, ambedue appartenenti al gruppo nazifascista di Ordine nuovo (Maggi in posizione di vertice), condannati all’ergastolo con sentenza definitiva da parte della Cassazione il 22 giugno 2017.

L’inchiesta appena conclusa della Procura minorile riguarda Marco Toffaloni che nel 1974 non aveva ancora 17 anni, attualmente residente in Svizzera, mentre la Procura ordinaria ha indagato Roberto Zorzi, 68enne residente negli Stati Uniti. “L’impianto accusatorio che emerge – hanno sottolineato gli inquirenti – inserirebbe la posizione degli odierni indagati, senza fratture, nel quadro già tracciato dal precedente processo”. Si confermerebbe ulteriormente, anche con questa nuova indagine, che la strage fu eseguita da Ordine nuovo, l’organizzazione fondata da Pino Rauti.

Le carte raccolte constano di circa 280mila pagine, a partire dai primi atti che ormai risalgono al novembre 2010. Si è ora in attesa della richiesta finale di rinvio a giudizio.

I vivi e i morti

Marco Toffaloni ha ora 64 anni. Veronese di nascita, soprannominato in quegli anni alla tedesca “Tomaten” (“Pomodoro”), perché arrossiva spesso, è oggi cittadino svizzero. Muller è il suo nuovo cognome. Secondo Giampaolo Stimamiglio, collaboratore di giustizia, classe 1951, un tempo in Ordine nuovo con una posizione di rilievo, Toffaloni, alludendo alla strage di Brescia, si confidò con lui dicendogli in dialetto veronese “Son sta mi” (deposizione del 6 aprile 2011). A conferma anche una fotografia che lo ritrae in piazza della Loggia, la mattina del 28 maggio 1974, nell’immediatezza della strage, mentre osserva i corpi straziati sul selciato. Che fosse proprio lui lo ha stabilito nell’ottobre 2014 una perizia antropometrica con un giudizio di “identità piena”.

Roberto Zorzi è stato invece accusato, tra il febbraio e il marzo 2015, da alcuni suoi ex camerati. Uno di loro, parlando della “partecipazione dei veronesi”, ha esplicitamente asserito che era stato proprio “Roberto” ad avere “fatto il botto”. Cosa “nota” nell’ambiente ordinovista, dove veniva chiamato “Il Pirata”. Ora vive negli Stati Uniti, a Seattle, dove addestra dobermann in un allevamento intestato al “Fascio littorio”.

Le indagini non hanno riguardato solo Toffaloni e Zorzi, con la ricostruzione del loro passato politico: dai legami con il gruppo cattolico integralista dei Guerriglieri di Cristo Re ad Anno Zero, dietro ai quali in realtà manovrava Ordine nuovo. Zorzi nel 1980 si candidò anche per l’Msi al consiglio comunale di Verona, non venendo eletto. Anche altri sono entrati nel mirino dell’inchiesta. Una figura in particolare è stata a lungo indagata, Roberto Besutti, classe 1942, ex sergente dei parà, tra i dirigenti massimi del movimento politico Ordine nuovo, originario di Mantova ma gravitante su Verona, dove insieme ad Elio Massagrande costituiva il perno dell’organizzazione. Giampaolo Stimamiglio ha anche riferito che fu proprio Toffaloni a rivelargli come Besutti lo avesse “supportato” nella strage di Brescia consegnandogli “l’ordigno”. Besutti è deceduto nel 2012 e Massagrande ancor prima, nel 1999.

Un “Supertestimone”

Nell’inchiesta compare anche un “Supertestimone”, il cui nome al momento, per evidenti ragioni di tutela, non è stato fatto trapelare. I suoi numerosi verbali hanno disvelato l’intreccio tra neofascisti, sull’asse Verona-Brescia, apparati statali, servizi segreti e ufficiali Nato, che ha fatto da sfondo non solo alla strage di piazza della Loggia ma all’intero periodo della Strategia della tensione. Dalle deposizioni emergerebbero, con tanto di riscontri, come Ordine nuovo fosse stata protetta da figure apicali dell’Arma dei Carabinieri (prodiga nel fornire anche esplosivi) e della Questura di Brescia. Ma anche che si fossero tenute più volte riunioni tutti insieme per preparare attentati e progettare soluzioni golpiste, in una caserma dei Carabinieri a Parona Valpolicella (periferia nord di Verona), nella sede segreta del Sid (Servizio informazioni difesa) in via Montanari, sempre nella città scaligera, e a palazzo Carli (presente Marco Toffaloni), dal 1951 al 2004 sede del Comando Fatse (Comando forze terrestri alleate per il Sud Europa), in via Roma, ancora a Verona. Stiamo parlando del comando Nato più importante dopo Napoli. Da queste ricostruzioni Verona si rivelerebbe essere stata la città cardine per molti avvenimenti eversivi, certamente la “capitale” di Ordine nuovo che qui aveva il proprio baricentro.

