intervista
di Paolo Andruccioli a Maria
Cecilia Guerra
Per Maria Cecilia Guerra il sistema fiscale italiano, sempre più iniquo e
categoriale, favorisce la frantumazione sociale e l’evasione. Su patrimoniale e
tasse ai super ricchi c’è troppa ipocrisia e poco coraggio. Ma si possono
ridurre le diseguaglianze, redistribuendo il prelievo e rifinanziando il
welfare.
Il fenomeno della diseguaglianza è in aumento ed è
dimostrato da varie analisi e ricerche. Fonti istituzionali, come Banca
d’Italia o Istat, confermano la crescita dei divari mentre a livello
internazionale la globalizzazione pare aver favorito lo sviluppo di alcuni
paesi riducendo le distanze tradizionali (Usa-Cina per esempio). Quali sono le
cause principali della diseguaglianza? Ci sono tratti comuni del fenomeno tra i
paesi od ogni realtà fa caso a sé?
Il fenomeno
delle diseguaglianze può essere letto in molti modi, così come sono diversi gli
indicatori che ci permettono di misurarla. Se si considera la diseguaglianza
economica, ad esempio, è fondamentale capire se si fa riferimento ai redditi
individuali o familiari e se ci si riferisce al reddito prima dell’intervento
pubblico, o al reddito disponibile, che considera anche i trasferimenti
monetari dallo Stato e le imposte. La disuguaglianza nei redditi disponibili
familiari, nel nostro Paese, è molto alta. All’interno dell’Unione Europea,
l’Italia è fra i Paesi in cui il valore dell’indice di Gini – uno degli
indicatori più diffusi per esaminare il fenomeno – è più elevato, battuta
soltanto, secondo i dati del 2020, da Bulgaria, Lettonia, Lituania e Romania.
Non è
consolante vedere che questa diseguaglianza, così alta, dei redditi disponibili
è rimasta sostanzialmente costante nel ventennio 2000-2020. Non lo è anche per
altre considerazioni, che hanno a che fare con la dinamica del fenomeno. Ad
esempio, se si allarga lo sguardo anche alla diseguaglianza nella ricchezza, si
vede che questa non solo è più alta di quella dei redditi, ma che è anche
cresciuta nel periodo della recessione, fra il 2016 e il 2020. Inoltre, è ormai
noto che le rilevazioni campionarie, sui cui dati si basa la costruzione degli
indici, non sono molto in grado di rappresentare le code della distribuzione:
la situazione e la dinamica dei redditi delle persone molto povere (i gravi
casi di marginalità sociale) e di quelle molto ricche (i cui redditi non sono
sempre pienamente tracciabili).
Ci sono strumenti per capire le dinamiche della
diseguaglianza nelle code della distribuzione?
Nell’ultima
indagine sui bilanci delle famiglie, riferita al 2020, la Banca d’Italia ha
messo a punto una metodologia adeguata a meglio rappresentare questi segmenti
della popolazione. Ne è emerso un indice di Gini sensibilmente più alto. Allo
stesso modo, altri studi che usano dati di tipo diverso, anche fiscali e
amministrativi, mostrano ormai inequivocabilmente, anche per l’Italia, la
crescente maggiore concentrazione dei redditi nella parte alta e molto alta
della distribuzione, un fenomeno che si registra in diversi altri paesi, e
testimoniato, in particolare, da più tempo e con ancora maggiore intensità, con
riferimento agli Stati Uniti.
Quali sono le cause principali di questi fenomeni?
Le cause di
questi fenomeni sono tante. Hanno a che fare, in primo luogo, con il
funzionamento dei mercati, la loro non regolazione che permette il formarsi di
situazioni di monopolio non adeguatamente contrastate e la polarizzazione del
mercato del lavoro, anche a fronte dell’evoluzione delle tecnologie digitali.
