martedì 2 gennaio 2024

Perché non possiamo non dirci nazisti

articoli, video, canzoni di Gian Luigi Deiana, Chris Hedges, Munther Isaac, Jeffrey Sachs, David Rovics, Sarah Babiker, Pasquale Pugliese, Costantino Ceoldo, Eusebio Filopatro, Samir Al Quryioti, Amedeo Cottino, Elena Basile, Pino Arlacchi, Francesco Masala, William Van Wagenen, Mike Whitney, Caitlin Johnstone, Rashid Khalidi, Saadi Shirazi, Gideon Levy, Giuliano Marrucci, Alberto Bradanini, Fabrizio Poggi, Laura Tussi, Izzeldin Abuelaish, Refaat Alareer, Alessandro Bianchi, Latuff


NUDI DI GUERRA – Gian Luigi Deiana

lezioni di rappresaglia

circolano in queste ore le immagini di civili di gaza catturati nelle retate delle celeberrime IDF (cioè le forze israeliane di "difesa") e concentrati in campi sportivi (concentrate in campi, però sportivi);

centinaia di persone compaiono in fila in mutande; le eroiche IDF informano che così si può verficare con certezza la presenza o meno di esplosivi sotto i vestiti: questione plausibile, ma se te li spogli a uno a uno, che senso ha, dopo la verifica individuale sui corpi, ammucchiare in fila tutta questa gente denudata, per semplice gusto di fotografia? sono queste le gesta delle gloriose IDF?

ecco dunque che le immagini cominciano a circolare, e tutte le persone in grazia di dio, come peraltro il timoratissimo 'washington post', restano un poco perplesse a vedere in quelle righe di prigionieri (civili, quindi presi per rappresaglia) due bambini in mutande in mezzo a cento adulti in mutande;

la perplessità, o l'indignazione, ovviamente lamentano la presenza di piccoli in mezzo ai grandi, perchè non sta bene:

ok, ma il senso di questo genere di rappresaglia non sta nell'umiliare bambini mettendoli in riga nudi in mezzo ad adulti nudi: sta invece nell'inverso, cioè umiliare gli adulti esponendoli nudi allo sguardo dei loro bambini;

sembra una specie di pedofilia del sadismo: il vero orrore non è la promiscuità di piccoli nudi in mezzo ad adulti nudi; ciò è brutto, ma si tratta di una situazione temporanea; il vero orrore sta proprio nella costrizione invertita dello sguardo: e cioè che bambini, più o meno nudi, siano posizionati a vedere l'umiliazione dei loro adulti: non tanto il padre accomunato nell'impotenza al figlio, ma il figlio costretto a vedere l'impotenza del padre;

questa crudeltà, inutile e stupida, ma inventata da intellegenze pervertite, è il nazismo

da qui

  

 

  

IL TEOREMA HERZOG - Gian Luigi Deiana

sterminare la palestina

isaac herzog è il presidente di israele, cioè il capo dello stato; non è il capo del governo, oggi benjamin netanyahu, tenuto secondo logica a perseguire la linea concordata nella sua maggioranza; no, herzog è il capo dello stato, formalmente una democrazia, tenuto a rappresentare tutti i cittadini; per tale ragione è a lui che si sono rivolti i familiari degli ostaggi del 7 ottobre, proprio mentre contestavano radicalmente l'opzione governativa per la guerra e quindi netanyahu stesso;

ma la posizione espressa da herzog, al di fuori delle sue miserabili dichiarazioni di solidarietà con le vittime israeliane dell'azione di hamas in quel giorno, è stupefacente in bocca a un presidente di una repubblica che vanta democrazia e valori dell'occidente:

herzog dice, letteralmente, che è falsa la retorica secondo cui il popolo palestinese, e in specie la popolazione di gaza, è inconsapevole delle operazioni di hamas, e che quindi di qualunque atto di hamas è "responsabile l'intera nazione": ciò significa, alla lettera, che se per cancellare hamas è necessario cancellare la palestina, e quindi il popolo palestinese, ciò deve essere compiuto, senza alcun limite di condotta e senza alcun codice di guerra;

questo, in termini di logica, è un teorema: e dunque l'onu, i diritti umani, la diplomazia, la quotidianità delle stragi, i crimini guerra, lo scambio di prigionieri, le donne e i bambini, ecc. sono assolutamente insignificanti: "no limits", questa è la condotta, laddove il senso stesso del concetto, la guerra, si perverte in quello di distruzione totale;