La strage mancata al Blue Note

Il “Supertestimone”, interno all’ambiente nazifascista bresciano, ha anche consentito di ricostruire la figura di Silvio Ferrari, classe 1953, con un ruolo centrale, per quanto giovanissimo, nell’ambito dei rapporti con i Carabinieri (pagato anche come informatore), con il Sid e gli ufficiali della base Nato di Verona. Morì il 19 maggio 1974, nove giorni prima della strage di piazza della Loggia, alle 3.05 di notte, nei pressi di piazza del Mercato a Brescia, in seguito all’esplosione della bomba che portava sulla pedana della sua Vespa. Secondo i rilievi la causa dello scoppio non fu accidentale ma dovuta a un errore di regolazione della sveglia.

Nelle intenzioni iniziali di Ordine nuovo c’era l’idea di compiere una strage al Blue Note, uno dei primi locali gay a Brescia sito in corso Milano, particolarmente frequentato il sabato. Ad attuarlo doveva essere lo stesso Ferrari. “Seppi dallo stesso Silvio” – a parlare è il “Supertestimone” – “che al “Blue Note” sarebbe stata messa una bomba e che proprio lui avrebbe dovuto collocare l’ordigno. […] Non posso ricordare i discorsi di 40 anni fa, ma lui mi dava una spiegazione politica: questo attentato avrebbe aiutato la destra, o meglio avrebbe aiutato a far venire in Italia un regime militare. Più volte avemmo occasione di parlare di questo attentato nei mesi che precedettero la sua morte. Egli mi precisò che agiva per i carabinieri ed erano i carabinieri che volevano questo attentato” (deposizione del 16 dicembre 2015).

L’attentato fu evitato da Ermanno Buzzi e dal suo gruppo con alcune telefonate anonime la sera di sabato 18 maggio, verso le 22.30, che segnalavano l’esistenza di una bomba nella discoteca. Da qui un cambio di programma e il girovagare di Silvio Ferrari a notte fonda in Vespa con un ordigno. Forse verso la sede del Corriere della Sera. Buzzi, indicato per anni come un semplice delinquente comune, in realtà intratteneva stretti rapporti con tutta l’area del terrorismo neofascista. Condannato all’ergastolo nel primo processo per la strage di piazza della Loggia, venne poi assassinato nell’aprile del 1981 dai terroristi neri Pier Luigi Concutelli e Mario Tuti alla vigilia dell’appello, nel carcere di Novara, per il timore che parlasse.

Ludwig: una filiazione di Ordine nuovo

Nelle carte viene anche riscritta la storia di Ludwig, la setta neonazista che tra il 1977 e il 1984 si attribuì la responsabilità di 15 omicidi, tra loro nomadi, omosessuali, tossicodipendenti, sbandati e prostitute, tutti esseri considerati non degni di vivere, da “punire” senza pietà, come scritto nei messaggi di rivendicazione. Proseguì con frati e sacerdoti, ritenuti non in “linea” con una certa condotta religiosa, con il “vero Dio”, per finire con i frequentatori di locali notturni e a luci rosse.

Grazie alla documentazione emersa ora sappiamo che fu Ordine nuovo a figliare Ludwig, a Verona, con ben più di due persone al suo interno, non solo Wolfgang Abel e Marco Furlan. Una di queste, secondo le testimonianze, era proprio Marco Toffaloni. Con buona pace delle perizie psichiatriche e delle sentenze che ridussero il caso a una questione di follia individuale. Niente di tutto ciò. L’azione di Ludwig viene dunque, in sede storica, ricollocata a pieno titolo nel contesto della Strategia della tensione segnata da bombe e manovre eversive, certamente attive fino agli anni Ottanta.

Un patrimonio storico

La strage di piazza della Loggia, come l’eccidio di piazza Fontana, non furono solo “Stragi di Stato” ma anche “Atlantiche”. I neofascisti vi svolsero il ruolo di manovali.

Non sappiamo se questa inchiesta sfocerà in un nuovo processo. Quel che è certo il fatto che le testimonianze, la documentazione e i riscontri raccolti costituiscono un contributo fondamentale per rivedere la storia di quegli anni. Una storia di eversione dell’ordine democratico con una regia di apparati di intelligence, statali e della Nato attraverso le sue basi in Italia.

da qui

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