lunedì 22 gennaio 2024

Tradurre, creare, produrre - Silvia Pareschi

(intervista di Riccardo Rinaldi a Silvia Pareschi)

Una conversazione con Silvia Pareschi sui limiti dell’intelligenza artificiale nell’ambito della traduzione letteraria.


L’impressionante balzo in avanti dell’intelligenza artificiale, in questi ultimi anni, sembra rappresentare una seria minaccia per molte categorie di lavori creativi. La diffusione dei servizi di traduzione automatica neurale ha spinto varie associazioni di traduttori in tutt’Europa a mobilitarsi. Ma è vero che, se “la rivoluzione industriale ha sostituito i nostri muscoli con le macchine, ora la rivoluzione informatica sostituisce il nostro cervello”, come sostiene la germanista Laura Hurot? Silvia Pareschi, traduttrice di Jonathan Franzen, Don DeLillo, Ernest Hemingway, Zadie Smith e tanti altri, è intervenuta l’estate scorsa in un convegno al Senato dal titolo “L’intelligenza artificiale e il futuro della diversità culturale” per discutere dell’impatto dei nuovi software in ambito professionale. Le ho fatto qualche domanda sul suo lavoro di traduttrice, cercando di privilegiare l’aspetto letterario e creativo, essenziale per comprendere l’entità della questione ed eventualmente cercare delle soluzioni alle sue ricadute pratiche, economiche, politiche, sociali.

Riccardo Rinaldi: Di recente si fa un gran parlare delle conseguenze negative che l’utilizzo dell’IA potrebbe apportare a un vasto numero di professioni, tra cui ovviamente quella di traduttore. Non trovi che sia una buona occasione per far cogliere una distinzione capitale, quella tra traduzione tout-court e traduzione letteraria? Traduttori esperti riconoscono che su scritti di tipo tecnico il lavoro dell’intelligenza artificiale abbia ormai raggiunto una qualità praticamente indistinguibile da quella del lavoro umano. Andiamo subito al punto: cos’è per te la traduzione letteraria? L’intelligenza artificiale è in grado di tradurre la letteratura e quali sono rischi che corriamo affidandoci al suo utilizzo?

Silvia Pareschi: La differenza fra traduzione tecnica e traduzione letteraria è che nella prima non compare – non è consentito – l’impiego della creatività, che invece assume un ruolo imprescindibile nella seconda. Che si intenda il traduttore come un co-autore o come un semplice artigiano della parola, fatto sta che la traduzione di testi letterari – cioè testi ai quali è possibile attribuire diverse interpretazioni, e la cui resa in un’altra lingua, lungi dall’essere una trasposizione parola per parola, consiste nel compromesso fra il contenuto e la lettura critica di chi lo traduce – richiede un forte apporto creativo da parte di chi la pratica. Le macchine possono essere creative? Possono cioè “creare” qualcosa di nuovo, di originale? Possiamo dire di sì, se per creatività intendiamo il collegamento di varie nozioni preesistenti per formare un’idea nuova. Ma la letteratura non è una scienza esatta: in essa l’originalità non nasce da “contenuti” ingeriti e rimescolati, ma dalle esperienze di vita, dall’interazione tra individuo e società, dai voli di fantasia, dalle emozioni, dalla memoria del vissuto e da come questa si combina con il carattere dell’individuo, dando forma a ciò che ciascuno di noi pensa e dice – e dunque scrive – in modi che nessuna macchina è in grado di replicare. Chi pensa che una macchina possa tradurre la letteratura non capisce niente di traduzione e non capisce niente di letteratura.

RR: Eppure i tentativi di imitare l’intelligenza umana negli ultimi anni hanno ottenuto risultati sorprendenti. Forse, per far sopravvivere la letteratura, saremo spinti a concepire forme sempre più sperimentali di linguaggio che la macchina non sarà in grado di cogliere, decifrare, riavvicinandoci così alla sua forma più alta, alla poesia. Puoi portarmi uno o più esempi di confronto fra traduzioni umane e automatiche in cui hai riscontrato differenze significative, se non insormontabili?

