(intervista di Riccardo Rinaldi a Silvia Pareschi)
Una conversazione con Silvia Pareschi sui limiti dell’intelligenza artificiale nell’ambito della traduzione letteraria.
L’impressionante balzo in avanti dell’intelligenza
artificiale, in questi ultimi anni, sembra rappresentare una seria minaccia per
molte categorie di lavori creativi. La diffusione dei servizi di traduzione
automatica neurale ha spinto varie associazioni di traduttori in tutt’Europa a
mobilitarsi. Ma è vero che, se “la rivoluzione industriale ha sostituito i
nostri muscoli con le macchine, ora la rivoluzione informatica sostituisce il
nostro cervello”, come sostiene la germanista Laura Hurot? Silvia Pareschi,
traduttrice di Jonathan Franzen, Don DeLillo, Ernest Hemingway, Zadie Smith e
tanti altri, è intervenuta l’estate scorsa in un convegno al Senato dal titolo
“L’intelligenza artificiale e il futuro della diversità culturale” per
discutere dell’impatto dei nuovi software in ambito professionale. Le ho fatto
qualche domanda sul suo lavoro di traduttrice, cercando di privilegiare
l’aspetto letterario e creativo, essenziale per comprendere l’entità della
questione ed eventualmente cercare delle soluzioni alle sue ricadute pratiche,
economiche, politiche, sociali.
Riccardo Rinaldi: Di
recente si fa un gran parlare delle conseguenze negative che l’utilizzo dell’IA
potrebbe apportare a un vasto numero di professioni, tra cui ovviamente quella
di traduttore. Non trovi che sia una buona occasione per far cogliere una
distinzione capitale, quella tra traduzione tout-court e traduzione letteraria?
Traduttori esperti riconoscono che su scritti di tipo tecnico il lavoro
dell’intelligenza artificiale abbia ormai raggiunto una qualità praticamente
indistinguibile da quella del lavoro umano. Andiamo subito al punto: cos’è per
te la traduzione letteraria? L’intelligenza artificiale è in grado di tradurre
la letteratura e quali sono rischi che corriamo affidandoci al suo utilizzo?
Silvia Pareschi: La
differenza fra traduzione tecnica e traduzione letteraria è che nella prima non
compare – non è consentito – l’impiego della creatività, che invece assume un
ruolo imprescindibile nella seconda. Che si intenda il traduttore come un
co-autore o come un semplice artigiano della parola, fatto sta che la
traduzione di testi letterari – cioè testi ai quali è possibile attribuire
diverse interpretazioni, e la cui resa in un’altra lingua, lungi dall’essere
una trasposizione parola per parola, consiste nel compromesso fra il contenuto
e la lettura critica di chi lo traduce – richiede un forte apporto creativo da
parte di chi la pratica. Le macchine possono essere creative? Possono cioè
“creare” qualcosa di nuovo, di originale? Possiamo dire di sì, se per
creatività intendiamo il collegamento di varie nozioni preesistenti per formare
un’idea nuova. Ma la letteratura non è una scienza esatta: in essa
l’originalità non nasce da “contenuti” ingeriti e rimescolati, ma dalle esperienze
di vita, dall’interazione tra individuo e società, dai voli di fantasia, dalle
emozioni, dalla memoria del vissuto e da come questa si combina con il
carattere dell’individuo, dando forma a ciò che ciascuno di noi pensa e dice –
e dunque scrive – in modi che nessuna macchina è in grado di replicare. Chi
pensa che una macchina possa tradurre la letteratura non capisce niente di
traduzione e non capisce niente di letteratura.
RR: Eppure i
tentativi di imitare l’intelligenza umana negli ultimi anni hanno ottenuto
risultati sorprendenti. Forse, per far sopravvivere la letteratura, saremo
spinti a concepire forme sempre più sperimentali di linguaggio che la macchina
non sarà in grado di cogliere, decifrare, riavvicinandoci così alla sua forma
più alta, alla poesia. Puoi portarmi uno o più esempi di confronto fra
traduzioni umane e automatiche in cui hai riscontrato differenze significative,
se non insormontabili?
