(Consigli di classe.
Scuola, democrazia e società, rubrica a cura di Mimmo Cangiano)
In cammino verso
l’Oltre-Scuola
È sintomatico che l’intervento del
Ministro Valditara alla Presentazione del Programma Nazionale “Suola e
competenze 2021-2027”[1] sia
passato relativamente inosservato. Dalle parti degli “ultra-pedagogisti” di
sinistra[2] che
lo avevano subito bollato come fascistissimo rappresentante di una scuola
passatista, gentiliana e dal pugno duro non si è levato suono. Si capisce il
perché. Non avrebbero saputo cosa dire.
Non tanto perché nel giro di un anno il
Ministro ha imbellettato il proprio profilo, passando dalla “pedagogia
dell’umiliazione” a farsi improbabile paladino di una scuola dell’inclusione,
della lotta al sessismo e dell’educazione all’affettività, ma, ciò che più
conta, perché la sua amministrazione del PNRR esprime perfettamente le linee
ideologiche che da sempre accomunano i desiderata dell’UE e quelli della
pedagogia sedicente “progressista”.
Queste ultime convergono nel sottrarre
ogni autonomia al lavoratore docente attraverso una sussunzione del
suo operato in schemi produttivi, “efficienti”, para-aziendalistici,
asservendolo al contempo sempre più a compiti eteronomi di soddisfazione
dell’utente-cliente scolastico, con particolare attenzione alle sue esigenze
psicologico-emotive e “creative”[3].
Valditara e la pedagogia di sinistra
marciano all’unisono, il cammino verso l’oltre-scuola, la Überschule del
futuro, è ormai già segnato: i volti e lo stile di chi si avvicenda al MIUR
sono relativamente indifferenti rispetto ad un’agenda già scritta che esprime
tendenze oggettive, di lungo periodo. Questa agenda è infatti indipendente
dalle volontà dei singoli perché è determinata dalla forma stabile che i
rapporti produttivi assumono in un ordine sociale capitalistico e dal
conflitto tra le esigenze di questi rapporti e quelle espresse dai cittadini in
quanto lavoratori e futuri lavoratori, nonché da quelle di istituzioni – come
la scuola – che nascono e si sviluppano su coordinate se non totalmente
antagonistiche, sicuramente molteplici, stratificate, contraddittorie, spurie
rispetto a quelle.
La duplice riduzione del sapere tecnico e di quello umanistico
Altrettanto sintomatico è che nel
discorso del Ministro, per tacere di tutti coloro che lo hanno seguito nel
convegno, non sia stata spesa una parola chiara per spiegare cosa si intenda
con l’espressione “competenze”. Eppure sono proprio queste “competenze” che la
scuola si impegna a sviluppare nei prossimi anni e verso cui dirige ingenti
finanziamenti. Allo stesso tempo, tuttavia, le pur vaghe parole spese nel
convegno chiariscono molto bene quale sia la posta in gioco
politica di quella che potremmo chiamare “metafisica delle competenze”.
Le competenze costituiscono infatti un
termine dalla ambigua natura descrittivo-prescrittiva: chi dice “competenze”
vuole descrivere al tempo stesso come funziona la conoscenza
e come dovrebbe funzionare.[4] In
realtà usando quel termine si esplicita soltanto un certo modo di intendere il
sapere e la trasmissione del sapere dentro una determinata epoca dello sviluppo
industriale e l’insieme prescrittivo delle regole che i rapporti produttivi
impongono alla società nel suo complesso e alle singole agenzie educative.
Ciò avviene attraverso una duplice
riduzione che colpisce tanto il sapere tecnico-professionale quanto
quello generale-umanistico. Dal primo ci si aspetta un immediato collegamento
col mondo del lavoro, cioè delle imprese, attraverso la vetusta
idea secondo cui queste ultime potrebbero determinare autonomamente contenuti
formativi rilevanti.[5] Il
sapere umanistico, dal canto suo, svapora in una generica preparazione alla
“cittadinanza”, obiettivo che, a sua volta, ne sintetizza altri due
essenzialmente diversi: formare un cittadino consapevole e permettergli una
migliore inclusione sociale, garantirgli delle possibilità di “successo”,
addirittura di “felicità”.
