“io sogno un mondo (…) nel quale le fabbriche d’armi sono messe fuori legge”
Sabato 27 gennaio 2024 è morta a Copenaghen Maria Giacobbe
La ricordiamo con alcuni suoi scritti e interviste, e un ricordo di Natalino Piras del 2023, per i 60 anni dalla pubblicazione di “Diario di una maestrina”
“Adesso sono tre anni che insegno a Orgosolo. Tre anni in cui tanti cliché che avevo quando arrivai sono scomparsi e un nuovo sentimento li ha sostituiti: sentimento che è di affetto e di solidarietà per questi bambini, per le loro mamme, per i loro padri e fratelli. Orgosolo non è più l’Università del delitto.
Tutti nel paese mi conoscono e tutti mi salutano; entro nelle loro case e mi scaldo alla fiamma dei loro focolari, ascolto le loro storie e partecipo ai loro drammi, bevo il loro caffè e mangio le loro patate. I loro problemi sono i miei problemi, perché questa è la mia gente”.
Da Diario di una maestrina, Laterza 1957
Maria Giacobbe nasce a Nuoro nell’agosto del 1928, figlia dell’insegnante Graziella Sechi e dell’ingegnere Dino Giacobbe, militanti antifascisti nella Nuoro fra le due guerre. Il padre Dino, vicino a Emilio Lussu e agli altri sardisti antifascisti, combatterà in Spagna e si rifugia negli Stati Uniti sino alla fine della guerra.
Maria già dal 1956 collabora con Il Mondo di Pannunzio e nel 1957 pubblica Diario di una maestrina, premio Viareggio opera prima e poi tradotto in varie lingue, uno dei pilastri della letteratura sull’educazione scolastica del dopo guerra. Nel 1958 si trasferisce in Danimarca col marito Huffe Harder, anche lui scrittore, dove vivrà sino alla fine, sempre coniugando i suoi due mondi, la Danimarca e la Sardegna, dove torna spesso mantenendo i suoi legami e le sue amicizie, fra cui quello antico e mai interrotto con Joyce Lussu. E dove, a Orosei nel luglio dl 2019, muore annegato il figlio Andreas Harder.
Un sogno
Il mio sogno è così semplice che basterebbero pochissime parole per raccontarlo, ed è così logico e chiaro che è strano sia solo un sogno e non una normale realtà, accettata e irremovibile. Una realtà nella quale la maggior parte dei problemi globali che oggi sembrano quasi insolubili – inquinamento, riscaldamento del pianeta, diminuzione delle risorse non rinnovabili, etc. – avrebbero già trovato la loro naturale e indolore soluzione.
In breve, io sogno un mondo che somiglia al nostro ma nel quale le fabbriche d’armi sono messe fuori legge, e tutti i paesi – piccoli e grandi – che attualmente le ospitano s’impegnano a trasformarle in “industrie di pace” e a combattere ogni tentativo di riaprirle sotto qualsiasi pretesto. S’impegnano a combattere le fabbriche d’armi come sono obbligati a combattere tutte le altre imprese nocive e illegali, come per esempio la fabbricazione e la vendita di droghe e il mercato di carne umana.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (l’ultima guerra al mondo che iniziò con una dichiarazione di guerra e si concluse con un patto di pace) abbiamo avuto una serie infinita di guerre infinite e non dichiarate, che vengono condotte senza grandi movimenti di truppe, senza battaglie memorabili e con relativamente piccole perdite di militari combattenti. Ma con moltissimi morti fra le popolazioni civili e, particolare non trascurabile, enorme consumo e distruzione di costosissime “apparecchiature belliche”. Apparecchiature uscite dalle redditizie fabbriche d’armi che spesso hanno anche te e me e altre persone per bene come piccoli azionisti.
Perché un’industria sia redditizia occorre che la vendita dei suoi prodotti sia ininterrotta e possibilmente in crescita. Ragion per cui, se le merci prodotte sono armi, la conclusione delle guerre in corso non è proprio una buona idea.