è ormai di assoluta evidenza non solo la criminosità senza regola dell'esercito israeliano, non solo la pianificazione di pogrom da parte dei coloni contro famiglie contadine palestinesi inermi, non solo la falsità spudorata addotta a giustificare bombardamenti di ospedali, distruzione di cimiteri, cecchinaggio sui luoghi di culto, omicidi mirati contro i giornalisti, ecc.; non solo: ma la gravità inaudita di questa non-guerra, ovvero di terrorismo su vasta scala compiuto da uno stato contro una popolazione civile, sta nel fatto che il presidente stesso di questo stato adduce a giustificazione di questo sterminio la "responsabilità della nazione" che ne subisce la volontà di annientamento;

beninteso: anche io, teorema per teorema, sono persuaso che la società civile israeliana abbia una sua responsabilità nell'avere cancellato le possibilità della pace, nell'aver fatto proprio l'assassinio di rabin, disonorandone la memoria e gettando nella spazzatura il suo disegno di pacificazione; nell'avere mantenuto al potere un personaggio efferato e corrotto quale natanyahu, e nell'aver affidato il governo del paese a partiti fascisti;

sì, sono persuaso che la società civile israeliana abbia gravissime responsabilità: ma in primo luogo io non sono un capo di stato in una guerra di terrore; e in secondo luogo non mi azzarderei mai ad affermare che tale responsabilità è da addebitare all'intera "nazione" ebraica;

vi è infatti una assoluta differenza tra il concetto di "società civile" e il concetto di "nazione"; il precedente storico a noi più prossimo, relativamente a questa assimilazione concettuale (società=nazione, ovvero società presente = nazione storica) fu proclamato da chi, e per giustificare cosa?

sì, fu proclamato da adolf hitler per giustificare lo sterminio; lo sterminio della nazione ebraica;

il teorema herzog, in quanto teorema, a fronte dei suoi effetti quotidiani (cimiteri, ospedali, reparti neonatali, chiese, moschee, scuole, strutture dell'onu, campi profughi... ) il teorema herzog è davvero così diverso?

da qui

  

 


La ricetta d’Israele – Francesco Masala

Una parte di nazismo (che non è mai morto), una parte di Abu Ghraib, le bombe degli Usa, il silenzio dell’Europa (che non si costerna, non s'indigna, ma s'impegna a mandare sempre più armi e morte), e soprattutto la sterminata devozione al libro che racconta le imprese, anzi gli orrori, di qualche migliaio d'anni fa, del loro sanguinario padrone.

 

Gaza: continua il genocidio e la pulizia etnica contro i palestinesi. Si lamentano vittime collaterali, sono i guerriglieri di Hamas e gli ostaggi israeliani.

 

Netanyhau si scusa con Hamas, il premio Nobel per la Pace non dovrebbe sfuggirgli.

 

Errore dell’ONU, dopo la possibilità di autorizzare la creazione di nuovi stati, si sono dimenticati di approvare l’articolo che, dopo un periodo di prova, revocasse l’autorizzazione all’esistenza dello stato.

 

 

LA MORTE DI ISRAELE - Chris Hedges

Gli Stati coloniali hanno una vita a termine. Israele non fa eccezione.

Dopo aver terminato la sua campagna genocida a Gaza e in Cisgiordania Israele apparirà trionfante. Sostenuto dagli Stati Uniti, avrà raggiunto il suo obiettivo demenziale. Le sue furie omicide e la violenza genocida avranno sterminato o ripulito etnicamente i palestinesi. Il suo sogno di uno Stato esclusivamente per gli ebrei, con tutti i palestinesi rimasti privati dei diritti fondamentali, sarà realizzato. Si rallegrerà per la sua vittoria intrisa di sangue. Celebrerà i suoi criminali di guerra. Il suo genocidio sarà cancellato dalla coscienza pubblica e gettato nell’enorme buco nero dell’amnesia storica di Israele. Chi in Israele ha una coscienza sarà messo a tacere e perseguitato.

Ma nel momento in cui Israele riuscirà a decimare Gaza – Israele parla di mesi di guerra – avrà firmato la propria condanna a morte. La sua facciata di civiltà, il suo presunto vantato rispetto per lo stato di diritto e la democrazia, la storia “mitologica” del coraggioso esercito israeliano e della miracolosa nascita della nazione ebraica, saranno ridotti in cenere. Il capitale sociale di Israele sarà esaurito. Si rivelerà come un brutto regime di apartheid, repressivo e pieno di odio, alienando le giovani generazioni di ebrei americani. Il suo patrono, gli Stati Uniti, con l’arrivo di nuove generazioni al potere, prenderà le distanze da Israele come sta facendo con l’Ucraina. Il suo sostegno popolare, già eroso negli Stati Uniti, verrà dai fascisti cristianizzati d’America che vedono nel dominio di Israele su un’antica terra biblica un presagio del Secondo Avventi e nella sottomissione degli arabi un razzismo affine ad una supremazia bianca.

