Il vero volto della politica economica del governo Meloni – Andrea Fumagalli
La fine del
mese di novembre 2023 e la prima settimana di dicembre verranno ricordate dai
posteri per aver mostrato il vero volto della politica economica del governo
Meloni, proprio nel momento in cui la stampa mainstream e di destra si
sforzavano di sottolineare come fosse stato raggiunto il più elevato tasso
d’occupazione mai registrato in Italia, a riprova della bontà delle scelte
governative…
1. Il
mercato del lavoro in Italia
“Nonostante
l’economia in frenata, l’occupazione continua a crescere: in un anno + 458mila
lavoratori”, con 27 mila occupati in più nel solo mese di ottobre. Così
titolava il Sole 24ore di giovedì 30 novembre 2023. Un titolo
più o meno simile a quello di tutti gli altri grandi quotidiani. Tale
performance ha portato il tasso di occupazione al 61,8% (+0,1 punti), toccando
così un nuovo record. Nel mese di ottobre 2023, ultima rilevazione, cresce
anche il numero di persone in cerca di lavoro (+2,3%, pari a +45mila unità): un
aumento che coinvolge sia gli uomini sia le donne e riguarda tutte le classi
d’età a eccezione dei 35-49 che registrano un lieve calo. Il tasso di
disoccupazione totale sale così al 7,8% (+0,1 punti) e quello giovanile al
24,7% (+1,5 punti). Tale apparente paradosso (la simultanea crescita di
occupati e disoccupati) è spiegata dalla forte riduzione degli inattivi:
-69mila unità sul mese.
Occorre
ricordare che a partire dal 2021, sono considerate occupate “le persone che, durante la settimana di
riferimento, hanno lavorato per almeno un’ora a fini di retribuzione o di
profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti”. Il dato tanto
sbandierato come il più elevato dal 1977 (anno di inizio delle serie storiche
Istat sull’occupazione) dal governo Meloni non può quindi essere comparato con
i dati sull’occupazione precedente al 2021. Alla luce della nuova definizione,
l’essere occupato/a non è più garanzia di un reddito stabile superiore alla
soglia di povertà relativa. Differenziando i dati per settore, infatti,
l’occupazione cresce di più nei settori caratterizzati da “lavoro povero” a
minor valore aggiunto, quali costruzioni, terziario arretrato, logistica,
servizi di cura e pulizie.
C’è quindi
poco da festeggiare. Lo ha confermato, qualche giorno dopo, anche la pubblicazione del dato sulla produttività
dell’industria italiana del 2022, che ha visto un calo dello 0,7% a fronte di
un aumento delle ore lavorate. Il divario con l’Europa cresce. L’Italia è infatti
il paese dove si lavora di più, si lavora peggio e si è meno pagati.
Certo, il
governo può vantare un risultato: il ridimensionamento del reddito di
cittadinanza ha aumentato la coazione al lavoro, come si evidenzia dal calo
degli inattivi. Ma si tratta di lavoro precario, usa e getta, poco produttivo.
Tale risultato, che fa gioire la becera stampa di destra e l’imprenditoria più
arretrata, non è però in grado di compensare la perdita di potere d’acquisto
dovuto all’inflazione e quindi favorisce la stagnazione economica.
- Il decreto flussi
Venerdì 1
dicembre, sabato 2, lunedì 4 dicembre hanno avuto luogo i primi tre click
day previsti dal ministero dell’Interno, relativi alla tranche
iniziale di ingressi regolari per lavoratori stranieri – 136mila, su un totale
di 452mila in un triennio – autorizzati a entrare in Italia per svolgere le
mansioni previste dai contratti di chi li assumerà. Il prossimo e ultimo click
day sarà martedì 12 dicembre.
Per
agevolare le operazioni durante le giornate del click, il Ministro dell’Interno
ha dato la possibilità a chi volesse – fra il 30 ottobre e il 26 novembre – di
compilare in anticipo i moduli di domanda. Al termine della fase di
precompilazione, sono state inserite 607904 istanze, un numero oltre 4
volte superiore a quello dei 136mila ingressi 2023 e perfino maggiore dei
452mila stabiliti in tre anni. Siamo in presenza di un elevato eccesso di
domanda di lavoro rispetto all’offerta di lavoro migrante regolare. Più in
particolare, 253.473 richieste sono relative al “lavoro subordinato non
stagionale” (a fronte di 52.770 posti), 260.953 relative al “lavoro stagionale”
(82.550) e ben 86.074 al “settore dell’assistenza familiare e socio-sanitaria”,
a fronte di soli 9.500 posti per colf, badanti e baby sitter disponibili ().