SP: Posso farti due esempi, per dimostrare cosa succede quando si dà un brano letterario in pasto a una macchina. Il primo è l’incipit dal racconto Boys di Rick Moody:

Boys enter the house, boys enter the house. Boys, and with them the ideas of boys (ideas leaden, reductive, inflexible), enter the house. Boys, two of them, wound into hospital packaging, boys with infant pattern baldness, slung in the arms of parents, boys dreaming of breasts, enter the house. Twin boys, kettles on the boil, boys in hideous vinyl knapsacks that young couples from Edison, NJ, wear on their shirt fronts, knapsacks coated with baby saliva and staphylococcus and milk vomit, enter the house.

Questa è la traduzione di DeepL:

I ragazzi entrano in casa, i ragazzi entrano in casa. I ragazzi, e con loro le idee dei ragazzi (idee plumbee, riduttive, inflessibili), entrano in casa. Entrano in casa ragazzi, due, avvolti in confezioni da ospedale, ragazzi con calvizie infantile, trascinati tra le braccia dei genitori, ragazzi che sognano il seno. Entrano in casa due gemelli, bollitori in ebollizione, ragazzi in orrendi zaini di vinile che le giovani coppie di Edison, NJ, portano sul davanti della camicia, zaini ricoperti di saliva di bambino, stafilococco e vomito di latte.

Questa, invece, è la traduzione di Sergio Claudio Perroni:

Maschietti entrano in casa, maschietti entrano in casa. Maschietti, e con essi entrano in casa idee da maschietti (idee grevi, riduttive, inflessibili). Entrano in casa due bei maschietti, ancora in confezione ospedaliera, maschietti con la tonsura neonatale, bramosi del seno, aggrovigliati ai genitori. Entrano in casa due bei maschietti, maschietti gemelli, maschietti gorgoglianti di biberon, maschietti infilati dentro quegli orrendi zaini di plastica che le giovani coppie di Edison, New York, portano sul petto anziché sul dorso, in un tripudio di saliva e vomito lattiginoso e staffilococchi.

La traduzione di Perroni, a parte l’umana svista di New York al posto di New Jersey, è un pezzo di letteratura tanto quanto l’originale. Già in queste poche righe si nota l’uso magistrale del ritmo e l’inventività delle metafore (bellissima quella “tonsura neonatale”), oltre, naturalmente, a ciò che le macchine non hanno e non potranno mai avere: la comprensione di ciò di cui si sta parlando. boys sono due neonati, non due ragazzi, le idee sono “idee da maschietti”, non “le idee dei ragazzi”, i maschietti sono “aggrovigliati ai genitori”, non “trascinati tra le braccia dei genitori”, per non parlare dello splendido “maschietti gorgoglianti di biberon” che la macchina trasforma in un terrificante “bollitori in ebollizione”. Si capisce bene che in un testo come questo affidare la prima stesura della traduzione alla macchina e limitarsi a effettuare il post- editing non avrebbe alcun senso: sono talmente tante le cose da cambiare che il traduttore fa molto prima e molto meglio lavorando da solo.

Il secondo esempio è tratto dal romanzo Mrs Dalloway di Virginia Woolf:

Mrs. Dalloway said she would buy the flowers herself. For Lucy had her work cut out for her. The doors would be taken off their hinges; Rumpelmayer’s men were coming. And then, thought Clarissa Dalloway, what a morning-fresh as if issued to children on a beach. What a lark! What a plunge! For so it had always seemed to her, when, with a little squeak of the hinges, which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at Bourton into the open air.

Qui la traduzione di DeepL:

La signora Dalloway disse che avrebbe comprato lei stessa i fiori. Lucy aveva il suo bel da fare. Le porte sarebbero state tolte dai cardini; gli uomini di Rumpelmayer stavano arrivando. E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina fresca come quella dei bambini su una spiaggia. Che allodola! Che tuffo! Perché così le era sempre sembrato, quando, con un piccolo cigolio dei cardini, che ora poteva sentire, aveva spalancato le porte-finestre e si era tuffata a Bourton all’aria aperta.

