Il governo si appresta a chiedere la delega al Parlamento per una riforma fiscale fuori dallo spirito costituzionale
Niente più del fisco racconta il sentire delle formazioni politiche perché le scelte fiscali sono lo specchio del modello di società che si persegue. Un tempo, quando le tasse erano al servizio dei sovrani, che le imponevano per avere di che vivere nel lusso e potersi avventurare in guerre di espansione, le strategie di raccolta si basavano su tre criteri: incassare molto, incassare facile, non scontentare i benestanti.
Un’impostazione che trovava la sua sintesi non nelle imposte sulla
proprietà e tanto meno su ciò che si guadagna, ma sui consumi che garantiscono
un alto gettito fiscale non solo perché facilmente tassabili, ma soprattutto
perché colpiscono la massa.
In effetti l’era preindustriale era affollata di dazi e gabelle: tasse
inizialmente concepite come prelievi imposti sugli spostamenti delle merci da
un territorio all’altro, poi estesi ai consumi stessi come testimoniano le
gabelle sul sale e sul tabacco già esistenti al tempo dei Savoia e tutt’ora in
vigore seppur sotto diversa forma.
Al tempo di Cavour ben il 62% del gettito incassato nel Regno di Piemonte
era rappresentato da dazi e imposte sui consumi, così dette imposte indirette
perché non colpiscono ricchezze e guadagni delle singole persone, ma beni e
servizi, chiunque li acquisti.
Con la liberazione dalla dittatura e la fine della monarchia, la nostra
Costituzione ha tracciato per l’Italia un nuovo percorso che assegna al sistema
fiscale una funzione molto più ampia della pura e semplice raccolta di denaro.
Elevata la popolazione dalla condizione di sudditi a quella di cittadini,
portatori di diritti inviolabili, la Costituzione ribalta il ruolo dello Stato.
Se prima era concepito come un tiranno che tartassa la popolazione per
interessi che le sono estranei, ora è espressione del popolo stesso e ha come
compito primario quello di assicurare a ogni cittadino di vivere con dignità.
Un compito che la Costituzione sancisce all’articolo tre quando recita: « È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
I nostri Costituenti misuravano le parole e volutamente hanno utilizzato il
termine “Repubblica”, invece di “Stato”, a indicare che il compito di
fare giustizia compete a tutta la comunità nazionale, non solo alle istituzioni
pubbliche.
La strada indicata è quella della solidarietà prevista all’articolo 2, che
in concreto si attua chiedendo a tutti di «concorrere alle spese pubbliche in
ragione della propria capacità » come prevede l’articolo 53. In conclusione, i
tre articoli, il 2, il 3 e il 53, sono gli ingranaggi che danno movimento al
meccanismo di costruzione del progresso sociale: se “tutti” concorriamo alla
spesa pubblica (art. 53), adempiamo all’obbligo di solidarietà sociale ed
economica (art. 2) e consentiamo alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli
economici che limitano la dignità (art. 3). Un condensato di valori che
dovrebbe renderci orgogliosi di pagare le tasse.
Il progetto politico della Costituzione si potrebbe riassumere nello
slogan “uguaglianza nella solidarietà”, che trova la sua piena attuazione
nell’imperativo della progressività fiscale come prescritto dall’articolo 53:
« Il sistema tributario è informato a criteri di progressività ». Un modo per
dire che la contribuzione non può essere tipo flat tax a
percentuale unica, ma differenziata in base al livello di ricchezza: aliquota
bassa sui redditi bassi, aliquota elevata sui redditi alti, per la semplice
ragione che ciò che può sembrare equo nei numeri può risultare enormemente
iniquo nella realtà.
Se hai un carico di due figli e guadagni 1.000 euro al mese, 100 euro di
imposte possono risultarti fatali. Se invece guadagni 10.000 euro, anche se
paghi 1.000 euro di imposte il tuo livello di vita non ne risente. Eppure
in ambedue i casi è stata applicata l’aliquota del 10%. Chiaro esempio di come
le aliquote abbiano un diverso peso specifico in base al reddito percepito e
come sia necessario differenziarle per garantire un minimo di equità.
