giovedì 4 gennaio 2024

Patto di Stabilità

Nuovo Patto di Stabilità: un furto di futuro - Pino Cabras

La riforma è una grave minaccia per i popoli europei, in particolare il nostro. Rischia di portare a un aumento della povertà, nonché alla deindustrializzazione e alla perdita di sovranità. È necessario costruire una nuova idea di Europa

Dire no alla riforma del trattato del MES da parte di un’occasionale maggioranza di voti in Parlamento è stato un salutare rinvio di una trappola. Il problema è che non era l’unica. L’altra trappola, il nuovo Patto di Stabilità, non ha incontrato argini italiani.

Dobbiamo prepararci alle gravi conseguenze del nuovo Patto di Stabilità e alle implicazioni che esso comporta in termini di austerità. Nel momento in cui sarebbe più che mai necessario uscire dai “trent’anni perduti” in cui la nostra società ha subito un degrado e un declino, sono state messe le premesse per altri decenni perduti, in grado di impoverire drammaticamente i popoli europei. Il nostro più di altri. Un furto di futuro che minaccia già le generazioni che lavorano o sono in pensione, ma che compromette gravemente soprattutto l’intera vita delle generazioni più giovani.

 

Giorgetti e Giorgetta: il cedimento

Durante il vertice del consiglio Ecofin, il ministro dell’economia italiano, Giorgetti, ha accettato il nuovo accordo deciso dai soliti noti, senza esporre quel potere di veto sulla riforma che la premier Giorgia Meloni aveva evocato, quasi esibito. La parola “riforma”, si sa, ormai è sempre un incubo, quando viene pronunciata a Bruxelles e Francoforte. Scrivi “riforma” e leggi “riforma in peggio”. Questa riforma non fa eccezione. L’accordo franco-tedesco la impone introducendo vincoli più stringenti, andando oltre la semplice ingiunzione di regole fiscali rigide. Tutto il modo di spendere le risorse diventerà sempre più condizionato e comandato dai «dittatori dello ‘spread’».

La novità principale riguarda la clausola di salvaguardia sul debito, che impone agli Stati con un debito superiore al 90% una riduzione annuale media dell’1% dello stesso, influenzando anche i deficit permessi. Il nuovo Patto rende più immediata l’attivazione delle procedure per deficit eccessivo, legate sia al deficit che al debito. La riforma, in vigore per la legge di bilancio del 2025, impone “aggiustamenti strutturali” annuali, anziché su una media spalmata su più anni. In pratica, la tagliola interviene da subito e sarà sempre più impossibile anche solo immaginare di fare una vera programmazione o una politica economica, con tanti saluti alle costituzioni che settant’anni fa diedero corpo ai diritti sociali. Quei diritti sociali, via via indeboliti dall’Unione europea nata a Maastricht nel 1992, saranno svenduti e consegnati per intero agli algoritmi dissennati degli eurocrati.

 

Il ritorno all'austerità

Nonostante gli obiettivi di deficit strutturale che all’inizio lasciano spiragli meno gravosi, la riforma del Patto di Stabilità segna un ritorno all’austerità, con ulteriori vincoli alle riforme e una possibile procedura di deficit eccessivo. La discussione sull’importanza di politiche “anticicliche” è stata totalmente ignorata. C’è spazio solo per un approccio più inflessibile, come se nell’Eurozona non fosse mai possibile una recessione. Ha vinto l’approccio tedesco, che non conosce la retromarcia nei confronti del «rispetto delle regole» da parte dei paesi perdenti (per Berlino è sempre più facile farla franca, invece), anche quando incontrano difficoltà politiche ed economiche. E queste difficoltà sono peraltro un effetto diretto dell’austerity, quel sistema che parla di crescita mentre fa tornare indietro l’economia, come se si pretendesse di aumentare la massa sanguigna facendo invece dei salassi sistematici.

 

I dirigenti tedeschi ci cooptano nel suicidio industriale

Le regole ci vengono imposte – non dimentichiamolo – da una classe dirigente molto particolare, quella tedesca, che ha accettato di “suicidare” la propria potenza industriale così come l’abbiamo conosciuta dopo la Seconda guerra mondiale. Non solo, è una classe dirigente che ha accettato di subire – senza dire né ai né bai – un atto di guerra dai propri alleati d’Oltreoceano che hanno prima rivendicato e poi attuato la distruzione di un’infrastruttura energetica costosissima come il Nord Stream. Ha acconsentito all’imposizione tragica di separare artificialmente le sorti germaniche – alla fine europee – da ogni conveniente integrazione con le economie eurasiatiche. Una classe dirigente siffatta accetta insomma un drastico ridimensionamento dell’autostrada che essa stessa aveva costruito. Sono pazzi, forse? Può essere. Ma da qualche parte ci deve essere un intento razionale, una convenienza, un’aspirazione a un nuovo cammino, magari un sentiero accidentato, che le porti a un posto al sole. In estrema sintesi, le classi dirigenti stanno sacrificando il proprio e altri popoli intorno a una Europa più rigida, più impoverita, più insicura, più esposta alla guerra, purché possano riservare per sé stesse un potere di intermediazione delle risorse che presume una rigidissima gerarchia.

 

La vecchia-nuova gerarchia

Pensano a un sistema più compatto, nell’insieme più povero ma più controllabile, basta che non si metta in discussione la gerarchia riorganizzata.

Al vertice si installano gli interessi degli Stati Uniti, diventati meno negoziabili, da accettare in blocco contro i nostri interessi.