Il sangue e la sofferenza dei palestinesi – a Gaza è stato ucciso un numero di bambini 10 volte superiore a quello di due anni di guerra in Ucraina (evidenziato dal Traduttore)- apriranno la strada all’oblio di Israele. Le decine, forse centinaia di migliaia di fantasmi avranno la loro vendetta. Israele diventerà sinonimo, con le sue vittime, come lo sono i turchi per gli armeni, i tedeschi per i namibiani e poi gli ebrei, i serbi per i bosniaci. La vita culturale, artistica, giornalistica e intellettuale di Israele sarà eliminata. Israele sarà una nazione stagnante dove i fanatici religiosi, i bigotti e gli estremisti ebrei che hanno preso il potere domineranno il discorso pubblico. Troverà i suoi alleati in altri regimi dispotici. La ripugnante supremazia razziale e religiosa di Israele sarà il suo attributo distintivo, ed è per questo che i suprematisti bianchi più retrogradi negli Stati Uniti e in Europa, tra cui filosemiti come John HageePaul Gosar e Marjorie Taylor Greene, sostengono con fervore Israele. La millantata lotta all’antisemitismo è una celebrazione sottilmente mascherata del potere bianco.

I dispotismi possono esistere a lungo dopo la loro scadenza. Ma sono terminali. Non è necessario essere uno studioso della Bibbia per capire che la sete di fiumi sangue di Israele è antitetica ai valori fondamentali dell’ebraismo. La cinica strumentalizzazione dell’Olocausto, compreso il bollare i palestinesi come nazisti, ha poca efficacia quando si compie un genocidio in diretta streaming contro 2,3 milioni di persone intrappolate in un campo di concentramento.

Le nazioni hanno bisogno di qualcosa di più della forza per sopravvivere. Hanno bisogno di una mistica. Questa mistica fornisce uno scopo, una civiltà e persino una nobiltà che ispira i cittadini a sacrificarsi per la nazione. La mistica offre speranza per il futuro. Fornisce un significato. Fornisce identità nazionale.

Quando la mistica implode, quando viene smascherata come menzogna, crolla un fondamento centrale del potere statale. Ho raccontato la morte delle mistiche comuniste nel 1989, durante le rivoluzioni in Germania Est, Cecoslovacchia e Romania. La polizia e i militari decisero che non c’era più nulla da difendere. La decadenza di Israele genererà la stessa fiacchezza e apatia. Non sarà in grado di reclutare collaboratori indigeni, come Mahmoud Abbas e l’Autorità Palestinese – vituperata dalla maggior parte dei palestinesi – per eseguire gli ordini dei colonizzatori. Lo storico Ronald Robinson cita l’incapacità di reclutare alleati indigeni da parte dell’Impero britannico come il punto in cui la collaborazione si è invertita in non cooperazione, un momento determinante per l’inizio della decolonizzazione. Una volta che la non collaborazione delle élite indigene si trasforma in opposizione attiva, spiega Robinson, la “rapida ritirata” dell’Impero è assicurata.

A Israele non resta che un’escalation di violenza, compresa la tortura, che accelera il declino. Questa violenza su larga scala funziona nel breve periodo, come nella guerra condotta dai francesi in Algeria, nella Guerra Sporca della dittatura militare argentina e durante il conflitto britannico in Irlanda del Nord. Ma a lungo termine è un suicidio.

Si potrebbe dire che la battaglia di Algeri è stata vinta grazie all’uso della tortura”, osservava lo storico britannico Alistair Horne, “ma che la guerra, la guerra d’Algeria, è stata persa“.

Il genocidio a Gaza ha trasformato i combattenti di Hamas in eroi nel mondo musulmano e nel Sud globale. Israele può spazzare via la leadership di Hamas. Ma l’assassinio passato – e presente – di decine di leader palestinesi ha fatto ben poco per smorzare la resistenza. L’assedio e il genocidio a Gaza hanno prodotto una nuova generazione di giovani uomini e donne profondamente traumatizzati e infuriati, le cui famiglie sono state uccise e le cui comunità sono state cancellate. Sono pronti a prendere il posto dei leader martirizzati. Israele ha mandato le azioni del suo avversario nell’empireo.

Israele era in guerra con se stesso già prima del 7 ottobre. Gli israeliani stavano protestando per impedire l’abolizione dell’indipendenza giudiziaria da parte del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. I bigotti e i fanatici religiosi, attualmente al potere, avevano sferrato un attacco deciso al secolarismo israeliano. L’unità di Israele dopo gli attacchi è precaria, è un’unità negativa, è tenuta insieme dall’odio. E nemmeno questo odio è sufficiente a impedire ai manifestanti di denunciare l’abbandono degli ostaggi israeliani a Gaza da parte del governo.

L’odio è un bene politico pericoloso. Una volta finito un nemico, coloro che alimentano l’odio vanno alla ricerca di un altro. Gli “animali umani” palestinesi, una volta sradicati o sottomessi, saranno sostituiti da ebrei apostati e traditori. Il gruppo demonizzato non potrà mai essere redento o curato. Una politica dell’odio crea un’instabilità permanente che viene sfruttata da chi cerca di distruggere la società civile.

Israele era ben avanti su questa strada il 7 ottobre, quando ha promulgato una serie di leggi discriminatorie nei confronti dei non ebrei che ricordano le leggi razziste di Norimberga, che esclusero gli ebrei dalla [vita civile della] Germania nazista. La legge sull’accettazione delle comunità consente agli insediamenti esclusivamente ebraici di escludere i richiedenti la residenza sulla base “dell’adeguatezza alle prospettive fondamentali della comunità”.