Mentre scrivo queste righe, in molti paesi del mondo si stanno usando armi di produzione italiana, francese, inglese, tedesca, russa, cecoslovacca, americana, belga, israeliana, svedese e danese per combattere e uccidere uomini che allo stesso fine usano armi che, come quelle dei loro antagonisti, provengono esattamente dalle stesse fabbriche in Italia, Francia, Inghilterra, Germania, Russia, Cecoslovacchia, Belgio, Israele, USA, Svezia, Norvegia, Danimarca. E a questi si potrebbero aggiungere tutti gli altri paesi cosiddetti “emergenti” e già presenti con i loro prodotti nel mercato mondiale della morte.
E mentre io scrivo e tu leggi, con i raffinatissimi prodotti di questi paesi che continuiamo a considerare rispettabili, civili e umani vengono uccisi e torturati nel corpo e nell’anima degli uomini delle donne e dei bambini, le loro città e la natura che le circonda vengono ferite a morte, materiali già scarsi e insostituibili vengono sprecati e si contribuisce a infittire la cappa d’ozono attorno al pianeta. E con questi ordigni che vengono chiamati “di difesa” ma la cui funzione essenziale è quella di seminare morte, distruzione e terrore, si fa aumentare l’odio fra i popoli, si riducono le risorse destinate ad aiutare i disabili, i malati, i vecchi, i bambini e i giovani e a incrementare le scuole, i teatri, i musei e tutte le altre istituzioni che possono abbellire e ingentilire la vita.
Nel civile mondo del mio sogno, gli eccellenti ricercatori, i bravi operai, i coscienziosi impiegati occupati oggi nelle fabbriche d’armi che portano morte, fame e disperazione a tanta gente, userebbero la loro intelligenza, capacità e forza per inventare e produrre strumenti e condizioni per migliorare la vita di tutti sulla terra.
Forse, anzi probabilmente, anche in questo mondo del mio sogno ci sarebbe qualche Caino tentato di uccidere Abele, e qualche Otello convinto di dover uccidere la sua amata Desdemona, e i lupi non diventerebbero automaticamente agnelli.
Ma nessuno più avrebbe il permesso di arricchirsi sulla loro follia vendendo le armi che la rendono più efficace e che ne prolungano l’effetto, e gli Stati non continuerebbero a macchiarsi dell’orribile colpa di tollerare e lucrare con le fabbriche di odio e di morte finalmente equiparate alle fabbriche di droghe e ai mercati di carne umana.
A me pare che in questo mio mondo sognato i soli perdenti sarebbero i commercianti d’armi e alcuni banchieri. Ma, per dire le cose come stanno, non mi sentirei particolarmente obbligata ad avere rimorso nei loro riguardi.
Da https://www.equilibrielmas.it/2012/05/15/un-sogno/
La vera origine del formaggio, di Maria Giacobbe
Per i miei adulti da bambina devo essere stata una peste. Non era colpa mia, ma di costituzione ero deboluccia e senza esclusione di colpi mi beccavo tutte le malattie infantili che passavano per la città. E questo naturalmente li metteva ogni volta in apprensione.
Ma anche quando ero più o meno sana gli adulti non erano tranquilli e si preoccupavano per la mia tendenza a starmene dentro casa, silenziosa come una pianta d’appartamento. Più di tutto però si tormentavano e mi tormentavano per la mia inappetenza. “Continuando così rischi di restare nana!” “ Sei verde e magra come un filo d’erba!” “ Finiremo tutti in prigione, se un giorno muori d’inedia!” Dicevano.
Inedia. Una bella parola che più o meno significava fame. Ma io non avevo quasi mai fame, e neppure “appetito” come correggeva una zia che, anche lei, preferiva le parole difficili a quelle più normali che tutti conoscevano. Ma io non avevo né fame né appetito. In ogni caso, non di quei cibi che loro dicevano che erano “sani” e che mi “facevano bene”.