SP: Posso farti
due esempi, per dimostrare cosa succede quando si dà un brano letterario in
pasto a una macchina. Il primo è l’incipit dal racconto Boys di
Rick Moody:
Boys enter the house, boys enter the house. Boys, and
with them the ideas of boys (ideas leaden, reductive, inflexible), enter the
house. Boys, two of them, wound into hospital packaging, boys with infant
pattern baldness, slung in the arms of parents, boys dreaming of breasts, enter
the house. Twin boys, kettles on the boil, boys in hideous vinyl knapsacks that
young couples from Edison, NJ, wear on their shirt fronts, knapsacks coated with
baby saliva and staphylococcus and milk vomit, enter the house.
Questa
è la traduzione di DeepL:
I ragazzi entrano in casa, i ragazzi entrano in casa. I
ragazzi, e con loro le idee dei ragazzi (idee plumbee, riduttive,
inflessibili), entrano in casa. Entrano in casa ragazzi, due, avvolti in
confezioni da ospedale, ragazzi con calvizie infantile, trascinati tra le
braccia dei genitori, ragazzi che sognano il seno. Entrano in casa due gemelli,
bollitori in ebollizione, ragazzi in orrendi zaini di vinile che le giovani
coppie di Edison, NJ, portano sul davanti della camicia, zaini ricoperti di
saliva di bambino, stafilococco e vomito di latte.
Questa,
invece, è la traduzione di Sergio Claudio Perroni:
Maschietti entrano in casa, maschietti entrano in casa.
Maschietti, e con essi entrano in casa idee da maschietti (idee grevi,
riduttive, inflessibili). Entrano in casa due bei maschietti, ancora in
confezione ospedaliera, maschietti con la tonsura neonatale, bramosi del seno,
aggrovigliati ai genitori. Entrano in casa due bei maschietti, maschietti
gemelli, maschietti gorgoglianti di biberon, maschietti infilati dentro quegli
orrendi zaini di plastica che le giovani coppie di Edison, New York, portano
sul petto anziché sul dorso, in un tripudio di saliva e vomito lattiginoso e
staffilococchi.
La
traduzione di Perroni, a parte l’umana svista di New York al posto di New
Jersey, è un pezzo di letteratura tanto quanto l’originale. Già in queste poche
righe si nota l’uso magistrale del ritmo e l’inventività delle metafore
(bellissima quella “tonsura neonatale”), oltre, naturalmente, a ciò che le
macchine non hanno e non potranno mai avere: la comprensione di ciò di
cui si sta parlando. I boys sono due neonati, non due
ragazzi, le idee sono “idee da maschietti”, non “le idee dei ragazzi”, i
maschietti sono “aggrovigliati ai genitori”, non “trascinati tra le braccia dei
genitori”, per non parlare dello splendido “maschietti gorgoglianti di biberon”
che la macchina trasforma in un terrificante “bollitori in ebollizione”. Si
capisce bene che in un testo come questo affidare la prima stesura della
traduzione alla macchina e limitarsi a effettuare il post- editing non avrebbe
alcun senso: sono talmente tante le cose da cambiare che il traduttore fa molto
prima e molto meglio lavorando da solo.
Il
secondo esempio è tratto dal romanzo Mrs Dalloway di Virginia
Woolf:
Mrs. Dalloway said she would buy the flowers herself. For
Lucy had her work cut out for her. The doors would be taken off their hinges;
Rumpelmayer’s men were coming. And then, thought Clarissa Dalloway, what a
morning-fresh as if issued to children on a beach. What a lark! What a plunge!
For so it had always seemed to her, when, with a little squeak of the hinges,
which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at
Bourton into the open air.
Qui
la traduzione di DeepL:
La signora Dalloway disse che avrebbe comprato lei stessa
i fiori. Lucy aveva il suo bel da fare. Le porte sarebbero state tolte dai
cardini; gli uomini di Rumpelmayer stavano arrivando. E poi, pensò Clarissa
Dalloway, che mattina fresca come quella dei bambini su una spiaggia. Che
allodola! Che tuffo! Perché così le era sempre sembrato, quando, con un piccolo
cigolio dei cardini, che ora poteva sentire, aveva spalancato le porte-finestre
e si era tuffata a Bourton all’aria aperta.