Molti dei giovani più istruiti di Israele hanno lasciato il Paese per trasferirsi in luoghi come il Canada, l’Australia e il Regno Unito, mentre un milione di persone si è trasferito negli Stati Uniti. Anche la Germania ha visto un afflusso di circa 20.000 israeliani nei primi due decenni di questo secolo. Dal 7 ottobre circa 470.000 israeliani hanno lasciato il Paese. All’interno di Israele, gli attivisti per i diritti umani, gli intellettuali e i giornalisti – israeliani e palestinesi – sono attaccati come traditori in campagne diffamatorie sponsorizzate dal governo, posti sotto sorveglianza statale e sottoposti ad arresti arbitrari. Il sistema educativo israeliano è una macchina per l’indottrinamento dei militari.

Lo studioso israeliano Yeshayahu Leibowitz ha avvertito che se Israele non separasse la Chiesa dallo Stato e non ponesse fine all’occupazione dei palestinesi, darebbe origine a un rabbinato corrotto che trasformerebbe l’ebraismo in un culto fascista. “Israele“, ha detto, “non meriterebbe di esistere e non varrebbe la pena di preservarlo“.

La mistica globale degli Stati Uniti, dopo due decenni di guerre disastrose in Medio Oriente e l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, è contaminata quanto il suo alleato israeliano. L’amministrazione Biden, nel suo fervore di sostenere incondizionatamente Israele e di placare la potente lobby israeliana, ha aggirato il processo di revisione del Congresso con il Dipartimento di Stato per approvare il trasferimento di 14.000 munizioni per carri armati a Israele.

Il Segretario di Stato Antony Blinken ha sostenuto che “esiste un’emergenza che richiede la vendita immediata“. Allo stesso tempo ha cinicamente invitato Israele a ridurre al minimo le vittime civili.

Israele non ha alcuna intenzione di ridurre al minimo le vittime civili. Ha già ucciso 18.800 palestinesi, lo 0,82% della popolazione di Gaza – l’equivalente di circa 2,7 milioni di americani. Altri 51.000 sono stati feriti. Secondo le Nazioni Unite metà della popolazione di Gaza sta morendo di fame. Tutte le istituzioni e i servizi palestinesi che sostengono la vita – ospedali (solo 11 dei 36 ospedali di Gaza sono ancora “parzialmente funzionanti“), impianti di trattamento delle acquereti elettrichesistemi fognariabitazioniscuoleedifici governativicentri culturalisistemi di telecomunicazionemoscheechiesepunti di distribuzione di cibo delle Nazioni Unite – sono stati distrutti. Israele ha assassinato almeno 80 giornalisti palestinesi insieme a decine di loro familiari e oltre 130 operatori umanitari delle Nazioni Unite insieme ai loro familiari. Le vittime civili sono il punto. Questa non è una guerra contro Hamas. È una guerra contro i palestinesi. L’obiettivo è uccidere o rimuovere 2,3 milioni di palestinesi da Gaza.

L’uccisione di tre ostaggi israeliani che apparentemente erano sfuggiti ai loro rapitori e, a torso nudo, si erano avvicinati alle forze israeliane, sventolando una bandiera bianca e chiedendo aiuto in ebraico, non è solo tragica, ma è anche uno spaccato delle regole di ingaggio di Israele a Gaza. Queste regole sono: uccidere tutto ciò che si muove.

Come ha scritto su Yedioth Ahronoth il maggior-generale israeliano in pensione Giora Eiland, già a capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano:

lo Stato di Israele non ha altra scelta che trasformare Gaza in un luogo in cui sia temporaneamente o permanentemente impossibile vivere… Creare una grave crisi umanitaria a Gaza è un mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo“. “Gaza diventerà un luogo dove nessun essere umano potrà esistere“, ha scritto. Il maggiore generale Ghassan Alian ha dichiarato che a Gaza “non ci saranno né elettricità né acqua, ci sarà solo distruzione. Volevate l’inferno, avrete l’inferno

La presidenza Biden, che ironicamente potrebbe aver firmato il proprio certificato di morte politica, è legata al genocidio di Israele. Cercherà di prendere le distanze in modo retorico, ma allo stesso tempo incanalerà i miliardi di dollari di armi richiesti da Israele – compresi 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari supplementari per aumentare i 3,8 miliardi di dollari di aiuti annuali – per “finire il lavoro“. È un partner a pieno titolo nel progetto di genocidio di Israele.