E qui la traduzione di Anna Nadotti:

La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei. Perché Lucy aveva fin troppo da fare. Bisognava togliere le porte dai cardini, stavano arrivando gli uomini di Rumpelmayer. E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina – fresca come se fosse scaturita per dei bambini su una spiaggia. Che allegria! Che tuffo! Aveva sempre avuto quella sensazione quando, con un sommesso cigolio dei cardini, lo stesso che udiva ora, spalancava le portefinestre a Bourton e si tuffava nell’aria aperta.

Anche in questo caso, naturalmente, non c’è gara. Oltre a non saper cogliere la polisemia – si ha un bel dire che la traduzione neurale potrà ovviare al problema del riconoscimento del contesto: ci crederò il giorno che vedrò DeepL tradurre lark con “allegria” anziché con “allodola” – la macchina massacra la delicatezza ritmica di Woolf, abbatte le causali, maciulla il significato. Notiamo come anche qui ricostruire una traduzione raffinata come quella di Nadotti a partire da un canovaccio disastrato come quello di DeepL sarebbe estremamente difficile. La traduttrice impiegherebbe molto più tempo e fatica a risistemare il testo generato dalla macchina che a tradurlo da sola.

RR: Un gran numero di scienziati, avvalendosi ancor oggi del celebre esperimento di Turing, tiene a rassicurarci: l’intelligenza della macchina non è lontanamente paragonabile alla complessità del cervello umano. Le macchine possono imparare (deep learning), ma non pensare. Mi pare però che, se da un lato non ha senso continuare a concepire i dispositivi tecnologici come strumenti, dall’altro, più che la macchina farsi simile a noi, siamo noi a delegare sempre più attività intellettive alla macchina. Non acconsentiamo forse a uniformare il nostro quotidiano al funzionamento iterativo di computer e smartphone, a scapito della plasticità delle nostre connessioni mentali? Anche se non verrà presto un computer in grado di farsi passare per una persona, non stiamo gradualmente perdendo la capacità, e forse l’interesse, di distinguerlo da noi? Eppure già Platone, nella sua celebre critica della scrittura contenuta nel Fedro, ci aveva messo in guardia…

SP: Ho fatto un esperimento con Writer, un software di assistenza alla scrittura, chiedendogli di scrivermi un articolo su IA generativa e traduzione letteraria; poi, per chiudere il cerchio, ho chiesto a DeepL di tradurlo in italiano. Il risultato è stato un contenuto piatto e banale, che però potrebbe venire pubblicato senza che molti si accorgano che è stato scritto e tradotto da una macchina. Uno strumento come Writer ci spinge a riflettere su come l’IA potrebbe cambiare in modo permanente il nostro rapporto con la parola scritta, in un mondo in cui gli umani potrebbero essere relegati al ruolo di redattori all’ingrosso di testi prodotti dalle macchine. La probabile conseguenza sarebbe un’erosione delle competenze necessarie a comporre un testo in autonomia, senza l’aiuto di una macchina (si pensi al declino della capacità di orientarsi in seguito al diffondersi delle app di navigazione). Ridurre la produzione di letteratura a un problema di efficienza finirà dunque per separare l’atto di scrivere dallo sforzo della creazione, ossia in definitiva dal pensiero. Nel saggio Perché scrivo, Joan Didion affermava: “scrivo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa”. Lo stesso vale per la traduzione: come ci ha ammoniti Antoine Berman, “nessuna grande traduzione che non sia pensata, portata dal pensiero.” E infatti tutta la discussione sulla possibilità di applicare la traduzione automatica alla letteratura si riduce a questo: le macchine non pensano, dunque non capiscono il testo, dunque non possono tradurlo come lo tradurrebbe un umano.

RR: Ho letto che quando il CEO di un’importante start-up ti spiegava entusiasta che avresti potuto compiere in un giorno il lavoro di un mese, gli hai fatto notare che tradurre a te piace, che avrebbero creato un esercito di depressi. La sua risposta è stata “a quello ci stiamo lavorando”. Non ti sembra che l’unica maniera di riflettere cui facciamo ormai riferimento sia quella del “problem solving”, e che non solo i problemi cui questi guru cercano di trovare una soluzione siano appunto sempre problemi creati dal progresso, ma anche le istituzioni che dovrebbero tutelarci – come comunità o categoria di professionisti – arrivino sempre, concettualmente, troppo tardi?