Omnia vincit laboratorium
Questo doppio movimento viene alla luce
in modo fin troppo evidente prestando attenzione al modo in cui il discorso
sulle competenze si intreccia con la parola chiave del discorso del
Ministro: laboratorialità. I fondi stanziati dal MIUR e dall’UE
sono infatti vincolati dall’applicazione di una “didattica laboratoriale”.
Questo concetto appare al tempo stesso espressione di una gretta materialità e
del più vacuo idealismo. Il discorso del Ministro riferisce l’investimento a
cose apparentemente concretissime come il “cablaggio” e la “digitalizzazione”
ma, con egual enfasi, si invola verso i cieli della lotta alla “dispersione
scolastica” e al “divario nord-sud”.
In realtà, si tratta del solito sguardo
sbilenco del riformismo pedagogico che sopravvaluta il potere trasformativo
della scuola e sottovaluta le conseguenze pedagogiche della trasformazione
sociale: in tal modo si lasciano intatte le cause che rendono impossibile una
democratizzazione della scuola e della società mentre ci si
balocca con un processo di democratizzazione immaginario che partendo dalle
aule avrebbe il compito di porre fine alle storture nella realtà sociale.
Nel suo recente intervento alla festa di
Atreju[6] il
Ministro ha ricordato i tempi in cui la scuola riusciva invece a combattere le
differenze di classe e garantire mobilità sociale. Si è scordato di ricordare
che la scuola poteva riuscirci – una scuola cento volte più “autoritaria”,
“frontale” e “nozionistica” di oggi – perché i rapporti produttivi erano
investiti dalla potenza espansiva di una classe operaia ben organizzata,
garantita da riforme sociali conquistate in lotte durate anni, all’interno di
un movimento propulsivo che procedeva non solo dalla scuola in direzione della
società ma piuttosto all’inverso. Lo scenario delle relazioni industriali oggi
appare invertito, subiamo la controffensiva di un’egemonia liberista ormai
consolidata che spariglia ogni opposizione organizzata dei lavoratori, le
differenze sociali diventano siderali e l’attuale compagine di governo
smantella ogni residua traccia di sostegno al reddito delle classi subalterne.
Questo scenario è dato per scontato,
tanto dai governi liberisti quanto dalla pedagogia liberal. Per entrambi, se la
scuola non riesce a combattere le disuguaglianze e la dispersione scolastica,
se la scuola insomma è ancora “classista”, è colpa della vecchia lezione
frontale, con il suo approccio autoritario, nozionistico e passivizzante.[7] L’orientamento
laboratoriale avrebbe invece il potere mistico e taumaturgico di trasformare le
scuole in “hub educativi” producendo “un’azione sociale e psicologica” in grado
di “portare i ragazzi nelle scuole”.
Questo potere di seduzione verso le
giovani generazioni deriverebbe dalla possibilità di rendere più molteplice e
concreto l’insegnamento, di “personalizzarlo”. Si parla di “sport”, “teatro”,
“musica” e tante cose belle che si posson fare nei laboratori. Ma come il canto
delle sirene questo refrain ha il suo lato oscuro e a sua volta classista.
Quando gli esperti dell’INDIRE esprimono il potenziale della didattica
laboratoriale per tutte le aree parlano della possibilità per
gli studenti di “entrare materialmente” nella disciplina e di “manipolare” i
contenuti. Si incoraggia così l’attività degli studenti ponendo ad essi delle
“sfide” e alimentando la loro “curiosità”. L’apprendimento diventa “concreto” e
si muove in direzione del problem solving.[8]
Prima di mostrare come questo discorso
colpisca il sapere non solo umanistico ma quello teorico in genere, andiamo a
vedere come viene intesa la “personalizzazione” dell’apprendimento rispetto al
sapere tenico-professionale. I recenti tentativi del Ministro di approvare una
riforma in quest’ambito hanno suscitato proteste e opposizioni perché è
evidente l’intento di rendere il sapere una variabile dipendente dagli
interessi delle imprese.[9] In
effetti nel discorso del Ministro questo è detto a chiare lettere. La
“personalizzazione” viene ottenuta non solo costruendo “ambienti di
apprendimento” ma anche formando personale in modo specifico.