Israele è uno Stato paria. Questo è stato pubblicamente dimostrato il 12 dicembre, quando 153 Stati membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno votato per un cessate il fuoco, con solo 10 paesi – tra cui gli Stati Uniti e Israele – contrari e 23 astenuti. La campagna di terra bruciata di Israele a Gaza significa che non ci sarà pace. Non ci sarà una soluzione a due Stati. L’apartheid e il genocidio definiranno Israele. Questo fa presagire un lungo, lunghissimo conflitto, che lo Stato ebraico non potrà vincere.

da qui

 

 


Portare una testimonianza – Mr. Fish - Chris Hedges

In tempo di guerra scrivere e fotografare sono atti di resistenza, atti di fede. Affermano la convinzione che un giorno – un giorno che gli scrittori, i giornalisti e i fotografi potrebbero non vedere mai – le parole e le immagini evocheranno empatia, comprensione, indignazione e forniranno saggezza. Raccontano non solo i fatti, anche se i fatti sono importanti, ma la consistenza, la sacralità e il dolore delle vite e delle comunità perse. Raccontano al mondo com’è la guerra, come resistono coloro che sono presi nella sua morsa di morte, come c’è chi si sacrifica per gli altri e chi non lo fa, com’è la paura e la fame, com’è la morte. Trasmettono le grida dei bambini, i lamenti di dolore delle madri, la lotta quotidiana di fronte alla selvaggia violenza su scala industriale, il trionfo della loro umanità attraverso la sporcizia, la malattia, l’umiliazione e la paura. È per questo che scrittori, fotografi e giornalisti vengono presi di mira dagli aggressori in guerra – compresi quelli israeliani – per essere cancellati. Sono testimoni del male, un male che gli aggressori vogliono seppellire e dimenticare. Smascherano le menzogne. Condannano, anche dalla tomba, i loro assassini. Dal 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 13 poeti e scrittori palestinesi e almeno 67 giornalisti e operatori dei media a Gaza e tre in Libano.

Quando mi occupavo di guerra ho sperimentato la futilità e l’indignazione. Mi sono chiesto se avessi fatto abbastanza, o se valesse la pena rischiare. Ma si va avanti perché non fare nulla significa essere complici. Si fa cronaca perché ci si preoccupa. Renderete difficile agli assassini negare i loro crimini.

Questo mi porta al romanziere e drammaturgo palestinese Atef Abu Saif. Lui e il figlio quindicenne Yasser, che vivono nella Cisgiordania occupata, stavano visitando la famiglia a Gaza – dove Atef è nato – quando Israele ha iniziato la sua campagna di terra bruciata. Atef non è nuovo alla violenza degli occupanti israeliani. Aveva due mesi durante la guerra del 1973 e scrive: “Da allora ho vissuto le guerre. Così come la vita è una pausa tra due morti, la Palestina, come luogo e come idea, è una pausa nel mezzo di molte guerre“.

Durante l’Operazione Piombo Fuso, l’assalto israeliano a Gaza del 2008/2009, Atef si rifugiò per 22 notti nel corridoio della sua casa di famiglia a Gaza, assieme alla moglie Hanna e ai due figli, mentre Israele bombardava e bombardava. Il suo libro “Il drone mangia con me: Diari da una città sotto assedio” è un resoconto dell’operazione Protective Edge, l’assalto israeliano del 2014 a Gaza che ha ucciso 1.523 civili palestinesi, tra cui 519 bambini.

I ricordi della guerra possono essere stranamente positivi, perché averli significa essere sopravvissuti“, osserva sardonicamente.

Ha fatto di nuovo quello che fanno gli scrittori, tra cui il professore e poeta Refaat Alareerucciso, a Gaza il 7 dicembre insieme a suo fratello, sua sorella e i suoi quattro figli, in un attacco aereo contro l’appartamento della sorella. L’Osservatorio Euro-Mediterraneo dei Diritti Umani ha dichiarato che Alareer è stato deliberatamente preso di mira, “bombardando chirurgicamente l’intero edificio”. La sua uccisione è avvenuta dopo settimane di “minacce di morte che Refaat ha ricevuto online e per telefono da account israeliani”.

Refaat, che aveva conseguito un dottorato sul poeta metafisico John Donne, a novembre aveva scritto una poesia intitolata “Se devo morire“, che era diventata il suo testamento morale e poetico. È stata tradotta in numerose lingue. Una lettura della poesia da parte dell’attore Brian Cox è stata vista quasi 30 milioni di volte

Se io devo morire,

tu devi vivere

per raccontare la mia storia

per vendere le mie cose

per comprare un pezzo di stoffa

e delle corde,

(fallo bianco con una lunga coda)

affinché un bambino, da qualche parte a Gaza

mentre guarda il cielo negli occhi

aspettando il suo papà che se n’è andato in un lampo…

e non ha detto addio a nessuno

nemmeno alla sua carne

nemmeno a se stesso –

vede l’aquilone, il mio aquilone che hai fatto tu,

che vola in alto

e pensa per un attimo che un angelo sia lì

che riporta l’amore

Se devo morire

che porti speranza

che sia un racconto.