Pesa moltissimo anche la diversa distribuzione territoriale dell’intervento
pubblico e quindi dell’accessibilità a servizi essenziali, nel campo del
welfare e delle infrastrutture. Nel nostro paese assume poi un ruolo
particolarmente rilevante la trasmissione intergenerazionale delle
diseguaglianze, che si traduce in una correlazione molto forte, non solo fra
patrimonio dei figli e patrimonio dei genitori, cosa facilmente comprensibile,
anche in ragione della poca rilevanza delle imposte di successione nel nostro
paese, ma anche della correlazione fra redditi dei figli e redditi dei
genitori. Una correlazione così ampia implica che non agiscono fattori di
mobilità sociale adeguati che permettano alle persone di uscire dalla
condizione di difficoltà ereditata. La trasmissione della diseguaglianza passa
per canali non solo economici ma anche di ambiente di vita. Grado di
istruzione, territorio di residenza, disponibilità di servizi su quei
territori, condizione abitativa, relazioni familiari ecc. Come ben documentato,
in particolare, dai tanti lavori di Franzini e Raitano.
Quali sono le conseguenze sociali e politiche della
diseguaglianza?
La
diseguaglianza ha conseguenze significative in tutti i campi. E le ha in modo
particolare proprio perché, in larghissima misura, non dipende dallo sforzo
individuale e quindi da quello che chiamiamo merito. Gli studi economici
esistenti hanno dimostrato, in contesti diversi, il legame negativo che esiste,
in particolare, non solo fra diseguaglianza e crescita economica, ma anche fra
diseguaglianza e cambiamenti climatici (ma è vero anche che i cambiamenti
climatici concorrono ad alimentare la diseguaglianza) e fra diseguaglianza e
democrazia.
Si parla quasi sempre di diseguaglianza tra ceti
sociali molto distanti: i ricchissimi e i poveri. Ma ci sono anche
diseguaglianze “interne” ai diversi ceti e perfino a livello famigliare (le
differenze di genere, per esempio). Si può descrivere sociologicamente questo
tipo di diseguaglianza? E quali le ricadute politiche?
La lettura
delle diseguaglianze fra ricchi e poveri si riferisce alla dimensione economica
del fenomeno. Le diseguaglianze, però, hanno tante dimensioni. Meglio sarebbe
fare riferimento alle diseguaglianze di benessere. Quelle principali, con
riferimento al nostro paese, sono emerse, ad esempio, nel dibattito attorno al
Pnrr, e sono state individuate nelle diseguaglianze territoriali, in quelle
generazionali e in quelle di genere. Ognuna di queste ha cause e richiede risposte
differenziate. In estrema sintesi, per quanto riguarda quelle territoriali è
necessario intervenire sulla diversa distribuzione sia dei servizi pubblici, a
partire dagli asili nido, che aprano migliori opportunità anche ai bimbi che
nascono in contesti più poveri, non solo economicamente ma anche culturalmente,
sia delle infrastrutture, prime fra tutti i trasporti, che permettano di uscire
dall’isolamento. Per quanto riguarda quelle generazionali, le carenze più
grosse riguardando il mercato de lavoro e la sua crescente precarizzazione, che
coinvolge soprattutto i giovani, unitamente all’assenza di politiche per la
casa, che riduce la possibilità di accedere in tempi umani a una propria
autonomia rispetto alla famiglia di origine.
Per quanto
riguarda le donne, le diseguaglianze hanno radici profonde nell’organizzazione
sociale ed economica del nostro paese, che non ha mai trovato una risposta
collettiva al problema cruciale del lavoro di cura: cura delle persone anziane,
delle persone con gravi disabilità e dei minori. Le donne sono quindi limitate
nel loro accesso al mercato del lavoro, ma anche alla partecipazione attiva
alla politica, dal peso assolutamente sproporzionato di lavoro di cura che
grava sulle loro spalle. La risposta come ovvio non è solo nell’ampliamento dei
servizi pubblici di cura, ma anche in un cambiamento culturale che spinga verso
un riequilibrio dei ruoli, a una condivisione di responsabilità, nella sfera
domestica.