La carne mi pareva disgustosa anche da vedere. Figuriamoci a mangiarla. La masticavo e rimasticavo cercando di spingerla giù per la gola, ma era un’impresa disperata. Mi pesava sulla lingua e quando stavo per inghiottirla risaliva provocandomi quasi il vomito. Loro facevano finta di non accorgersene e insistevano “per un altro boccone”.
La pasta al sugo di cui tutti sembravano entusiasti, a me mi dava la nausea solo a vederla con tutti quei puntini neri in mezzo alla salsa rossa come il sangue. “Prezzemolo” li chiamava mia madre quei puntini che, nel migliore dei casi, potevano essere moscerini annegati nel sugo.
Il minestrone poi aveva un odore disgustoso e in ogni cucchiaiata c’erano dentro tanti pezzetti di tante cose tanto diverse che proprio non sapevi che cosa ti stavi mettendo in bocca.
E il pesce – che altrimenti era bello da vedere e abbastanza buono di sapore – si trovava solo d’estate, quando eravamo al mare in vacanza.
Neppure i dolci mi piacevano. I cioccolatini avevano sapore di chinino, ed erano una medicina che mi davano quando avevo gli accessi di malaria. Per farmeli mangiare loro dicevano che tutti i bambini ne erano ghiotti, e che io facevo la schizzinosa solo per farli disperare.
Ma non era vero perché, per esempio, mangiavo volentieri le verdure che ci portava un vecchio ortolano somigliantissimo a San Giuseppe, il padre di Gesù, e che anzi doveva essere proprio San Giuseppe, anche se si faceva chiamare Pedru che dalle nostre parti è un modo per dire non Giuseppe ma Pietro.
Però anche con le verdure, e cioè i finocchi, il cavolfiore, i carciofi, i piselli, le fave, le lattughe, le carote, i ravanetti, i pomodori e i sedani, c’erano problemi perché per piacermi dovevano essere crude e assolutamente al naturale e non mescolate con olio, sale, aceto e altre cose con le quali gli altri avevano l’abitudine di rovinarle.
Ma, come si diceva in famiglia, se nonostante tutto ero ancora in vita era solo grazie al formaggio. Perché il formaggio mi piaceva senza riserve, e lo mangiavo senza farmi pregare. Niente poteva essere meglio del formaggio. Naturalmente pecorino. Di altri formaggi non conoscevo l’esistenza.
Come le verdure, anche il formaggio ci veniva dai poderi di nonna. Ma a portarcelo non era Pedru-San Giuseppe col suo calesse profumato di menta e di finocchi, tirato dal cavallino baio, ma i pastori che avevano odore di sego e di pecora e arrivavano cavalcando direttamente sui loro cavalli e con le bisacce gonfie e pesanti ai due lati della sella.
Però odore di sego o no portavano il formaggio e a me del formaggio mi piaceva tutto: per cominciare mi piaceva il suo sapore salato e forte, senza strane indefinibili mescolanze, poi mi piaceva la sua consistenza quando lo masticavo e si scioglieva tra il palato e la lingua come una crema, e infine mi piaceva quella sensazione bellissima quando tranquillamente e senza inciampi scivolava giù per la gola e io ero già pronta a infilarmene in bocca un altro pezzo..
Il formaggio oltretutto era anche bello da vedere, uniforme e senza segreti, non come i cibi stracotti e composti di chissà quante cose repugnanti che io dovevo “almeno assaggiare, per accontentare mamma”.
Del formaggio anche l’odore mi piaceva, e non capivo che mia sorella dicesse che “puzzava”, e scappava di tavola ogni volta che vi compariva.
Ma chi era stato l’inventore d’una cosa perfetta come il formaggio? Questo avrei proprio voluto saperlo, ma non avevo abbastanza fiducia nella sincerità degli adulti per chiederlo.