Secondo i
calcoli elaborati dall’Osservatorio sul lavoro domestico
di Domina, una delle
maggiori associazioni datoriali, la sola assunzione di 9.500 tra colf, badanti
e baby sitter stabilita dal decreto flussi per il 2023 (altrettante ne sono
previste per il 2024 e il 2025, ma abbiamo visto che le sole domande per
quest’anno sono quasi dieci volte i posti consentiti) determinerà maggiori
entrate nette per 16,2 milioni di euro nelle case dello Stato tra contributi e
pagamento delle tasse. Se fosse consentito di assumere regolarmente un numero
dieci volte superiore, l’incasso per lo Stato sarebbe di circa 160 milioni,
solo per questo specifico settore. In tal modo verrebbero regolarizzate
lavoratori e lavoratrici già presenti in modo irregolare nel nostro paese.
Nessuno infatti assumerebbe per l’attività di badante o colf una persona mai
vista. In tal modo, oltre a migliorare il bilancio previdenziale, si renderebbe
visibile il lavoro sommerso. Il classico “due piccioni con una fava”.
Perché i
numeri del decreto flussi non vengono adeguati alla richiesta? Una prima
ragione sta nel non volere fare di fatto una “regolarizzazione” dei migranti
che potrebbe sembrare una sanatoria (parola che non può esistere nel lessico di
un governo con Meloni e Salvini). Ma forse la ragione principale è nel
mantenere una fascia di lavoro nero, altamente ricattabile e sfruttabile, in
grado di favorire l’attuale dumping salariale e sociale. La stessa logica
padronale che ha portato l’attuale governo a negare la necessità di un salario
minimo legale.
3. Caso ITA
e caso Acciaierie d’Italia (ex ILVA)
Venerdì 30
novembre 2023 il governo italiano ha finalmente trasmesso alla Commissione
Concorrenza dell’Europa i documenti relativi all’accordo, siglato 6 mesi prima
(il 25 maggio) per la vendita di ITA (Ex Alitalia) alla Lufthansa. Lufthansa
acquisirà il 41% di Ita Airways attraverso un aumento di capitale di 325
milioni di euro, con l’opzione di acquisire le azioni rimanenti in un secondo
momento. Dopo il 2025, quando la compagnia si prevede che sarà diventata
profittevole, è previsto un investimento nell’ordine di 450 milioni per il
controllo di Ita da parte dei tedeschi, mentre il Ministero dell’Economia e
Finanza (Mef) potrebbe mantenere il 10% o un rappresentante nel board.
Per contro, il Mef si impegna a finanziare un aumento di capitale per 250
milioni di euro, ultima tranche degli 1,35 miliardi di risorse pubbliche che
hanno avuto l’autorizzazione della Commissione europea. Di fatto, l’operazione
di privatizzazione porterà nelle casse dello Stato una somma netta di soli 75
milioni di euro. Sicuramente non un grande affare. Nell’accordo è previsto, un
aumento dell’organico dagli attuali 4400 dipendenti a 5500 nei prossimi tre
anni, a condizione però che l’azienda presenti un utile di bilancio.
A fine
novembre, in concomitanza con la trasmissione degli atti dell’accordo alla
Commissione europea, è stata inviata una mail ai dipendenti ex Alitalia, oggi
in cassa integrazione straordinaria, in cui si informava che dal 14 gennaio
l’amministrazione straordinaria va in liquidazione e che vengono aperte le
procedure di licenziamento collettivo al 31 ottobre 2024 per 2.668 dipendenti
della ex Alitalia, con l’erogazione della Naspi (che ha un massimale di 2.500
euro mensili). Nel frattempo, si aprirà dal 1° gennaio una “finestra” per
consentire ai dipendenti, su base volontaria, l’uscita anticipata con la Naspi;
chi invece non vorrà aderire continuerà a prendere la Cigs fino alla scadenza.