Le politiche fiscali possono essere inserite tra le
cause della diseguaglianza? O al contrario politiche fiscali diverse da quelle
finora praticate in Italia potrebbero aiutare a colmare i divari?
La finalità
principale del sistema fiscale è quella di finanziare il settore pubblico, per
le funzioni che deve svolgere, democraticamente decise, fra cui,
prioritariamente, garantire l’offerta dei servizi e dei beni comuni, che
contribuiscono al benessere dell’intera cittadinanza. Questi beni e servizi non
sono offerti in una logica di controprestazione: gli individui non sono cioè
chiamati a contribuire in relazione all’utilità che derivano dal godimento
diretto dei singoli beni, come sarebbe nel caso in cui si acquistasse un
prodotto sul mercato e se ne pagasse il prezzo. Sono invece finanziati
secondo una logica di capacità contributiva. Si chiede cioè ai cittadini di
contribuire in relazione alla loro capacità di pagare, capacità che viene
individuata con riferimento principalmente al loro reddito, ai loro consumi e
al loro patrimonio. Nella misura in cui si chiede di contribuire in una
proporzione più alta a chi ha maggiore capacità contributiva e quindi maggiori
possibilità economiche, il sistema assolve anche una funzione redistributiva.
Ciò significa che il reddito al netto delle imposte è, in questo caso, più equamente
distribuito rispetto al reddito lordo. Questo effetto redistributivo dipende
fondamentalmente da due fattori: la progressività delle imposte e il loro peso.
Un’imposta fortemente progressiva, ma riferita a una base imponibile molto
ridotta avrebbe capacità redistributive ridotte.
In questo momento siamo in presenza di una forte
difficoltà del sistema di assicurare una vera redistribuzione che applichi i
principi della Costituzione. Perché?
Nel nostro
sistema fiscale, la capacità redistributiva delle imposte è compromessa da
molti fattori. Il principale è sicuramente rappresentato dalla progressiva
erosione della base imponibile dell’unica imposta progressiva: l’Irpef,
l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Dalla base imponibile dell’Irpef
sono stati via via sottratti: i redditi finanziari, i redditi di lavoro
autonomo e piccola impresa che corrispondono a ricavi fino a 85.000 euro, i
redditi da locazione di fabbricati residenziali, larga parte dei redditi
dominicali e agrari e altri ancora, assoggettati a regimi speciali e con
aliquote proporzionali molto diversificate, molto spesso contenute. La base
imponibile dell’Irpef è quindi oggi composta, per circa l’85%, da redditi di
lavoro dipendente e di pensione. L’Irpef esercita una redistribuzione, efficace,
ma solo all’interno di queste categorie di reddito.
Cosa si può dire su una delle tasse più discusse,
l’Iva? E del sistema nel suo complesso?
L’imposta
sui consumi, l’Iva, che è la seconda imposta quanto a importanza, nel nostro
ordinamento, è moderatamente progressiva rispetto ai consumi delle famiglie
mentre è regressiva rispetto al loro reddito, soprattutto nella parte iniziale
della distribuzione. Un recente working paper del World Inequality Lab di Guzzardi, Palagi,
Roventini e Santoro (2022), che tiene conto delle diverse imposte ma anche
della diversa composizione del reddito degli individui nei vari
percentili, dimostra che nel complesso il nostro sistema fiscale è lievemente
progressivo rispetto al reddito, dal 25esimo percentile fino al 95esimo, con
una incidenza che passa dal 40 al 50%, ma poi, per il 5% dei soggetti con
redditi più alti (quelli con redditi superiori a 78.000 euro), diventa
regressivo, con una incidenza di circa il 37%. Questo è imputabile alla forte
presenza, specialmente nei livelli di reddito più alti, di redditi finanziari e
di impresa che beneficiano di tassazioni agevolate. Il 25% costituito dai
contribuenti più poveri è particolarmente penalizzato dalla regressività
dell’imposta sui consumi, che pesa molto, data l’incidenza dei consumi sui
redditi di questi contribuenti.