D’altra parte non era neppure necessario: io lo vedevo come se fossi stata presente quella volta, moltissimo tempo fa, che un vecchio coperto di stracci – che in realtà era Gesù che si era travestito così per mettere gli uomini alla prova – se ne andava di casa in casa in un paese che somigliava al nostro e bussava a tutte le porte per chiedere l’elemosina. Ma le massaie affaccendate, che somigliavano tutte alla nostra vicina più antipatica, gli sbattevano la porta in faccia dicendo che non volevano dare niente a un fannullone come lui.
Allora Gesù se ne era andato in campagna e aveva cominciato a camminare sulle colline verdi, fermandosi negli ovili più grandi per chiedere da mangiare. Ma tutti i pastori ricchi trovavano una scusa per non dargli niente.
Alla fine Gesù, sempre travestito da mendicante, arrivò nella capanna di un pastore che era così povero da non avere neppure una porta. Il pastore povero, che era giovane e anche bello, lo accolse subito con un sorriso, gli diede uno sgabello di ferula per sedersi a riposare e, senza attendere che il povero vecchio glielo chiedesse, gli offrì una scodella di latte appena munto.
E allora all’improvviso la capanna s’illuminò d’una grande luce, gli stracci scomparvero e Gesù si fece riconoscere con la sua tunica bianchissima, il mantello rosso, gli occhi azzurri e la barba bionda come quella di Garibaldi, e disse al pastore povero:
“Sei stato gentile e ospitale, perciò voglio insegnarti a fare il formaggio”.
“Il formaggio?” domandò il pastore che non aveva mai sentito quella parola che Gesù aveva appena inventato.
“Sì, il formaggio! Guarda!” rispose Gesù e cominciò a mostrargli come si faceva.
E così fu che il pastore gentile e pietoso imparò a fare il formaggio e, siccome era tanto generoso non si tenne per sé quel segreto ma lo insegnò a tutti gli altri pastori che da allora cominciarono a volergli bene e ad apprezzare il formaggio.
Poi il buon pastore si sposò ed ebbe molti bambini ai quali piacevano il formaggio e le verdure che la loro mamma coltivava nell’orto intorno alla casa e che mangiavano crude e appena colte. E così diventarono ricchi e vissero felici e contenti tutta la vita.
Fu proprio così che andò l’invenzione del formaggio.
Ne sono ancora (quasi) sicura.
Il racconto è stato pubblicato in Danimarca, ed è inedito in Italia
da qui: equilibrielmas
Maria Giacobbe, di Natalino Piras
Maria Giacobbe (14 agosto 1928- 27 gennaio 2024)
Il pezzo dell’anno scorso, nella rubrica “Il paese portatile”
Il paese portatile – Compie 66 anni Diario di una maestrina di Maria Giacobbe – La Sardegna come Barbiana – L’Ortobene – 14 maggio 2023 – numero 18 – pagina 7
Sono passati 66 anni dalla prima uscita, per Laterza, dell’opera più importante di Maria Giacobbe, Diario di una maestrina che insieme a La scuola nemica (1973), Le bacchette di Lula (1974), La supplente (1975) e Un anno a Pietralata (1979) di Albino Bernardini sono da considerarsi dei classici per il senso, e la capacità, dell’essere i sardi grandi pedagogisti. Specie se la loro scuola è fatta e sta dalla parte degli ultimi. Ragionando in termini di locale-globale, l’esperienza di cui Diario di una maestrina fa cronaca, è come quella delle due Margherite Sanna, una di Orune l’altra di Nuoro, raccontate in questo paese portatile, nei duri anni del secondo dopoguerra, dentro un contesto di resistenza all’alfabetizzazione forzata, però di forte cultura autoctona. Allargando la visione, la Sardegna dell’interno di quegli anni Cinquanta somiglia alla Barbiana, poco più di venti case abbarbicate sull’Appenino toscano, il luogo dell’esperienza di don Lorenzo Milani. È da là che proviene Lettera a una professoressa (1967), scritta dal priore insieme ai suoi allievi, la contestazione della scuola dei ricchi che appunto perché sono ricchi conoscono molte più parole dei poveri. Per questo sono padroni.