Tale
procedura è figlia dell’accordo del maggio 2023, in cui la vendita di ITA non
includeva il personale in cassa integrazione. È veramente peculiare che i
dipendenti in cassa integrazione straordinaria (a carico dei conti pubblici
dello Stato) non siamo stati presi in considerazione. Un ulteriore conferma di
come il governo Meloni abbia a cuore i lavoratori e le lavoratrici.
Una
situazione analoga è quella che si sta svolgendo in questi giorni alle
Acciaierie d’Italia (ex Ilva) di Taranto. Mercoledì 6 dicembre si è chiusa con
un nuovo rinvio l’assemblea dei soci delle Acciaierie d’Italia, svoltasi a
Milano. L’assemblea doveva approvare lo stanziamento di 300 milioni di euro
necessari per proseguire l’attività, ma non c’è stato accordo fra l’azionista
di maggioranza, la multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, e l’azionista
pubblico di minoranza Invitalia, società che si occupa degli investimenti dello
Stato. Il rinvio è stato giudicato particolarmente grave dai sindacati, perché
l’azienda ha di fatto finito i fondi e rischia la chiusura. Come si sa, l’ex
Ilva è l’acciaieria più grande d’Europa, occupa una superficie superiore a
quella della città di Taranto e dà lavoro a 10.500 dipendenti, senza contare
l’indotto. ArcelorMittal, che possiede il 62% del capitale sociale, ha detto di
non voler rifinanziare l’azienda: oltre ai 300 milioni immediati, necessari per
proseguire l’attività e saldare i debiti con i fornitori, la ricapitalizzazione
dovrebbe ammontare complessivamente a 1,5 miliardi. Per evitare la chiusura
sarebbe quindi necessario un intervento dello Stato, che un anno fa concesse ad
Acciaierie d’Italia un prestito da 680 milioni di euro, il decimo fatto con
soldi pubblici all’ex Ilva. ArcelorMittal nei giorni scorsi ha proceduto allo
spegnimento, definito temporaneo, di uno dei due altiforni attivi nell’impianto
di Taranto. La sospensione dell’attività dell’Altoforno 2 è cominciata lunedì 4
dicembre e ha fatto sì che sia rimasto attivo un solo altoforno (il 4), essendo
già fermi il 5 e l’1 (il 3 fu spento nel 1994 e demolito nel 2020). In ragione
di questa attività ridotta, la produzione di acciaio dell’azienda nel 2023 non
supererà i 3 milioni di tonnellate a fine anno, la metà esatta di quanto
previsto nel piano industriale siglato nel 2020 e lontana dagli 8 milioni di
tonnellate, obiettivo per il 2024. Attualmente circa 5000 dipendenti di
Acciaierie d’Italia sono in regime di cassa integrazione, con riduzioni anche
consistenti dello stipendio. I sindacati, che hanno proclamato uno sciopero di
48 ore, chiedono l’intervento dello Stato, anche grazie a una clausola che
permette di far aumentare la quota di azioni oltre il 50% con un aumento di
capitale che dovrebbe ammontare a 680 milioni.
I danni
ecologici di questa acciaieria sono oramai noti e sono gli abitanti di Taranto
a farne le spese. Si discute da anni di una possibile riconversione verso
produzioni a minor impatto ambientale. I vari governi che si sono succeduti dal
2012, quando la magistratura ha posto sotto sequestro l’area “a caldo” dello
stabilimento, cioè gli altiforni e le cokerie, mettendo l’Ilva sotto accusa per
disastro ambientale, hanno fatto promesse su promesse. Ma nulla è stato fatto e
nulla verrà fatto in futuro, soprattutto da parte di un governo che sul
rallentamento della transizione ecologica fonda parte della sua politica
economica.
4. La tassa
sugli extra-profitti delle imprese energetiche
L’8 dicembre
2023 è stato approvato al Senato, con 87 voti favorevoli e 46 contrari, il
«decreto anticipi» collegato alla legge di bilancio varata due mesi fa dal
Consiglio dei ministri. Si è deciso di non far pagare alle grandi aziende
energetiche l’ultima rata della tassa sugli extraprofitti con un risparmio per
le imprese e un mancato introito per lo Stato di 450 milioni di euro. La tassa
era stata prevista dal governo Draghi per un importo teorico di 8,3 miliardi di
euro, è stata rimodulata nella prima finanziaria del governo Meloni (2,5
miliardi), ora si arriverebbe a un’ulteriore modifica (450 milioni o anche
800). Si permetterebbe così alle compagnie che dovevano versare l’ultima
tranche della tassa sugli extra-profitti al 30 novembre di non pagare, almeno
per quest’anno. Per il prossimo le modalità sono ancora da stabilire.