Ora, questa formazione non riguarda, ovviamente, le conoscenze disciplinari ma
l’istituzione di figure di “tutor” e “orientatori” che hanno il compito di
costruire un percorso scolastico “su misura”. Dello studente? Certo ma in
quanto studente che apprende orientandosi già verso il mercato del lavoro! E
dunque non solo su misura delle sue “potenzialità” ma anche – e direi soprattutto visti
i rapporti di forza vigenti tra le classi – delle potenzialità e delle
aspettative delle aziende. Il Ministro parla esplicitamente della didattica
laboratoriale come lo strumento attraverso cui la scuola si apre “alle esigenze
del lavoro espresse dal territorio”. Ad un certo punto esplicita questo
retro-pensiero con un bel lapsus in cui sottolinea la matrice labor dell’espressione
laborialità.
Classe, classismo e classici
Non bisogna però cadere nell’errore di
ritenere questo apprendistato come una richiesta da parte delle aziende di una
formazione specifica e già tecnico-operativa. Questa è una visione parziale che
non comprende la reale funzione modellatrice del rapporto di classe rispetto
alla trasmissione del sapere. Le aziende sanno benissimo – meglio di quanto non
sappiano ministri e pedagogisti – che le conoscenze tecniche e le richieste del
mercato del lavoro cambiano tanto più velocemente quanto più il capitale riesce
a mettere a frutto la tecnologia avanzata al servizio dell’accumulazione di
plusvalore. Ciò che ad esse serve perché quell’accumulazione possa realizzarsi
sono due cose molto precise: una formazione elastica che dia
al lavoratore gli strumenti cognitivi che gli permettano di adattarsi a sempre
nuovi contesti e la sua disponibilità a sottomettersi ad un processo produttivo
che lo espropria integralmente di ogni autonomia sui modi,
spazi e tempi di lavoro. I valori che animano la nuova scuola sono perfettamente
allineati a queste richieste. La “creatività” tanto sollecitata deve preparare
a quel creativo sforzo di adattamento continuo attraverso cui, come dice
Masino, è il lavoratore stesso “a provvedere alla taylorizzazione del proprio
lavoro”.[10]
Per questo, in realtà, l’opposizione
alla scuola tradizionale muove dalla traduzione in termini sempre meno
contenutistici e sempre più pratico-operativi tanto nel campo del sapere
tecnico, quanto di quello scientifico e umanistico. L’attacco alla lezione
frontale è a sua volta finalizzata ad un attacco all’autonomia del
docente-lavoratore. Non solo. Attraverso una critica generica dell’insegnamento
tradizionale, visto al tempo stesso come troppo “nozionistico-contenutistico” e
troppo “astratto”, si vuole colpire una forma della trasmissione del sapere che
aveva come scopo la costruzione di una solida formazione teorica che
pretendeva padroneggiare concettualmente nessi costruiti
attraverso una mole molto ampia di contenuti disciplinari. Il
fallimento della scuola pubblica non sta in quello che faceva ma in ciò che non
riusciva a fare: elevare le masse ad una comprensione concettuale del
mondo e del proprio posto nel mondo, mostrare le vie
contraddittorie ma vitali dell’universalizzazione.
L’attacco alla lezione frontale ha lo
scopo di manomettere questo aspetto della trasmissione del sapere favorendo
invece skills cognitive di altro tipo: da un lato, attiva lo
studente in quanto cliente e consumatore di
cultura, incoraggiandolo a “scegliere” ciò che più lo aggrada, fissandolo così
alla propria identità, alle proprie inclinazioni; dall’altro, lo addestra
ad apprendere solo ciò che risulta spendibile in una pratica
ottusa e limitata, consegnandogli compiti da svolgere. Lo addestra al lavoro
eterodiretto, alla sua forma squisitamente capitalistica.
La metafisica delle competenze
In tutto questo le “competenze” fungono
da concetto ideologico fondamentale, sono l’architrave teorico della
laborialità. Esse vengono evocate per alludere ad una forma di sapere
consustanziale ai rapporti produttivi dominanti. Nel corso degli anni le
competenze hanno assunto infatti i più diversi significati, la loro ampiezza è
cambiata (dalle “competenze di base” alle “competenze di cittadinanza”), così
come il loro oggetto e la loro funzione (dalle “competenze chiave” alle
“competenze trasversali”).[11]
Si potrebbe, e si dovrebbe, ovviamente
contestare alla radice questa ricerca di una definizione sempre più precisa
delle “competenze”. A partire dalla distinzione stessa tra conoscenze e
competenze che è totalmente astratta. Lo stesso punto di vista che concepisce
lezione, studio e verifica come momenti “separati”, dunque astratti, del
processo formativo pretende poi risolvere il problema creato dalla propria
falsa astrazione attraverso la falsa concretezza della didattica laboratoriale.