La stagione totale del priore di Barbiana è riconoscibile anche in Diario di una maestrina.
Maria Giacobbe, classe 1928, nuorese di Santu Predu, figlia della maestra Graziella Sechi e dell’ingegnere Dino, nell’élite dell’antifascismo barbaricino insieme a Raffaello Marchi e la moglie Mariangela Maccioni, Efis Caria, Giovanni Dettori, i fratelli Franchi, il dorgalese Crodazzu, dottor Ennio Delogu e pochi altri, è da anni che vive tra Sardegna e Copenaghen. Suo marito, Uffe Harder, era anche lui scrittore, insieme con Maria hanno tradotto dal danese in italiano le sceneggiature cinematografiche di un grande regista del muto, Carl Theodor Dreyer.
Diario di una maestrina è l’opera d’esordio di una ragazza «della migliore società nuorese», gli annoiati-bene per quanto questa locuzione poteva valere nel capoluogo della Barbagia di allora, che, per caso, dopo aver interrotto il liceo classico e dopo due anni dal diploma magistrale inizia «una supplenza di quindici giorni in una scuola di tricofitici e di tracomatosi», sa tinza e sos ocros rujos e infezionatos, in uno sperduto luogo tra Bassa Gallura e Baronia. Un’aula a pianterreno in una casetta decrepita ai margini del paese. Il pavimento in terra battuta. Assi sgangherate come banchi. Gli animali domestici, asini, pecore e capre, maiali e qualche mucca a fare insieme. Pure le bisce. Sarà il mostrare agli alunni che lei non ne ha paura perché anche per lei, figlia di gente considerata ricca, è stata la campagna la prima scuola, a trasformare la diffidenza in ammirazione. E permetterle di stabilire nuovi patti con la classe. Peccato che questo traguardo raggiunto coincida con la fine della supplenza. Altri, d’ora in avanti, saranno i percorsi: Oliena, Fonni, Bortigali, Orgosolo.
Ciascuna tappa un romanzo, la scuola come cronaca del tempo dell’insegnare e dell’apprendere, entrambe cose difficilissime, come osservatorio, come lezione antropologica. La Barbagia e il Marghine, la condizione pastorale e contadina tessuta dal bisogno, dall’estrema povertà, dal tempo ostile, la pioggia, la neve, il fango, le bambine che alternano l’obbligo scolastico a s’aggiudu (Fonni), l’andare a servizio anche per qualche ora, equivalente del tzeracare dei ragazzi-pastori, a volte solo per poter mangiare, balentes e balenteddos, operai alla giornata, buoni e cattivi esempi, lo stravagante Don Coco, Letizia figlia di ragazza madre considerata una poco di buono, i banditi, sos carabineris, la galera, il confino, il benpensantismo bigotto e violento dei colleghi e delle colleghe della maestrina, infine la solidarietà da parte della gente ottenuta lavorando giorno per giorno. Con una visione propria, diversa, staccata da quella imposta dai programmi ministeriali che allora erano una cosa neppure così definita. Orgosolo è centro di emanazione, il punto di ritorno della narrazione, la scuola come condizione indispensabile. Sono gli stessi anni delle inchieste di Franco Cagnetta che serviranno poi a Vittorio De Seta come fonte per la sceneggiatura del capolavoro Banditi a Orgosolo (1961). Il Marghine, a confronto, sembra una terra lontana, abitata da gente dai modi civili, che niente hanno del selvatico e della rudezza, ma pure della dolorosa sincerità degli orgolesi.
In piena guerra fredda, tra blocchi contrapposti, cattolici e comunisti, situazione che la periferia avverte e sente così come il centro, la maestrina usa della scuola come fase proponente di un vivere meno duro, più solidale. Mette in rilievo, con graduata ironia, i difetti caratterizzanti la gente dei paesi della Barbagia, l’arte dell’adattamento degli olianesi, la forte parsimonia dei fonnesi, lo studiare con diffidenza il forestiero degli orgolesi.