Da questo
importante studio (ma anche da altri) emerge anche che se si ordinano gli
individui dal più povero al più ricco, non in ragione del loro reddito ma della
loro ricchezza, il nostro prelievo fiscale è regressivo, rispetto alla
ricchezza, per tutta la distribuzione. Lo è nel suo complesso e lo è con
riferimento alle singole componenti del prelievo, che non sono mai progressive,
ma al più proporzionali.
Qual è la morale della favola? Una tassazione delle
grandi ricchezze e dei grandi patrimoni può favorire la giustizia sociale?
Le
conclusioni che si possono trarre da queste considerazioni sono le seguenti. In
primo luogo, il nostro sistema fiscale aiuta solo in piccola parte a combattere
le diseguaglianze. Questo ha a che fare con il modo in cui il peso delle
imposte è distribuito fra contribuenti. Bisogna comunque considerare che il
livello della tassazione nel nostro paese è sufficientemente elevato da potere
permettere il finanziamento di alcuni settori molto importanti di spesa
pubblica, segnatamente sanità e istruzione, che, pur con tutte le loro
limitazioni, svolgono invece un ruolo redistributivo e di riduzione delle
diseguaglianze di grande importanza.
Le evidenze
empiriche ricordate possono inoltre dare supporto alle proposte di introduzione
di un prelievo sulla ricchezza per i patrimoni più elevati, coerente anche con
le proposte avanzate, sulla base di analoga evidenza, per gli Stati Uniti, da
Saez e Zucman (2019).
Credo però
che sia necessario un ragionamento più ampio, che coinvolge l’intero sistema
fiscale. L’equità del nostro sistema di tassazione, e quindi il suo contributo
nel ridurre le diseguaglianze, deve essere raggiunta muovendosi su due
direttrici principali: aumentare l’equità orizzontale del prelievo, imponendone
la generalità e l’uniformità, in modo che tutti i redditi siano chiamati a
contribuire e che a parità di reddito si debba pagare pari imposta e, al tempo
stesso, aumentare la progressività del sistema.
Non ci si
deve però limitare al reddito, ma bisogna anche intervenire sulla tassazione
del patrimonio, la cui distribuzione, come si è detto, è ancora più diseguale
rispetto a quella dei redditi.
Una proposta
radicale in questo senso, che mi sento di condividere, è quella avanzata da
Vincenzo Visco e ripresa da ultimo nel suo libro “La guerra delle tasse”
(2023), che consiste nell’affiancare a un prelievo progressivo su tutti i
redditi di lavoro e pensione un prelievo, anch’esso progressivo sul patrimonio,
con un’ampia deduzione di base, in modo da lasciare esenti i piccoli patrimoni,
che assorba al suo interno anche la tassazione sui redditi prodotti da questi
patrimoni, finanziari e reali.
Che cosa pensa delle obiezioni di alcuni studiosi di
Scienza delle finanze su una applicazione concreta di una tassa sulle grandi
ricchezze? Quali sono le possibili scappatoie e le “fughe” dei ricchi, pensando
anche all’esperienza statunitense con il presidente Biden?
L’applicazione
di una imposta sulle grandi ricchezze può incontrare, sul piano pratico, le
stesse obiezioni riservate a una imposta personale e progressiva su tali
ricchezze come quella di cui ho parlato nella risposta precedente. In entrambi
i casi bisognerebbe infatti disporre di informazioni complete sull’intero
patrimonio di proprietà dei singoli soggetti. Se l’informazione non è completa,
la caratteristica comune alle due proposte, che è quella di richiedere di
potere ricondurre i patrimoni da tassare al contribuente che ne è proprietario,
viene meno. Si tratta di una sfida molto rilevante, perché richiede di avere
una anagrafe il più possibile completa e aggiornata dei patrimoni personali che
ancora non esiste. Senza questa anagrafe completa, l’imposta sulle grandi
fortune, così come la progressività di una imposta sull’intero patrimonio,
potrebbero essere aggirata attraverso la frammentazione del patrimonio in tanti
e diversi cespiti di importo minore. Anche per queste ragioni, una imposta
patrimoniale personale e progressiva è presente solo in alcuni Paesi. Non è
comunque una buona ragione per arrendersi. Passi in avanti si stanno facendo,
in particolare per quanto riguarda la possibilità di tracciare i capitali
mobili che si spostano nei paradisi fiscali. C’è infatti un interesse comune
dei diversi paesi a non perdere base imponibile subendo la concorrenza fiscale
di altri Stati. I progressi compiuti nello scambio di informazioni che
interessa ormai un centinaio di Stati, sono sotto questo profilo
particolarmente importanti. Anche se va fatto un investimento maggiore, a
partire dal nostro paese, per sfruttare al meglio i dati ottenuti.