 

Atef, trovandosi ancora una volta a vivere tra le esplosioni e la carneficina delle granate e delle bombe israeliane, pubblica caparbiamente le sue osservazioni e riflessioni. I suoi resoconti sono spesso difficili da trasmettere a causa del blocco di Internet e del servizio telefonico da parte di Israele. Sono apparsi su The Washington PostThe New York TimesThe Nation e Slate.

Il primo giorno del bombardamento israeliano, un amico, il giovane poeta e musicista Omar Abu Shawish, viene ucciso, apparentemente in un bombardamento navale israeliano, anche se in seguito i rapporti diranno che è stato ucciso in un attacco aereo mentre si recava al lavoro. Atef si interroga sui soldati israeliani che osservano lui e la sua famiglia con “i loro obiettivi a infrarossi e la fotografia satellitare”. Possono “contare le pagnotte nel mio cestino o il numero di polpette di falafel nel mio piatto?“, si chiede. Osserva le folle di famiglie stordite e confuse, con le case in macerie, che trasportano “materassi, sacchi di vestiti, cibo e bevande“. Rimane ammutolito davanti al “supermercato, all’ufficio di cambio, al negozio di falafel, alle bancarelle di frutta, alla profumeria, al negozio di dolciumi, al negozio di giocattoli – tutto bruciato“.

Sangue dappertutto, insieme a pezzi di giocattoli per bambini, lattine del supermercato, frutta distrutta, biciclette rotte e bottiglie di profumo in frantumi“, scrive. “Il posto sembrava il disegno a carboncino di una città bruciata da un drago“.

Sono andato alla Press House, dove i giornalisti stavano scaricando freneticamente immagini e scrivendo rapporti per le loro agenzie. Ero seduto con Bilal, il responsabile della sala stampa, quando un’esplosione ha scosso l’edificio. Le finestre sono andate in frantumi e il soffitto è crollato su di noi a pezzi. Siamo corsi verso la sala centrale. Uno dei giornalisti sanguinava, colpito da un vetro volante. Dopo 20 minuti ci siamo avventurati per ispezionare i danni. Ho notato che le decorazioni del Ramadan erano ancora appese nella strada”.

La città è diventata una landa desolata di macerie e detriti“, scrive Atef, che dal 2019 è ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese, nei primi giorni del bombardamento israeliano su Gaza City. “I bei palazzi cadono come colonne di fumo. Penso spesso a quando mi hanno sparato da bambino, durante la prima intifada, e a come mia madre mi ha detto che sono morto per qualche minuto prima di essere riportato in vita. Forse questa volta posso fare lo stesso, penso“.

Affida ai familiari il figlio adolescente.

La logica palestinese prevede che in tempo di guerra si dorma tutti in posti diversi, in modo che se una parte della famiglia viene uccisa, un’altra parte vive“, scriveva. “Le scuole delle Nazioni Unite sono sempre più affollate di famiglie sfollate. La speranza è che la bandiera delle Nazioni Unite li salvi, anche se nelle guerre precedenti non è stato così“.

Martedì 17 ottobre scrive:

Vedo la morte avvicinarsi, sento i suoi passi farsi più forti. Basta che sia finita, penso. È l’undicesimo giorno del conflitto, ma tutti i giorni si sono fusi in uno solo: lo stesso bombardamento, la stessa paura, lo stesso odore. Al telegiornale leggo i nomi dei morti sul ticker in fondo allo schermo. Aspetto che appaia il mio nome.

Al mattino squilla il telefono. Era Rulla, una parente in Cisgiordania, che mi diceva di aver sentito che c’era stato un attacco aereo a Talat Howa, un quartiere a sud di Gaza City dove vive mio cugino Hatem. Hatem è sposato con Huda, l’unica sorella di mia moglie. Vive in un edificio di quattro piani che ospita anche sua madre, i suoi fratelli e le loro famiglie.

Ho chiamato in giro, ma non funzionava il telefono di nessuno di loro. Sono andato all’ospedale al-Shifa per leggere i nomi: gli elenchi dei morti sono appesi ogni giorno fuori da un obitorio improvvisato. Riuscivo a malapena ad avvicinarmi all’edificio: migliaia di abitanti di Gaza avevano fatto dell’ospedale la loro casa; i suoi giardini, i suoi corridoi, ogni spazio vuoto o angolo libero aveva una famiglia al suo interno. Mi sono arreso e mi sono diretto verso Hatem.

Trenta minuti dopo ero nella sua strada. Rulla aveva ragione. L’edificio di Huda e Hatem era stato colpito solo un’ora prima. I corpi della figlia e del nipote erano già stati recuperati; l’unico sopravvissuto noto era Wissam, una delle altre figlie, che era stata portata in terapia intensiva. Wissam era stata subito operata, dove le erano state amputate entrambe le gambe e la mano destra. La sua cerimonia di laurea al liceo artistico si era svolta solo il giorno prima. Dovrà passare il resto della sua vita senza gambe, con una mano sola. “E gli altri?” ho chiesto a qualcuno.