In Italia il massimo della progressività venne raggiunto nel 1974 quando
venne istituita l’imposta sulle persone fisiche strutturata su 32 scaglioni,
l’ultimo dei quali al 72% su un reddito, che rivalutato al costo della vita di
oggi, corrispondeva a 4 milioni di euro.
Ma gradatamente gli scaglioni sono stati decurtati fino a diventare 4, con
l’ultimo sceso al 43% oltre 75mila euro, già a partire dal 2007. Ora il
governo ha varato un progetto di legge per ottenere la delega da parte del
Parlamento a riformare ulteriormente il sistema tributario. Il testo è
volutamente scritto in termini generici in modo da fornire al governo ampi
spazi di manovra.
Ma nelle finalità perseguite non si trova nessuno degli obiettivi sociali
indicati dalla Costituzione. Piuttosto al primo posto si trova l’obiettivo
di «stimolare la crescita economica attraverso l’efficienza della struttura dei
tributi e la riduzione del carico fiscale».
E nella sezione riguardante l’Irpef, si legge che «la revisione e la
graduale riduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche avverrà nel
rispetto del principio di progressività e nella prospettiva della transizione
del sistema verso l’aliquota impositiva unica». Un vero capolavoro di
contraddizione in termini che chissà se il Parlamento riuscirà mai a risolvere.
Di certo c’è che la riforma prospettata dal governo promette di
realizzare un sistema in cui sarà impossibile evitare più disuguaglianza e più
disagio sociale. Più disuguaglianza perché lascerà più soldi in tasca a chi
guadagna di più; più disagio sociale perché ridurrà le entrate fiscali e quindi
le risorse a disposizione di sanità, istruzione, fondi sociali, già molto compromessi.
Il governo stesso ha annunciato che la riforma ridurrà il gettito fiscale e
il rischio è l’allargamento del debito pubblico, non per garantire più cure e
più stato sociale, ma per l’obiettivo dichiarato di armarci di più.
La replica a questi corposi timori è nell’affermazione che questa riforma
del fisco saprà stimolare la crescita economica. L’idea sottostante è
una vecchia tesi del capitalismo liberista secondo la quale per crescere ci
vogliono gli investimenti, per gli investimenti ci vogliono i risparmi, per i
risparmi ci vuole concentrazione di ricchezza perché risparmia chi ha molto non
chi ha poco. Insomma, la crescita esige un’ineliminabile dose di
disuguaglianza.
Ma rimanendo all’economico in senso stretto, in questo ragionamento ci sono
almeno due aspetti che non funzionano. Il primo è che non necessariamente i
risparmi si trasformano in investimenti produttivi. In tempi di
turbocapitalismo è molto probabile che si trasformino in attività finanziarie
provocando bolle speculative che quando scoppiano mandano in crisi l’intero
sistema economico. Tipica la crisi del 2008.
Il secondo vizio è quello di ritenere che l’unico attore esistente
sulla scena economica sia il mercato e solo questa sia la dimensione economica
della crescita. Doppio errore. Intanto, perché oltre al mercato esistono
anche l’economia del terzo settore e l’economia pubblica. In secondo luogo,
perché la storia ha dimostrato che la crescita trainata dal mercato non
è sempre quella di miglior qualità, né in termini ambientali, né dal punto di
vista sociale.
In un momento in cui milioni di cittadini sono incapaci di soddisfare i
bisogni fondamentali e il degrado ambientale ci chiede di consumare in maniera
più sobria, non è di più crescita di mercato che abbiamo bisogno, ma di più
economia capace di garantire diritti gratuiti e di sviluppare forme di consumo
condiviso che permettono di conciliare sostenibilità ambientale e
soddisfacimento dei bisogni per tutti.
Ed allora se una riforma fiscale serve, non è quella che impoverisce lo
Stato e arricchisce i singoli con redditi medio alti, ma una riforma che porta
più eguaglianza e dota lo stato delle risorse necessarie per gestire più
servizi pubblici a vantaggio di tutti.
Articolo pubblicato su Avvenire
Nessun commento:
Posta un commento