SP: Nel 2022 il sindacato francese STAA (Syndicat des Travailleurs Artistes-Auteurs) ha pubblicato un documento intitolato “No all’automazione dei mestieri creativi. La traduzione non è un problema da risolvere”. I traduttori e le traduttrici si muovono per proteggere un mestiere di cui purtroppo sono quasi gli unici a comprendere l’importanza, all’interno di una società ormai totalmente conquistata dall’approccio pragmatico – molto americano, molto siliconvallico – alla soluzione dei problemi. Eppure, nel momento in cui si appiattisce il concetto di letteratura su quello della produzione di un “contenuto” a fini commerciali – perché naturalmente il nocciolo è tutto qui, nel processo di mercificazione dell’immateriale – si rischia di perdere un fondamentale strumento di crescita e di sviluppo dell’essere umano. Il motivo del ritardo con cui si muovono le istituzioni che dovrebbero tutelarci è che il tecnocapitalismo è molto abile nel presentarsi come, appunto, un fornitore di soluzioni ai nostri problemi (che spesso non sono altro che soluzioni in cerca di problemi, nel senso che il problema viene inventato per poterci poi vendere la sua soluzione) e a inserirsi nelle fessure non protette del sistema (i modelli linguistici ampi come Chat-GPT, per esempio, hanno potuto fare incetta di materiale protetto da copyright prima che ci si accorgesse di cosa stava succedendo). Quando ci si accorge che la soluzione ha finito per creare altri problemi, la nuova tecnologia è ormai entrata nell’uso comune e ogni tentativo di regolamentazione diventa una rincorsa affannosa e spesso destinata a fallire.

RR: Per fortuna, la traduzione è una porta d’accesso ideale alla questione della somiglianza: già Walter Benjamin diceva che l’affinità tra l’originale e un testo tradotto non deve risiedere nella loro somiglianza. Al contrario, la traduzione si fa carico di scovare e mettere in luce tutto ciò che nell’originale oltrepassa i limiti della semplice comunicazione: l’alterità rispetto a sé stessa dell’opera letteraria, il perpetuo mutare di una lingua che la rende potenzialmente immortale. Tutto quanto l’originale contiene, insomma, d’intraducibile. Condividi questa visione? Come definiresti il compito del traduttore?

SP: La qualità anti-normativa del testo di Benjamin lo pone in un rapporto incommensurabile rispetto a certe teorie della traduzione che, nella loro pretesa scientificità, accordano importanza solo agli aspetti tecnici e specialistici del mestiere di traduttore. Questo modo di considerare la traduzione è ciò che sta alla base dell’idea della possibilità della traduzione automatica, mentre Benjamin, che forma il suo concetto di traduzione a partire dalla sua esperienza di traduttore di poesia, parte dal presupposto che la traduzione non si possa ridurre a una mera trasmissione d’informazioni. Nell’ambito della pratica quotidiana del tradurre, tuttavia, la teoria della traduzione ha un’utilità marginale rispetto all’esperienza quotidiana del confronto con il testo, che deve fare i conti – con buona pace di Benjamin, il quale nega che la traduzione debba “servire al lettore” – con il momento storico in cui la traduttrice sta lavorando e con il concetto di traduzione che gli editori e i lettori hanno in quel particolare momento. Se fino a pochi decenni fa nell’eterno dibattito fra “bellezza” e “fedeltà” di una traduzione si propendeva decisamente per la prima (ciò che Schleiermacher intendeva dicendo “il traduttore lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore”), oggi – grazie proprio alla diffusione di quella teoria della traduzione che si è rivelata fondamentale non tanto, come dicevo, nell’esperienza pratica di chi traduce per mestiere, quanto per lo sviluppo della percezione del concetto di traduzione all’interno di una data cultura – la necessità di ri-scrivere un’opera in “bell’italiano” si affianca in modo più equilibrato alla necessità di traghettare nella lingua e nella cultura di arrivo l’elemento di estraneità presente nella lingua e nella cultura di partenza.