“Non riusciamo a trovarli”, mi hanno risposto.

Tra le macerie, abbiamo gridato: “C’è nessuno? Qualcuno ci sente?” Abbiamo chiamato i nomi dei dispersi, sperando che qualcuno fosse ancora vivo. Alla fine della giornata siamo riusciti a trovare cinque corpi, tra cui quello di un bambino di 3 mesi. Siamo andati al cimitero per seppellirli.

La sera sono andata a trovare Wissam in ospedale; era appena sveglia. Dopo mezz’ora mi chiese: “Khalo [zio], sto sognando, vero?”

Le ho risposto: “Siamo tutti in un sogno”.

“Il mio sogno è terrificante! Perché?”

“Tutti i nostri sogni sono terrificanti”.

Dopo 10 minuti di silenzio, ha detto: “Non mentirmi, Khalo. Nel mio sogno non ho le gambe. È vero, no? Non ho le gambe?”.

“Ma hai detto che è un sogno.”

“Non mi piace questo sogno, Khalo.”

Dovevo andarmene. Per 10 lunghi minuti ho pianto e pianto. Sopraffatto dagli orrori degli ultimi giorni, sono uscito dall’ospedale e mi sono ritrovato a vagare per le strade. Ho pensato: “Potremmo trasformare questa città in un set cinematografico per film di guerra”. Film sulla Seconda Guerra Mondiale e sulla fine del mondo. Potremmo affittarla ai migliori registi di Hollywood. Il giorno del giudizio su richiesta. Chi potrebbe avere il coraggio di dire ad Hanna, così lontana a Ramallah, che la sua unica sorella è stata uccisa? Che la sua famiglia è stata uccisa? Telefonai alla mia collega Manar e le chiesi di andare a casa nostra con un paio di amici per cercare di ritardare l’arrivo della notizia. “Mentile”, dissi a Manar. “Dille che l’edificio è stato attaccato dagli F-16, ma che i vicini pensano che Huda e Hatem fossero fuori in quel momento. Qualsiasi bugia che possa essere utile”.

Volantini in arabo lasciati cadere dagli elicotteri israeliani fluttuano giù dal cielo. Annunciano che chiunque rimanga a nord del corso d’acqua Wadi sarà considerato un complice del terrorismo, “il che significa“, scrive Atef, “che gli israeliani possono sparare a vista“. L’elettricità viene tagliata. Cibo, carburante e acqua iniziano a scarseggiare. I feriti vengono operati senza anestesia. Non ci sono antidolorifici o sedativi. Va all’ospedale al-Shifa a trovare sua nipote Wissam che, straziata dal dolore, gli chiede un’iniezione letale. Dice che Allah la perdonerà.

Ma non perdonerà me, Wissam.

Glielo chiederò, a nome tuo” dice.

Dopo gli attacchi aerei si unisce alle squadre di soccorso “sotto il ronzio dei droni che non riuscivamo a vedere nel cielo“. Un verso di T.S. Eliot, “un cumulo di immagini spezzate“, gli passa per la testa. I feriti e i morti sono “trasportati su biciclette a tre ruote o trascinati su carri da animali“.

Abbiamo raccolto pezzi di corpi mutilati e li abbiamo riuniti su una coperta; trovi una gamba qui, una mano là, mentre il resto sembra carne macinata“, scrive. “Nell’ultima settimana, molti abitanti di Gaza hanno iniziato a scrivere i loro nomi sulle mani e sulle gambe, a penna o con un pennarello indelebile, in modo da poter essere identificati quando arriverà la morte. Potrebbe sembrare macabro, ma ha perfettamente senso: vogliamo essere ricordati, vogliamo che le nostre storie siano raccontate, vogliamo dignità. Come minimo, i nostri nomi saranno sulle nostre tombe. L’odore dei corpi non recuperati sotto le rovine di una casa colpita la settimana scorsa rimane nell’aria. Più passa il tempo, più l’odore è forte“.

Le scene intorno a lui diventano surreali. Il 19 novembre, 44° giorno dell’assalto, scrive:

Un uomo a cavallo viene verso di me, con il corpo di un adolescente morto legato alla sella davanti. Sembra che sia suo figlio, forse. Sembra una scena di un film storico, solo che il cavallo è debole e a malapena in grado di muoversi. Non è reduce da nessuna battaglia. Non è un cavaliere. I suoi occhi sono pieni di lacrime mentre tiene il piccolo frustino in una mano e la briglia nell’altra. Ho l’impulso di fotografarlo, ma poi mi sento improvvisamente male all’idea. Non saluta nessuno. Alza a malapena lo sguardo. È troppo preso dalla sua perdita. La maggior parte delle persone utilizza il vecchio cimitero del campo; è il più sicuro e, sebbene sia tecnicamente pieno da tempo, hanno iniziato a scavare tombe meno profonde e a seppellire i nuovi morti sopra quelli vecchi, ovviamente tenendo unite le famiglie.