E intanto, come sappiamo, la parola “patrimoniale” è
ormai un tabù intoccabile…
La
resistenza al prelievo patrimoniale nel nostro Paese raggiunge paradossi al di
fuori di qualsiasi logica. Da un lato “la patrimoniale” viene presentata come
una sorta di vendetta sociale invocata dalla sinistra. E si ignora bellamente
che in Italia la patrimoniale esiste già, articolata su ben quattro diversi
prelievi, che tassano il patrimonio immobiliare (con la rilevante eccezione
della prima casa non di lusso, e di larga parte dei terreni agricoli) e
mobiliare, detenuto sia in Italia che all’estero. Quindi il problema non è
l’introduzione di un’imposta sul patrimonio, ma, come al solito, quello della
sua equità, e del ruolo che le deve essere assegnato nella distribuzione del
carico tributario. In questo campo, ancora di più che in altri, le grida contro
ogni discussione seria sulla tassazione del patrimonio nascondono la volontà
delle persone con più ricchezza, e con molto più potere nella comunicazione
pubblica, di difendere i propri privilegi. Ne è un esempio evidente la
discussione sulla riforma del catasto, che non viene permessa, nonostante, a
parità di gettito, potrebbe beneficiare la maggioranza dei contribuenti che
pagano l’Imu, perché quelli che godono del privilegio di una tassazione bassa
su patrimoni che hanno acquisito maggior valore nel tempo, anche grazie a
interventi pubblici relativi a trasporti, zone verdi e servizi, hanno più
potere per opporsi.
Ci sono studiosi ed esperti del settore che criticano
la proposta di introdurre tasse per i super ricchi perché pensano sia
necessario intervenire “a monte”, laddove le diseguaglianze e le sperequazioni
si generano. Ha un senso questa obiezione? E comunque molti dicono che per
tentare di ridurre le diseguaglianze servono politiche di diversa natura, non
solo fiscali. Un intervento “interdisciplinare”?
Questo è un
punto molto importante. Se guardiamo all’andamento delle diseguaglianze nel
nostro paese, abbiamo un’evidenza chiarissima che le diseguaglianze sono
cresciute soprattutto nell’ambito dei redditi di mercato. La precarizzazione
del lavoro, che riduce il tempo lavorato, e le basse retribuzioni, addirittura
calate in termini reali in Italia negli ultimi decenni, hanno determinato
un’incidenza patologica del cosiddetto lavoro povero. La povertà di lavoro
individuale, che interessa circa un quarto dei lavoratori italiani, secondo il
rapporto presentato dal Ministero del lavoro nel 2021 (con una incidenza per
genere che, nel caso delle donne, arriva a quasi un terzo) è solo in parte
lenita dalla solidarietà famigliare. Quanto più queste distanze si
approfondiscono, tanto più è difficile correggerle con le politiche fiscali e
di welfare e cioè con politiche che redistribuiscano i redditi, e con essi
anche le ricchezze. Quindi una correzione dei meccanismi che generano le
diseguaglianze è fondamentale. Lo si può fare anche con meccanismi di
regolazione.