Se, come si ribadisce ad nauseam, non esistono competenze
senza conoscenze non può che essere vero anche il contrario. Oltre che astratta
la nozione di competenza appare quindi spesso del tutto pleonastica poiché ogni
disciplina che venga appresa non in modo pedantesco e meccanico ma con
passione, rigore e continuità produce motu proprio un
passaggio di livello metacognitivo.
Le competenze appaiono come l’esito di
una stratificazione ridondante e arbitraria: da un lato dicono un po’ sempre la
stessa cosa, dall’altro mescolano cose assolutamente diverse e inconciliabili;
per un verso sono legate alla pratica operativa, per un altro si involano verso
livelli spiritualistici di autocoscienza. Se il saper-fare è sempre legato ad
un apprendimento di tipo performativo che ne garantisce, tra l’altro, la
misurabilità, la competenza si eleva anche, consapevolmente, al di sopra del
piano delle “mere” conoscenze.[12] E
questo è non solo difficilmente misurabile ma anche difficilmente definibile
senza entrare in un circolo vizioso. Ogni volta che questo aspetto
della competenza viene codificato, infatti, ad es. attraverso le famigerate
tabelle ministeriali, ci troviamo di fronte ad affermazioni tautologiche:
l’alunno “sa scegliere”, “padroneggia”, “discute criticamente” ecc.[13]
Passando alle competenze “chiave”, a
quelle “trasversali” fino alle competenze di “cittadinanza” che dovrebbero
accompagnare le transizioni green e digitali dell’UE
(per tacere del recente pilastro sui diritti sociali), entriamo in
un vortice di definizioni sempre più pretenziose e vacue che coinvolgono la
dimensione psico-emotiva ed attitudinale, l’arte di “apprendere ad apprendere”,
il possesso degli strumenti per una maggiore inclusione sociale, senza farci
mancare, ovviamente, la valorizzazione di competenze falsamente neutrali come
la leadership e l’imprenditorialità.
Dalle competenze alla critica dell’ideologia
A poco servono le iniezioni di “valori”
con cui l’UE pompa le competenze fino a farle esplodere. Esse restituiscono
un’immagine di come l’UE si autorappresenta: un mondo in cui è possibile
amministrare il conflitto perpetuando l’oppressione sociale nel momento stesso
in cui se ne denuncia l’inammissibilità de iure. Il suo pragmatismo
civile è fatto della stessa pasta inconsistente delle sue competenze e della
sua laborialità: come quelle mescola nobili idealità e cieco operazionismo.
Come quelle sprofonda nell’irrazionalità perché si rifiuta di riconoscere che è
la parzialità della logica autoritaria del capitale a impedire il progresso
dell’universale come forma realizzata della vita collettiva.
La scuola del futuro dovrebbe favorire
la “creatività” e insegnare come “apprendere ad apprendere”. Ma di chi è quella
“creatività”? E per fare cosa dovremmo apprendere ad apprendere? Se alla scuola
pubblica viene sottratta la capacità di pensarsi come luogo alternativo tanto
al consumo quanto al mondo del lavoro, non le
resta alcuna alterità da rappresentare rispetto a queste sfere
in cui domina incontrastato il capitale.
La “creatività” di cui possiamo essere
portatori collettivamente è inversamente proporzionale a quella che possiamo
esprimere individualmente. E questo è tanto più vero nelle relazioni
industriali in cui, come si è visto, la creatività deve accompagnarsi sempre
alla capacità di riformulare un compito assegnato e circoscritto. Nella fase
espansiva della socialdemocrazia la creatività della classe operaia lottava
contro la gabbia d’acciaio di una razionalità di classe, voleva entrare dentro
quel meccanismo espansivo ed appropriarsene per rovesciarne la razionalità in
direzione di una reale universalità: un compito che univa il sapere umanistico,
scientifico e tecnico.