E
qui la traduzione di Anna Nadotti:
La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati
lei. Perché Lucy aveva fin troppo da fare. Bisognava togliere le porte dai
cardini, stavano arrivando gli uomini di Rumpelmayer. E poi, pensò Clarissa
Dalloway, che mattina – fresca come se fosse scaturita per dei bambini su una
spiaggia. Che allegria! Che tuffo! Aveva sempre avuto quella sensazione quando,
con un sommesso cigolio dei cardini, lo stesso che udiva ora, spalancava le
portefinestre a Bourton e si tuffava nell’aria aperta.
Anche
in questo caso, naturalmente, non c’è gara. Oltre a non saper cogliere la
polisemia – si ha un bel dire che la traduzione neurale potrà ovviare al
problema del riconoscimento del contesto: ci crederò il giorno che vedrò DeepL
tradurre lark con “allegria” anziché con “allodola” – la
macchina massacra la delicatezza ritmica di Woolf, abbatte le causali, maciulla
il significato. Notiamo come anche qui ricostruire una traduzione raffinata
come quella di Nadotti a partire da un canovaccio disastrato come quello di
DeepL sarebbe estremamente difficile. La traduttrice impiegherebbe molto più
tempo e fatica a risistemare il testo generato dalla macchina che a tradurlo da
sola.
RR: Un gran numero di
scienziati, avvalendosi ancor oggi del celebre esperimento di Turing, tiene a
rassicurarci: l’intelligenza della macchina non è lontanamente paragonabile
alla complessità del cervello umano. Le macchine possono imparare (deep
learning), ma non pensare. Mi pare però che, se da un lato non ha senso
continuare a concepire i dispositivi tecnologici come strumenti, dall’altro,
più che la macchina farsi simile a noi, siamo noi a delegare sempre più
attività intellettive alla macchina. Non acconsentiamo forse a uniformare il
nostro quotidiano al funzionamento iterativo di computer e smartphone, a
scapito della plasticità delle nostre connessioni mentali? Anche se non verrà
presto un computer in grado di farsi passare per una persona, non stiamo gradualmente
perdendo la capacità, e forse l’interesse, di distinguerlo da noi? Eppure già
Platone, nella sua celebre critica della scrittura contenuta nel Fedro,
ci aveva messo in guardia…
SP: Ho fatto un
esperimento con Writer, un software di assistenza alla scrittura, chiedendogli
di scrivermi un articolo su IA generativa e traduzione letteraria; poi, per
chiudere il cerchio, ho chiesto a DeepL di tradurlo in italiano. Il risultato è
stato un contenuto piatto e banale, che però potrebbe venire pubblicato senza
che molti si accorgano che è stato scritto e tradotto da una macchina. Uno
strumento come Writer ci spinge a riflettere su come l’IA potrebbe cambiare in
modo permanente il nostro rapporto con la parola scritta, in un mondo in cui
gli umani potrebbero essere relegati al ruolo di redattori all’ingrosso di
testi prodotti dalle macchine. La probabile conseguenza sarebbe un’erosione
delle competenze necessarie a comporre un testo in autonomia, senza l’aiuto di
una macchina (si pensi al declino della capacità di orientarsi in seguito al
diffondersi delle app di navigazione). Ridurre la produzione di letteratura a
un problema di efficienza finirà dunque per separare l’atto di scrivere dallo
sforzo della creazione, ossia in definitiva dal pensiero. Nel saggio Perché
scrivo, Joan Didion affermava: “scrivo per scoprire che cosa penso, che
cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa”. Lo stesso vale per la
traduzione: come ci ha ammoniti Antoine Berman, “nessuna grande traduzione che
non sia pensata, portata dal pensiero.” E infatti tutta la
discussione sulla possibilità di applicare la traduzione automatica alla
letteratura si riduce a questo: le macchine non pensano, dunque non capiscono il
testo, dunque non possono tradurlo come lo tradurrebbe un umano.
RR: Ho letto che
quando il CEO di un’importante start-up ti spiegava entusiasta che avresti
potuto compiere in un giorno il lavoro di un mese, gli hai fatto notare che
tradurre a te piace, che avrebbero creato un esercito di depressi. La sua
risposta è stata “a quello ci stiamo lavorando”. Non ti sembra che l’unica
maniera di riflettere cui facciamo ormai riferimento sia quella del “problem
solving”, e che non solo i problemi cui questi guru cercano di trovare una
soluzione siano appunto sempre problemi creati dal progresso, ma anche le
istituzioni che dovrebbero tutelarci – come comunità o categoria di
professionisti – arrivino sempre, concettualmente, troppo tardi?