Sempre con
riferimento al mercato del lavoro ad esempio, una disciplina più rigorosa della
rappresentanza, che eviti i contratti pirata firmati da sindacati creati ad hoc
per derogare ai contratti nazionali, la validità erga omnes dei contratti, la
disciplina di un salario minimo che aiuti nei settori in cui la
sindacalizzazione fatica ad arrivare, la richiesta di motivazioni
circostanziate per le assunzioni a tempo determinato, che comunque non
dovrebbero mai eccedere una certa percentuale del complesso della manodopera e
così via, potrebbero essere di grande aiuto.
Come per la medicina quanto possono contare le
politiche pubbliche nella prevenzione?
In parte si
può intervenire sulla formazione delle diseguaglianze che si formano sui
mercati anche attraverso politiche pubbliche, fiscali e di welfare che agiscano
per prevenirle: mi riferisco in particolare a politiche che riducano il divario
nell’accesso all’istruzione, che favoriscano la mobilità sul territorio e
quindi sia politiche di trasporti che politiche della casa, che favoriscano l’accesso
alla salute. Riducendo quindi tutti i fattori che favoriscono la rigidità nella
trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze di cui abbiamo parlato
prima. Il fisco entra in gioco principalmente per la banale ragione che senza
un’adeguata pressione fiscale l’intervento pubblico non può essere
adeguatamente finanziato. Ed è evidente che questo è un elemento cruciale
perché solo interventi pubblici universali permettono di superare la
discriminazione economica all’accesso, quando questo è lasciato al solo
mercato.
Questa è la
ragione fondamentale per opporsi a tutte le ipotesi di flat tax – a regime, in
prospettiva e incrementali – che hanno riflessi non solo in termini di
ampliamento delle diseguaglianze, in quanto riducono il ruolo redistributivo
del prelievo, ma anche in termini di gettito. Sono ipotesi che, bisogna averlo
molto chiaro, si reggerebbero solo su imponenti tagli della spesa di
welfare.
Quanto pesa sulle entrate fiscali nazionali il
fenomeno dell’evasione fiscale?
Il fenomeno
dell’evasione fiscale è nel nostro paese particolarmente preoccupante,
innanzitutto per la sua dimensione. Secondo gli ultimi dati pubblici
disponibili, riportati nel Rapporto sui risultati conseguiti in materia di
misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva del 2022, nel 2019, il
tax gap, è stimabile in 86,6 miliardi, il 4,8% del Pil. Il Rapporto stima anche
in circa 12,7 miliardi il tax gap relativo ai contributi sociali, con un tax
gap complessivo di 99,2 miliardi. In termini settoriali il tax gap è
particolarmente elevato nel settore delle costruzioni, del commercio e dei
servizi (ristorazione e servizi alla persona). In termini territoriali,
l’ammontare assoluto di evasione stimata è più elevato nel Nord del paese, in
ragione della maggiore quota di valore aggiunto prodotta in quel territorio, ma
la sua intensità (evasione per unità di gettito regolarmente versato) è
maggiore nel Mezzogiorno. Dei 36,6 miliardi di evasione attribuibili all’Irpef,
32,8 riguardano il reddito di impresa e autonomo, cui corrisponde un tax gap
del 68,3%.
Purtroppo però i fenomeni dell’evasione e
dell’elusione fanno ormai parte di un sistema consolidato di
rapporti. Siamo assuefatti?
Il problema
vero è che a questo fenomeno si guarda con condiscendenza. L’evasione viene di
fatto narrata e quindi anche accettata come una sorta di difesa del
contribuente inerme nei confronti di un fisco vorace. Questa narrazione trova
la sua forza proprio nella diffusione endemica del fenomeno in intere categorie
di contribuenti. Viene inoltre facilitata da provvedimenti normativi e
amministrativi che molto spesso, addirittura, la premiano. Mi riferisco a:
l’indebolimento progressivo di tutti gli strumenti di riscossione; la
concessione di rateizzazioni per periodi molto lunghi, senza alcuna preventiva
verifica circa l’effettiva impossibilità di pagare da parte del contribuente;
la derubricazione dei condoni a definizioni agevolate, con l’idea che sia
indifferente pagare le imposte nel momento dovuto o pagarle, solo se scoperti,
dopo averle occultate al fisco, o comunque non versate, in un numero molto
rilevante di anni, senza sanzioni e senza interessi. Si tratta di scelte che
rendono più conveniente, dal punto di vista del calcolo economico, non pagare
le imposte, attendere di essere eventualmente scoperti, accedere a una
rateizzazione, pagare una o due rate, attendere il provvedimento che
puntualmente arriva di remissione in bonis e poi il molto probabile condono.