L’attuale attacco alla scuola pubblica
va in direzione esattamente contraria: asseconda le pulsioni anarcoidi della
soggettività neoliberale e distrugge ogni possibilità di un sapere
trasformativo, di un inveramento rivoluzionario della cultura classica. Anche
il suo anti-autoritarismo è una parodia della lotta che fu e
che, nei suoi momenti migliori, vedeva alleati studenti e docenti contro
l’autorità del capitale nei confronti del lavoro. La tendenza attuale a mettere
in discussione ogni asimmetria nel rapporto docente/discente è piuttosto una
forma di preparazione al team-working. L’insegnante, che pure ha
dalla sua il potere di disporre dell’alunno, deve incarnare un potere buono e
condiscendente, deve prefigurare la condizione in cui il lavoratore assumerà
spontaneamente il compito di collaborare al proprio
sfruttamento, si sentirà non oppresso ma partner dell’oppressore.
Se allo studente viene insegnato che la
creatività precede e non segue l’apprendimento
non potrà accedere alla consapevolezza che la creatività non solo non è “sua”
ma si realizza appieno solo con gli altri. Che la trasformazione della vita è
opera di quella libertà che inizia veramente solo laddove si
impara a riconoscere la sua forma mistificata ed oppressiva.
Note
[1] Presentazione del Programma Nazionale SCUOLA E
COMPETENZE 2021-2027
[2] Cfr. Marco Maurizi, L’invasione degli ultra-pedagogisti.
Scuola democratica, universalismo e lotta di classe, in Sinistrainrete.info
[3] Cfr. Marco Maurizi, La scuola della crisi. Lavoro docente
ed emancipazione sociale, in Kulturjam, 17/07/2022, ora in
Id., Ecce Infans. Diseducare alla pedagogia del dominio, Novalogos,
Aprilia 2023, pp. 71-77.
[4] Sull’onda di una concezione pedagogica
moralistica e soggettiva, che si spaccia per “concreta” e “operativa” ma che
muove invece da uno sguardo astratto, tutto concentrato sulle “relazioni”
all’interno dell’istituzione scolastica. Si tratterebbe piuttosto di partire
dalla posizione e dal ruolo della scuola nella società,
materialisticamente intesa.
[5] Michele Dal Lago, L’autosufficienza educativa dell’impresa: una lettura critica, in “Altronovecento”,
n. 22, 1/02/2013. Molte idee che sostengo in questo articolo sono una ripresa
di concetti che Dal Lago aveva già elaborato in questo saggio di dieci anni fa.
Colgo l’occasione per ringraziarlo del costante lavoro di stimolo e di
chiarimento. Sull’ideologia neoliberista che sottende la recente “riforma”
della formazione tecnica e professionale cfr. Daniele Lo Vetere La riforma dei tecnici e dei
professionali e la produzione del capitale umano nella scuola dell’età
neoliberale – Le parole e le cose²
[6] L’intervento del Ministro Giuseppe
Valditara ad Atreju 2023 (youtube.com)
[7] Daniele Lo Vetere, Difesa della lezione frontale – Le parole e le cose²
[8] Programma Operativo Nazionale 2014-2020
per la Scuola. Competenze e ambienti per l’apprendimento, al convegno di
Palermo “Porte aperte all’innovazione”, 15 novembre 2018.
[9] Il Ministro Valditara forza e per
decreto attiva la sperimentazione della filiera formativa
tecnologico-professionale (flcgil.it)
[10] Masino, citato
in Michele Dal Lago, L’autosufficienza educativa
dell’impresa: una lettura critica – Altro Novecento | Fondazione Micheletti
[11] Cfr. ad es.
Michele Pellerey, Competenze di base, competenze chiave e standard
formativi, in Osservatorio sulle riforme, 2006, pp. 67-89.
[12] Piuttosto
dovremmo dire, come abbiamo già accennato, che è proprio la pretesa di
costituire un livello metacognitivo a sé stante a produrre l’immagine negativa
di un livello di “mera” conoscenza fattuale.
[13] Da dove nasce la competenza di chi pontifica sulle competenze è domanda non meno abissale di quella che assale il malcapitato che provi a comprendere come si attivino le competenze del proprio ambito disciplinare specifico. Anche perché, kantianamente, se si potesse inventare una regola preposta a ciò non servirebbe il lavoro “creativo” dell’intelletto che si pretende suscitare nei discenti. I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 132.
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