SP: Nel 2022 il
sindacato francese STAA (Syndicat des Travailleurs Artistes-Auteurs) ha pubblicato
un documento intitolato “No all’automazione dei mestieri creativi. La
traduzione non è un problema da risolvere”. I traduttori e le traduttrici si
muovono per proteggere un mestiere di cui purtroppo sono quasi gli unici a
comprendere l’importanza, all’interno di una società ormai totalmente
conquistata dall’approccio pragmatico – molto americano, molto siliconvallico –
alla soluzione dei problemi. Eppure, nel momento in cui si appiattisce il
concetto di letteratura su quello della produzione di un “contenuto” a fini
commerciali – perché naturalmente il nocciolo è tutto qui, nel processo di
mercificazione dell’immateriale – si rischia di perdere un fondamentale
strumento di crescita e di sviluppo dell’essere umano. Il motivo del ritardo
con cui si muovono le istituzioni che dovrebbero tutelarci è che il
tecnocapitalismo è molto abile nel presentarsi come, appunto, un fornitore di
soluzioni ai nostri problemi (che spesso non sono altro che soluzioni in cerca
di problemi, nel senso che il problema viene inventato per poterci poi vendere
la sua soluzione) e a inserirsi nelle fessure non protette del sistema (i modelli linguistici ampi come Chat-GPT, per esempio, hanno potuto
fare incetta di materiale protetto da copyright prima che ci si accorgesse di
cosa stava succedendo). Quando ci si accorge che la soluzione ha finito per
creare altri problemi, la nuova tecnologia è ormai entrata nell’uso comune e
ogni tentativo di regolamentazione diventa una rincorsa affannosa e spesso
destinata a fallire.
RR: Per fortuna, la
traduzione è una porta d’accesso ideale alla questione della somiglianza: già
Walter Benjamin diceva che l’affinità tra l’originale e un testo tradotto non
deve risiedere nella loro somiglianza. Al contrario, la traduzione si fa carico
di scovare e mettere in luce tutto ciò che nell’originale oltrepassa i limiti
della semplice comunicazione: l’alterità rispetto a sé stessa dell’opera
letteraria, il perpetuo mutare di una lingua che la rende potenzialmente
immortale. Tutto quanto l’originale contiene, insomma, d’intraducibile.
Condividi questa visione? Come definiresti il compito del traduttore?
SP: La qualità
anti-normativa del testo di Benjamin lo pone in un rapporto incommensurabile
rispetto a certe teorie della traduzione che, nella loro pretesa scientificità,
accordano importanza solo agli aspetti tecnici e specialistici del mestiere di
traduttore. Questo modo di considerare la traduzione è ciò che sta alla base
dell’idea della possibilità della traduzione automatica, mentre Benjamin, che
forma il suo concetto di traduzione a partire dalla sua esperienza di
traduttore di poesia, parte dal presupposto che la traduzione non si possa
ridurre a una mera trasmissione d’informazioni. Nell’ambito della pratica
quotidiana del tradurre, tuttavia, la teoria della traduzione ha un’utilità
marginale rispetto all’esperienza quotidiana del confronto con il testo, che
deve fare i conti – con buona pace di Benjamin, il quale nega che la traduzione
debba “servire al lettore” – con il momento storico in cui la traduttrice sta
lavorando e con il concetto di traduzione che gli editori e i lettori hanno in
quel particolare momento. Se fino a pochi decenni fa nell’eterno dibattito fra
“bellezza” e “fedeltà” di una traduzione si propendeva decisamente per la prima
(ciò che Schleiermacher intendeva dicendo “il traduttore lascia il più
possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore”), oggi – grazie
proprio alla diffusione di quella teoria della traduzione che si è rivelata
fondamentale non tanto, come dicevo, nell’esperienza pratica di chi traduce per
mestiere, quanto per lo sviluppo della percezione del concetto di traduzione
all’interno di una data cultura – la necessità di ri-scrivere un’opera in
“bell’italiano” si affianca in modo più equilibrato alla necessità di
traghettare nella lingua e nella cultura di arrivo l’elemento di estraneità
presente nella lingua e nella cultura di partenza.
