Nuovo Patto di Stabilità: un furto di futuro - Pino Cabras
La riforma è una grave minaccia per i popoli europei, in particolare il
nostro. Rischia di portare a un aumento della povertà, nonché alla
deindustrializzazione e alla perdita di sovranità. È necessario costruire una
nuova idea di Europa
Dire no alla riforma del trattato del MES da parte di un’occasionale
maggioranza di voti in Parlamento è stato un salutare rinvio di una trappola.
Il problema è che non era l’unica. L’altra trappola, il nuovo Patto di
Stabilità, non ha incontrato argini italiani.
Dobbiamo prepararci alle gravi conseguenze del nuovo Patto di Stabilità e
alle implicazioni che esso comporta in termini di austerità. Nel
momento in cui sarebbe più che mai necessario uscire dai “trent’anni perduti”
in cui la nostra società ha subito un degrado e un declino, sono state messe le
premesse per altri decenni perduti, in grado di impoverire drammaticamente i
popoli europei. Il nostro più di altri. Un furto di futuro che minaccia
già le generazioni che lavorano o sono in pensione, ma che compromette gravemente
soprattutto l’intera vita delle generazioni più giovani.
Giorgetti e Giorgetta: il cedimento
Durante il vertice del consiglio Ecofin, il ministro dell’economia
italiano, Giorgetti, ha accettato il nuovo accordo deciso dai soliti noti,
senza esporre quel potere di veto sulla riforma che la premier Giorgia Meloni
aveva evocato, quasi esibito. La parola “riforma”, si sa, ormai è sempre
un incubo, quando viene pronunciata a Bruxelles e Francoforte. Scrivi “riforma”
e leggi “riforma in peggio”. Questa riforma non fa eccezione.
L’accordo franco-tedesco la impone introducendo vincoli più stringenti, andando
oltre la semplice ingiunzione di regole fiscali rigide. Tutto il modo di
spendere le risorse diventerà sempre più condizionato e comandato dai «dittatori
dello ‘spread’».
La novità principale riguarda la clausola di salvaguardia sul
debito, che impone agli Stati con un debito superiore al 90% una riduzione
annuale media dell’1% dello stesso, influenzando anche i deficit permessi. Il
nuovo Patto rende più immediata l’attivazione delle procedure per deficit
eccessivo, legate sia al deficit che al debito. La riforma, in vigore per la
legge di bilancio del 2025, impone “aggiustamenti strutturali” annuali,
anziché su una media spalmata su più anni. In pratica, la tagliola interviene
da subito e sarà sempre più impossibile anche solo immaginare di fare una vera
programmazione o una politica economica, con tanti saluti alle costituzioni che
settant’anni fa diedero corpo ai diritti sociali. Quei diritti sociali, via via
indeboliti dall’Unione europea nata a Maastricht nel 1992,
saranno svenduti e consegnati per intero agli algoritmi dissennati degli
eurocrati.
Il ritorno all'austerità
Nonostante gli obiettivi di deficit strutturale che all’inizio lasciano
spiragli meno gravosi, la riforma del Patto di Stabilità segna un ritorno
all’austerità, con ulteriori vincoli alle riforme e una possibile procedura di
deficit eccessivo. La discussione sull’importanza di politiche “anticicliche” è
stata totalmente ignorata. C’è spazio solo per un approccio più inflessibile,
come se nell’Eurozona non fosse mai possibile una recessione. Ha vinto
l’approccio tedesco, che non conosce la retromarcia nei confronti del
«rispetto delle regole» da parte dei paesi perdenti (per Berlino è sempre più
facile farla franca, invece), anche quando incontrano difficoltà politiche ed
economiche. E queste difficoltà sono peraltro un effetto diretto
dell’austerity, quel sistema che parla di crescita mentre fa tornare indietro
l’economia, come se si pretendesse di aumentare la massa sanguigna facendo
invece dei salassi sistematici.