Il 21 novembre, dopo i continui bombardamenti dei carri armati, decide di fuggire dal quartiere di Jabaliya, nel nord di Gaza, per dirigersi verso il sud, insieme al figlio e alla suocera, che è su una sedia a rotelle. Devono passare attraverso i checkpoint israeliani, dove i soldati selezionano a caso uomini e ragazzi dalla fila per arrestarli.

Decine di corpi sono sparsi su entrambi i lati della strada“, scrive. “Sembra che stiano marcendo nel terreno. L’odore è orrendo. Una mano si protende verso di noi dal finestrino di un’auto bruciata, come se chiedesse qualcosa, a me in particolare. Vedo quelli che sembrano due corpi senza testa in un’auto: arti e parti preziose del corpo buttati via e lasciati a marcire“.

Dice a suo figlio Yasser: “Non guardare. Continua a camminare, figliolo“.

All’inizio di dicembre la casa di famiglia viene distrutta da un attacco aereo.

La casa in cui uno scrittore cresce è un pozzo da cui attingere materiale. In ognuno dei miei romanzi, ogni volta che volevo rappresentare una casa tipica del campo, ho evocato la nostra. Spostavo un po’ i mobili, cambiavo il nome del vicolo, ma chi volevo prendere in giro? Era sempre la nostra casa.

Tutte le case di Jabalya sono piccole. Sono costruite a caso, in modo disordinato, e non sono fatte per durare. Queste case hanno sostituito le tende in cui vivevano i palestinesi come mia nonna Eisha dopo lo sfollamento del 1948. Coloro che le hanno costruite hanno sempre pensato che presto sarebbero tornati alle belle e spaziose case che si erano lasciati alle spalle nelle città e nei villaggi della Palestina storica. Quel ritorno non è mai avvenuto, nonostante i nostri numerosi rituali di speranza, come la salvaguardia della chiave della vecchia casa di famiglia. Il futuro continua a tradirci, ma il passato è nostro.

Anche se ho vissuto in molte città del mondo e ne ho visitate molte altre, quella piccola casa sgangherata è stato l’unico posto in cui mi sono sentito a casa“, prosegue. Amici e colleghi mi chiedevano sempre: perché non vivi in Europa o in America? Ne hai l’opportunità. I miei studenti hanno chiesto: perché sei tornato a Gaza? La mia risposta era sempre la stessa: ‘Perché a Gaza, in un vicolo del quartiere Saftawi di Jabalya, c’è una casetta che non si trova in nessun’altra parte del mondo’. Se nel giorno del giudizio Dio mi chiedesse dove vorrei essere mandato, non esiterei a dire: ‘A casa’. Ora non c’è più nessuna casa“.

Atef è ora intrappolato nel sud di Gaza con suo figlio. Sua nipote è stata trasferita in un ospedale in Egitto. Israele continua a martellare Gaza con oltre 20.000 morti e 50.000 feriti. Atef continua a scrivere.

La storia del Natale è la storia di una povera donna, incinta di nove mesi, e di suo marito costretti a lasciare la loro casa di Nazareth, nel nord della Galilea. La potenza romana occupante ha chiesto che si registrino per il censimento a 90 miglia di distanza, a Betlemme. Quando arrivano non ci sono stanze. La donna partorisce in una stalla. Il re Erode, che ha saputo dai Magi della nascita del Messia, ordina ai suoi soldati di dare la caccia a tutti i bambini di Betlemme e dintorni di età non superiore ai due anni e di ucciderli. Un angelo avverte in sogno Giuseppe di fuggire. I due coniugi e il bambino fuggono con il favore delle tenebre e intraprendono un viaggio di 40 miglia verso l’Egitto.

All’inizio degli anni ’80 mi trovavo in un campo profughi per guatemaltechi fuggiti dalla guerra in Honduras. I contadini e le loro famiglie, che vivevano nella sporcizia e nel fango, con i villaggi e le case bruciati o abbandonati, stavano decorando le loro tende con strisce di carta colorata per celebrare la Strage degli Innocenti.

Perché è un giorno così importante?” chiesi.

È in questo giorno che Cristo è diventato un rifugiato“, mi rispose un contadino.

La storia di Natale non è stata scritta per gli oppressori. È stata scritta per gli oppressi. Siamo chiamati a proteggere gli innocenti. Siamo chiamati a sfidare il potere di occupazione. Atef, Refaat e quelli come loro, che ci parlano a rischio di morte, fanno eco a questa ingiunzione biblica. Parlano perché non restiamo in silenzio. Parlano perché prendiamo queste parole e queste immagini e le rivolgiamo ai principati del mondo – i media, i politici, i diplomatici, le università, i ricchi e i privilegiati, i produttori di armi, il Pentagono e i gruppi di pressione di Israele – che stanno orchestrando il genocidio a Gaza.

Il Cristo bambino non giace oggi nella paglia, ma in un mucchio di cemento rotto.

Il male non è cambiato nel corso dei millenni. E nemmeno la bontà.

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