RR: È anche vero che
non tutte le traduzioni che si trovano in libreria sono ineccepibili, proprio
per via delle condizioni economiche e materiali in cui i traduttori sono
costretti a lavorare. Non è possibile che l’impiego della traduzione neurale
possa rendere queste condizioni meno insopportabili, o se non altro favorire lo
sviluppo di un settore editoriale, certo più selettivo, ma in cui la qualità
letteraria sarebbe l’unico criterio vigente e condiviso? Non sarebbe in fondo
auspicabile una distinzione più netta tra traduzioni letterarie e traduzioni
che non lo sono?
SP: Si sta già
delineando una possibile divisione del mercato della traduzione in tre fasce:
una fascia “bassa” in cui le traduzioni saranno completamente generate dalle
macchine, una fascia “media” in cui le traduzioni verranno fatte dalle macchine
e riviste dagli umani, e una fascia “alta” in cui le traduzioni saranno fatte
solo da umani. Sulle condizioni meno insopportabili ho grossi dubbi: lo scopo
dell’automazione del lavoro è quello di aumentare l’efficienza e abbattere i
costi, cioè far lavorare più in fretta e con una retribuzione inferiore.
RR: Negli ultimi
tempi alcuni autori si sono impegnati per inserire delle clausole nei loro
contratti che autorizzino esclusivamente traduzioni fatte da esseri umani.
Altri, piuttosto celebri, hanno fatto causa a ChatGPT per essersi addestrata
utilizzando gratuitamente i loro libri. Nell’idea di limitare l’influsso dei
sistemi automatici sul lavoro di un autore, non ti sembra tuttavia che la
prospettiva dello scontro uomo-macchina possa risultare miope o addirittura
controproducente? Prima di poter rispondere a questioni legali e, più in
profondo, etiche, mi chiedo: siamo sicuri che la macchina non possa produrre
letteratura (ovvero un’opera d’arte letteraria)? Non si sottintende, così
dicendo, che l’arte possa essere il frutto soltanto dell’intenzionalità del
soggetto umano? Non è invece l’arte, la letteratura, ciò che avviene malgrado
il suo autore, l’imprevisto, lo scarto del linguaggio che sfugge al suo
controllo e si rivela essere più potente, appunto, di un semplice strumento
nelle sue mani?
SP: Ritengo che
non si debba parlare di scontro uomo-macchina, bensì di scontro fra l’umano
inteso in una prospettiva “umanistica” e la macchina utilizzata come strumento
di puro profitto, senza alcuna riflessione sulle conseguenze del suo impiego. A
chi sostiene che sia impossibile fermare il progresso, io oppongo l’idea che la
possibilità che una cosa venga fatta non implica necessariamente che la si
debba fare (“quando vedi qualcosa che è tecnicamente valido, vai avanti e lo
fai e discuti su cosa farne solo dopo che hai avuto il tuo successo tecnico”,
diceva Robert Oppenheimer). Ma qui approdiamo alla questione politica del
declino della democrazia e della sua sostituzione con una plutocrazia sostenuta
dal capitale tecnologico. Le macchine non sono né buone né cattive, possono
essere usate per scopi costruttivi o distruttivi. Un’arte delle macchine può
esistere e trovare un posto nel mondo dell’arte, perché no. Il problema sorge
quando si comincia a pensare che l’arte prodotta dalle macchine possa
rimpiazzare quella prodotta dagli umani. E, allargando il campo, quando le
macchine, anziché alleviare la fatica degli umani, cominciano a sostituirsi a loro,
perché costano meno, perché sono più efficienti – la feticizzazione
dell’efficienza è un altro processo che il tecnocapitalismo ha portato
all’esasperazione – e non sono sindacalizzabili. E attenzione a non cadere nel
solito luogo comune per cui per ogni posto di lavoro cancellato
dall’innovazione tecnologica se ne creerà un altro, perché in un’epoca di
automazione spinta le macchine cominceranno a prodursi da sole e ci sarà sempre
meno bisogno dell’apporto umano.[/a]
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