Diceva la stessa Maria Giacobbe in un convegno internazionale su Salvatore Satta, a Nuoro, nel 1989, di sentirsi tra quegli accademici, linguisti, giuristi eccetera eccetera, come «mariane in mesu ebbas». La stessa condizione di quando era maestrina.
Natalino Piras
Bibliografia e collegamenti
Maria Giacobbe, una scrittrice dentro e fuori l’isola
https://issuu.com/110elode/docs/tesi_completa_c2e3e2a11947f1
“Un mondo in cui nessuno si senta ultimo”. Parla Maria Giacobbe, intervista al settimanale L’Ortobene da qui
Arcipelaghi, di Cada Die Teatro arcipelaghi teatro
Arcipelaghi, di Giovanni Columbu
Fra due mondi. Ritratto di Maria Giacobbe di Francesco Satta, trailer
https://vimeo.com/108130706?login=true
https://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Giacobbe
https://vitaminevaganti.com/2019/05/04/memoria-e-impegno-sociale-nellopera-di-maria-giacobbe/
BIBLIOGRAFIA
Narrativa
- Diario di una maestrina, Laterza, Milano 1957
- Piccole cronache, Bari, Laterza, 1961
- Male kronike, Ljubljana, Mladinska knjiga, 1963
- Il mare, Vallecchi, Firenze 1967
- Eurydike, Gyldendal, Copenaghen 1970
- Stemmer og breve fra den europæiske provins, Gyldendal, Copenaghen 1978
- Le radici, Edizioni della Torre, Cagliari 1977; 1979; 1996; Il Maestrale, Nuoro 2005
- Kald det så bare kærlighed: tre noveller, Gyldendal, Copenaghen 1986
- Gli arcipelaghi, Biblioteca del Vascello, Roma 1995; Il Maestrale, Nuoro 2001
- Maschere e angeli nudi: ritratto d’infanzia, Il Maestrale, Nuoro 1999.
- Scenari d’esilio. Quindici parabole, Il Maestrale, Nuoro 2003
- Pòju Luàdu, Il Maestrale, Nuoro 2005
- Chiamalo pure amore, Il Maestrale, Nuoro 2008
- Euridice, Il Maestrale, Nuoro 2011[
Saggi[
- Poesia moderna danese, Edizioni di Comunità, Milano 1971
- Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna, Bompiani, Milano 1973; 1974
- Giovani poeti danesi, Einaudi, Torino 1979
- Lærerinde på Sardinien, Gyldendal, Copenaghen 1979
- “Grazia Deledda a Stoccolma”, Atti del Convegno su Grazia Deledda, vol. II, Biblioteca Sebastiano Satta, Nuoro, 1985
- “Tra memoria e rancore: La Sardegna del desiderio di Lina Unali”, L’Unione Sarda, 11 giugno 1991
- Sorelle, in AA. VV. (a cura di Giulio Angioni), Cartas de logu. Scrittori sardi allo specchio, Cagliari, CUEC, 2007.
Bibliografia critica[
- Tania Baumann, “Maria Giacobbe”, in Donna Isola. Ritratti femminili nel romanzo del Novecento, Cagliari, CUEC, 2007.
- Cristina Lavinio, “Micro-viaggio tra codici culturali e rese testuali”, in Il Cannocchiale sulle retrovie, Roma, CISU, 2012.
- Angela Guiso, “Donne doppie oltre il confine”, in Il doppio segno della scrittura, Sassari, Carlo Delfino editore, 2012.
- Angela Guiso, “The Treasure Chest and the Talisman: Writing between Reality and Myth in Maria Giacobbe”, in Virginia Picchietti e Laura A. Salsini (eds.), Writing and Performing Female Identity in Italian Culture, Cham (Switzerland), Palgrave Macmillan, 2017, pp. 223-247.
Da Wikipedia
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