Che cosa si può fare in questa situazione per tentare
quanto meno di ridurre il danno e provare a invertire la rotta? Se lei dovesse
impostare una campagna di sensibilizzazione su quali valori si dovrebbe
puntare? Perché è chiaro che ci vorrebbe una rivoluzione culturale per
costruire un sistema fiscale più equo, ma già la parola “tasse” suona sempre
male.
Da un lato è
necessario rafforzare le azioni di deterrenza nei confronti dei contribuenti
che deliberatamente occultano i propri proventi al fisco, attraverso una
ragionevole frequenza dei controlli, l’effettività delle sanzioni penali e
amministrative e l’efficacia delle azioni di riscossione. Dall’altro è
necessario fare capire quali siano le conseguenze dell’evasione fiscale su
tutti gli altri cittadini: una pressione più elevata per quelli che le tasse le
pagano, una concorrenza sleale nei confronti di chi opera nella stessa attività
e, pagando le tasse, si trova a dover chiedere prezzi più alti, la creazione di
liquidità in nero, che viene utilizzata per i fenomeni corruttivi così diffusi
nel nostro Paese, il lavoro nero e la conseguente insicurezza sul lavoro.
L’evasione fiscale interferisce inoltre con la prova dei mezzi, con cui si
regola l’accesso o quanto meno la compartecipazione al finanziamento di molte
prestazioni pubbliche. Bisogna cioè capire che quella delle tasse è una
avventura dell’intera comunità, e chi si sottrae vive a spese degli altri e li
danneggia competendo con slealtà.
C’è infine il capitolo dell’elusione fiscale e
specialmente del comportamento delle grandi aziende e dei grandi gruppi che
stanno spesso a di là delle leggi o al di sopra…
Il fenomeno
dell’elusione è strumento privilegiato delle imprese più grandi,
multinazionali, e si concretizza in operazioni quali ad esempio il profit
shifting, cioè la manipolazione dei prezzi praticati sugli scambi infragruppo,
al fine di fare emergere i profitti nei paesi dove sono meno tassati e i costi
nei paesi a più alta aliquota, per godere di più alte deduzioni. Per
contrastare le pratiche fiscali aggressive, sviluppate dalle multinazionali
anche sfruttando a proprio vantaggio la digitalizzazione e la globalizzazione,
e, soprattutto, le forti asimmetrie tra i diversi regimi fiscali nazionali, è
da anni in corso una strategia, che sta interessando un numero sempre più
rilevante di paesi, promossa dal G20 e seguita, dal punto di vista tecnico,
dall’Ocse, nota come Beps (Base erosion and profit
shifting), che va proseguita con determinazione. Anche
l’accordo sul cosiddetto Pillar two e cioè la previsione di un’aliquota minima
sui profitti delle grandi imprese multinazionali nelle diverse giurisdizioni,
che dovrebbe entrare in vigore dal 2024, con cui si cerca di contrastare
l’operare dei paradisi fiscali e la concorrenza fiscale fra Paesi per attirare
imprese e investimenti, dovrebbe aiutare ad arginare quella corsa al ribasso
che ha comportato una forte riduzione delle imposte sui profitti. È importante
che sia maturata la consapevolezza dei danni enormi che queste pratiche, e la
presenza di paradisi fiscali che le facilitano, recano alle singole nazioni e
alla loro stessa autonomia nel campo in cui ne sono più gelosi: quello
fiscale.
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