I dirigenti tedeschi ci cooptano nel suicidio industriale
Le regole ci vengono imposte – non dimentichiamolo – da una classe
dirigente molto particolare, quella tedesca, che ha accettato di “suicidare” la
propria potenza industriale così come l’abbiamo conosciuta dopo la Seconda
guerra mondiale. Non solo, è una classe dirigente che ha accettato di subire –
senza dire né ai né bai – un atto di guerra dai propri alleati
d’Oltreoceano che hanno prima rivendicato e poi attuato la distruzione di
un’infrastruttura energetica costosissima come il Nord Stream. Ha
acconsentito all’imposizione tragica di separare artificialmente le sorti
germaniche – alla fine europee – da ogni conveniente integrazione con le
economie eurasiatiche. Una classe dirigente siffatta accetta insomma un
drastico ridimensionamento dell’autostrada che essa stessa aveva costruito.
Sono pazzi, forse? Può essere. Ma da qualche parte ci deve essere un intento
razionale, una convenienza, un’aspirazione a un nuovo cammino, magari un
sentiero accidentato, che le porti a un posto al sole. In estrema sintesi, le
classi dirigenti stanno sacrificando il proprio e altri popoli intorno a una
Europa più rigida, più impoverita, più insicura, più esposta alla guerra,
purché possano riservare per sé stesse un potere di intermediazione delle
risorse che presume una rigidissima gerarchia.
La vecchia-nuova gerarchia
Pensano a un sistema più compatto, nell’insieme più povero ma più controllabile,
basta che non si metta in discussione la gerarchia riorganizzata.
Al vertice si installano gli interessi degli Stati Uniti, diventati meno
negoziabili, da accettare in blocco contro i nostri interessi.
Sotto ci sono gli interessi della superclasse europea che potrà persino
tentare una fuga in avanti costituzionale per aumentare i poteri del sistema di
comando continentale (Draghi scalda già i motori): nel bagno di sangue della
deindustrializzazione si seleziona un sistema di imprese senza più velleità
globali o di indipendenza. Nessuna ambizione alla Enrico Mattei sarà tollerata
e le varie classi dirigenti nazionali sono state già rieducate in proposito
fino al midollo: cieca obbedienza, a destra e a sinistra, arrese a un “vincolo
esterno” reso sempre più indiscutibile.
Più sotto ancora, si accentuerà la demolizione sistematica delle classi
medie e la distruzione di qualsiasi velleità di “ascensore sociale”.
Moltitudini di individui saranno sacrificate, assieme a intere regioni. Per le
isole mediterranee e per il Mezzogiorno d’Italia è una prospettiva terribile.
Moneta unica e infrastrutture giuridiche dell’austerity saranno sempre di
più il sistema di dominio degli oligarchi, cui si affiancheranno le
nuove leggi digitali europee che svuoteranno dall’interno, per via amministrativa,
i diritti costituzionali di libertà, consegnando il senso comune a una manciata
di super-feudatari della comunicazione, integrati con l’apparato
militare-industriale e con l’intelligence statunitense.
Un’Europa così ingabbiata, ormai “ucrainizzata”, sarà pronta a
offrire carne da cannone alle nuove guerre egemoniche
mondiali, per interessi che risiedono molto lontano.
Un'idea diversa da costruire
Pino, ma come, – mi direte – ci proponi di leggere e vederci dentro tutte
queste cose nel Patto di Stabilità? Non starai mica esagerando? In fondo è solo
la prosecuzione di un “trend”, tristemente burocratico, non necessariamente la
premessa di un nuovo regime dalle venature così luciferine.