Sotto ci sono gli interessi della superclasse europea che potrà persino tentare una fuga in avanti costituzionale per aumentare i poteri del sistema di comando continentale (Draghi scalda già i motori): nel bagno di sangue della deindustrializzazione si seleziona un sistema di imprese senza più velleità globali o di indipendenza. Nessuna ambizione alla Enrico Mattei sarà tollerata e le varie classi dirigenti nazionali sono state già rieducate in proposito fino al midollo: cieca obbedienza, a destra e a sinistra, arrese a un “vincolo esterno” reso sempre più indiscutibile.

Più sotto ancora, si accentuerà la demolizione sistematica delle classi medie e la distruzione di qualsiasi velleità di “ascensore sociale”. Moltitudini di individui saranno sacrificate, assieme a intere regioni. Per le isole mediterranee e per il Mezzogiorno d’Italia è una prospettiva terribile.

Moneta unica e infrastrutture giuridiche dell’austerity saranno sempre di più il sistema di dominio degli oligarchi, cui si affiancheranno le nuove leggi digitali europee che svuoteranno dall’interno, per via amministrativa, i diritti costituzionali di libertà, consegnando il senso comune a una manciata di super-feudatari della comunicazione, integrati con l’apparato militare-industriale e con l’intelligence statunitense.

Un’Europa così ingabbiata, ormai “ucrainizzata”, sarà pronta a offrire carne da cannone alle nuove guerre egemoniche mondiali, per interessi che risiedono molto lontano.

 

Un'idea diversa da costruire

Pino, ma come, – mi direte – ci proponi di leggere e vederci dentro tutte queste cose nel Patto di Stabilità? Non starai mica esagerando? In fondo è solo la prosecuzione di un “trend”, tristemente burocratico, non necessariamente la premessa di un nuovo regime dalle venature così luciferine.

Posso rispondere a mia volta con una domanda: possiamo permetterci di sbagliare per sottovalutazione? Troppe volte si è ripetuto, per anni e per decenni, questo errore. Stavolta non possiamo permetterci di sottovalutare i progetti dell’élite, tantomeno quando di presentano con la loro ottusità formalista. Non è solo inerzialmente dannosa. È un progetto sulla vita. La nostra vita. E se c’è in ballo la vita nostra e dei nostri figli, dovremo agire con un’idea diversa della nostra esistenza, della sovranità, dello stare nei popoli. Parliamone insieme e costruiamo questa vita.

da qui



Patto di stabilità. Il governo Meloni ha dato il via libera al suicidio dell'Italia - Gilberto Trombetta

Il Governo Meloni ha accettato di fare 20 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica. Ogni anno. Fino al 2027. Dal 2028 i tagli raggiungerebbero invece i 100 miliardi di euro l’anno visto che rientrerà in gioco il computo degli interessi sul debito (più di 80 miliardi di euro l’anno) che è invece temporaneamente accantonato per il triennio 2025-27. Quadriennio se calcoliamo il 2024 che è l’anno in cui tornerà il Patto di (in)stabilità e (de)crescita e quello delle elezioni europee.

Il piano di rientro verrà elaborato dalla Commissione Europea e riguarderà un periodo di 4 anni. Piano di rientro che, su richiesta del Paese sanzionato, potrà essere dilazionato in 7 anni in cambio di… indovinate di cosa? Esatto! In cambio delle riforme (quelle lacrime e sangue che i vari Governi ci hanno imposto negli ultimi 30 anni al grido di “ce lo chiede l’Europa!”).
Il Governo ha accettato l'accordo raggiunto da Francia e Germania sul nuovo Patto «in uno spirito di compromesso», per usare le parole del Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita risulta addirittura peggiorativo rispetto alla versione precedente. Non era facile. Hanno insomma vinto i falchi guidati dalla Germania. Quella che trucca i conti nascondendo dal bilancio federale centinaia di miliardi di euro.

Nel nuovo patto restano ovviamente sia il tetto del 60% al rapporto debito/PIL, sia quello del 3% per il deficit/PIL.

I Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 90% dovranno ridurre il debito dell’1% l’anno (dello 0,5% i Paesi con rapporto superiore al 60% ma inferiore al 90%).

Per l’Italia, come dicevamo, si tratterebbe di oltre 100 miliardi di euro di taglio della spesa pubblica tenendo contro degli interessi sul debito (86 miliardi di euro, il 4,2% del PIL, nel 2024). Scomputando il costo degli interessi, il taglio è di “soli” 20 miliardi di euro l’anno.

L’accordo prevede anche che i Paesi che abbiano un rapporto debito/PIL superiore al 60% e un rapporto deficit/PIL superiore al 3% riducano il deficit dello 0,5% l’anno fino a raggiungere un rapporto dell’1,5%.

La Commissione Europea ha già detto che la legge di bilancio 2024 di molti Paesi non rispetta i nuovi parametri e che questi Paesi saranno quindi sanzionati.

L’unica concessione ottenuta (dalla Francia, ovviamente) è che i Paesi sottoposti al piano di rientro forzoso possano nel triennio 2025/27 scomputare gli interessi sul debito dal taglio della spesa pubblica.

Non è chiaro al momento se ci sarà un occhio di riguardo per la spesa legata agli investimenti. Ovviamente solo per quelli a debito legati al PNRR. Che sono poi quelli di cui non abbiamo bisogno.

Insomma una riforma che avrebbe fatto la gioia d i qualsiasi governo tecnico. O a guida PD. Che sono poi la stessa cosa.
Parafrasando il deputato leghista Alberto Bagnai «La differenza tra un governo di centrodestra e uno di centrosinistra non salta all’occhio. Perché non c’è. Un giorno capirete».

da qui


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