RR: È anche vero che non tutte le traduzioni che si trovano in libreria sono ineccepibili, proprio per via delle condizioni economiche e materiali in cui i traduttori sono costretti a lavorare. Non è possibile che l’impiego della traduzione neurale possa rendere queste condizioni meno insopportabili, o se non altro favorire lo sviluppo di un settore editoriale, certo più selettivo, ma in cui la qualità letteraria sarebbe l’unico criterio vigente e condiviso? Non sarebbe in fondo auspicabile una distinzione più netta tra traduzioni letterarie e traduzioni che non lo sono?

SP: Si sta già delineando una possibile divisione del mercato della traduzione in tre fasce: una fascia “bassa” in cui le traduzioni saranno completamente generate dalle macchine, una fascia “media” in cui le traduzioni verranno fatte dalle macchine e riviste dagli umani, e una fascia “alta” in cui le traduzioni saranno fatte solo da umani. Sulle condizioni meno insopportabili ho grossi dubbi: lo scopo dell’automazione del lavoro è quello di aumentare l’efficienza e abbattere i costi, cioè far lavorare più in fretta e con una retribuzione inferiore.

RR: Negli ultimi tempi alcuni autori si sono impegnati per inserire delle clausole nei loro contratti che autorizzino esclusivamente traduzioni fatte da esseri umani. Altri, piuttosto celebri, hanno fatto causa a ChatGPT per essersi addestrata utilizzando gratuitamente i loro libri. Nell’idea di limitare l’influsso dei sistemi automatici sul lavoro di un autore, non ti sembra tuttavia che la prospettiva dello scontro uomo-macchina possa risultare miope o addirittura controproducente? Prima di poter rispondere a questioni legali e, più in profondo, etiche, mi chiedo: siamo sicuri che la macchina non possa produrre letteratura (ovvero un’opera d’arte letteraria)? Non si sottintende, così dicendo, che l’arte possa essere il frutto soltanto dell’intenzionalità del soggetto umano? Non è invece l’arte, la letteratura, ciò che avviene malgrado il suo autore, l’imprevisto, lo scarto del linguaggio che sfugge al suo controllo e si rivela essere più potente, appunto, di un semplice strumento nelle sue mani?

SP: Ritengo che non si debba parlare di scontro uomo-macchina, bensì di scontro fra l’umano inteso in una prospettiva “umanistica” e la macchina utilizzata come strumento di puro profitto, senza alcuna riflessione sulle conseguenze del suo impiego. A chi sostiene che sia impossibile fermare il progresso, io oppongo l’idea che la possibilità che una cosa venga fatta non implica necessariamente che la si debba fare (“quando vedi qualcosa che è tecnicamente valido, vai avanti e lo fai e discuti su cosa farne solo dopo che hai avuto il tuo successo tecnico”, diceva Robert Oppenheimer). Ma qui approdiamo alla questione politica del declino della democrazia e della sua sostituzione con una plutocrazia sostenuta dal capitale tecnologico. Le macchine non sono né buone né cattive, possono essere usate per scopi costruttivi o distruttivi. Un’arte delle macchine può esistere e trovare un posto nel mondo dell’arte, perché no. Il problema sorge quando si comincia a pensare che l’arte prodotta dalle macchine possa rimpiazzare quella prodotta dagli umani. E, allargando il campo, quando le macchine, anziché alleviare la fatica degli umani, cominciano a sostituirsi a loro, perché costano meno, perché sono più efficienti – la feticizzazione dell’efficienza è un altro processo che il tecnocapitalismo ha portato all’esasperazione – e non sono sindacalizzabili. E attenzione a non cadere nel solito luogo comune per cui per ogni posto di lavoro cancellato dall’innovazione tecnologica se ne creerà un altro, perché in un’epoca di automazione spinta le macchine cominceranno a prodursi da sole e ci sarà sempre meno bisogno dell’apporto umano.[/a]

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