Posso rispondere a mia volta con una domanda: possiamo permetterci
di sbagliare per sottovalutazione? Troppe volte si è ripetuto, per
anni e per decenni, questo errore. Stavolta non possiamo permetterci di
sottovalutare i progetti dell’élite, tantomeno quando di presentano con la loro
ottusità formalista. Non è solo inerzialmente dannosa. È un progetto sulla
vita. La nostra vita. E se c’è in ballo la vita nostra e dei nostri figli,
dovremo agire con un’idea diversa della nostra esistenza, della
sovranità, dello stare nei popoli. Parliamone insieme e costruiamo questa vita.
Patto di stabilità. Il governo
Meloni ha dato il via libera al suicidio dell'Italia - Gilberto
Trombetta
Il
Governo Meloni ha accettato di fare 20 miliardi di euro di tagli alla spesa
pubblica. Ogni anno. Fino al 2027. Dal 2028 i tagli raggiungerebbero invece i
100 miliardi di euro l’anno visto che rientrerà in gioco il computo degli
interessi sul debito (più di 80 miliardi di euro l’anno) che è invece
temporaneamente accantonato per il triennio 2025-27. Quadriennio se calcoliamo
il 2024 che è l’anno in cui tornerà il Patto di (in)stabilità e (de)crescita e
quello delle elezioni europee.
Il
piano di rientro verrà elaborato dalla Commissione Europea e riguarderà un
periodo di 4 anni. Piano di rientro che, su richiesta del Paese sanzionato,
potrà essere dilazionato in 7 anni in cambio di… indovinate di cosa? Esatto! In
cambio delle riforme (quelle lacrime e sangue che i vari Governi ci hanno
imposto negli ultimi 30 anni al grido di “ce lo chiede l’Europa!”).
Il Governo ha accettato l'accordo raggiunto da Francia e Germania sul nuovo
Patto «in uno spirito di compromesso», per usare le parole del Ministro dell’Economia,
Giancarlo Giorgetti.
Il
nuovo Patto di Stabilità e Crescita risulta addirittura peggiorativo rispetto
alla versione precedente. Non era facile. Hanno insomma vinto i falchi guidati
dalla Germania. Quella che trucca i conti nascondendo dal bilancio federale
centinaia di miliardi di euro.
Nel
nuovo patto restano ovviamente sia il tetto del 60% al rapporto debito/PIL, sia
quello del 3% per il deficit/PIL.
I
Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 90% dovranno ridurre il debito
dell’1% l’anno (dello 0,5% i Paesi con rapporto superiore al 60% ma inferiore
al 90%).
Per
l’Italia, come dicevamo, si tratterebbe di oltre 100 miliardi di euro di taglio
della spesa pubblica tenendo contro degli interessi sul debito (86 miliardi di
euro, il 4,2% del PIL, nel 2024). Scomputando il costo degli interessi, il
taglio è di “soli” 20 miliardi di euro l’anno.
L’accordo
prevede anche che i Paesi che abbiano un rapporto debito/PIL superiore al 60% e
un rapporto deficit/PIL superiore al 3% riducano il deficit dello 0,5% l’anno
fino a raggiungere un rapporto dell’1,5%.
La
Commissione Europea ha già detto che la legge di bilancio 2024 di molti Paesi
non rispetta i nuovi parametri e che questi Paesi saranno quindi sanzionati.
L’unica
concessione ottenuta (dalla Francia, ovviamente) è che i Paesi sottoposti al
piano di rientro forzoso possano nel triennio 2025/27 scomputare gli interessi
sul debito dal taglio della spesa pubblica.
Non
è chiaro al momento se ci sarà un occhio di riguardo per la spesa legata agli
investimenti. Ovviamente solo per quelli a debito legati al PNRR. Che sono poi
quelli di cui non abbiamo bisogno.
Insomma
una riforma che avrebbe fatto la gioia d i qualsiasi governo tecnico. O a guida
PD. Che sono poi la stessa cosa.
Parafrasando il deputato leghista Alberto Bagnai «La differenza tra un governo
di centrodestra e uno di centrosinistra non salta all’occhio. Perché non c’è.
Un giorno capirete».
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