Ricordiamo che dal 2021 fino a settembre 2023, le società energetiche hanno
registrato profitti per 70 miliardi di euro, in gran parte dovuti
all’incremento vertiginoso delle bollette a carico di famiglie e imprese. Solo
Eni nel 2022 ha fatto utili pari a 20,4 miliardi di euro .
5. Il
rinnovo contrattuale di Luxottica e del settore bancario
Un segnale
diverso, in questo quadro reazionario, può essere fornito da due casi di
rinnovo contrattuale: quello integrativo della Luxottica e quello nazionale del
settore bancario. Ma una rondine non fa primavera.
Riguardo al
primo, è stato siglato un accordo che sperimenta quattro giorni di lavoro a
settimana a parità di salario, lavorando solo da lunedì al giovedì e contando
invece sul weekend lungo da venerdì a domenica. Al momento, tuttavia, tali
orari di lavoro saranno limitati solo ad alcuni mesi dell’anno.
Per tutte le
altre settimane si manterranno invece i cinque giorni lavorativi abituali, da
lunedì a venerdì. Si tratta infatti di una fase sperimentale che riguarderà
alcuni reparti e sarà costantemente monitorata per tenere sotto controllo la
produttività aziendale.
L’accordo
coinvolge tutti i lavoratori degli stabilimenti Luxottica di Agordo, Sedico,
Cencenighe Agordino, Pederobba, Lauriano (Torino) e Rovereto (Trento).
Potenzialmente dunque per circa 20mila dipendenti anche se in questa prima fase
il tutto avverrà su base volontaria e in alcuni reparti. Tra gli altri punti
dell’intesa tra azienda e sindacati elencati dal nuovo contratto integrativo
aziendale, è previsto che ai lavoratori in uscita venga concesso il part time
per tre anni con contributi pieni mentre i giovani che prenderanno il posto del
personale uscente non saranno più assunti a tempo parziale, come avvenuto
finora, ma da subito a tempo pieno.
Un accordo
analogo è stato firmato più recentemente anche dalla Lamborghini.
Riguardo il
rinnovo del contratto del settore del credito, oltre alla riduzione dell’orario
di lavoro e sviluppo della digitalizzazione e informazione, l’ipotesi di accordo prevede 435 euro di aumento
medio mensile della retribuzione, a partire da dicembre, pagamento degli
arretrati per il periodo luglio-novembre di quest’anno con una media di 1.250
euro, ripristino pieno della base di calcolo del trattamento di fine rapporto a
partire dall’1 luglio 2023. L’aumento contrattuale verrà pagato in quattro
tranche, ma l’80% sarà riconosciuto nei primi 9 mesi di vigenza del contratto.
La prima tranche sarà di 250 euro (57,5% del totale dei 435 euro) e arriverà in
dicembre, la seconda sarà di 100 euro (23% del totale) e arriverà a settembre
del 2024. Infine ci sono 50 euro (11,5%) a giugno del 2025 e 35 euro (8%) a
marzo del 2026. L’aumento concordato produce effetti positivi anche sulla
tredicesima mensilità.
Si tratta di
un aumento salariale in grado di compensare più che adeguatamente l’erosione
del potere d’acquisto dovuto all’inflazione. Le risorse sono garantite dagli
elevati extra-profitti che il settore del credito ha maturato negli ultimi due
anni e che, nonostante le dichiarazioni di facciata, non sono stati sottoposti
a tassazione. Giusto per fare un esempio, Unicredito maturerà profitti per 7,2
miliardi a fine anno, Banca Intesa “solo” poco meno di 5 miliardi. Di fronte a
questi dati, gli aumenti salariali sembrano poca cosa.
È anche
utile ricordare che, secondo uno studio dell’Istat, a fine 2022 il complesso delle
società non finanziarie italiane ha realizzato un margine di profitto del
44,8%; si tratta del valore più alto dal 2010, cioè dall’anno in cui l’Istat ha
cominciato a misurare questa variabile ().
La dinamica
della distribuzione del reddito appare quindi in linea con i provvedimenti del
governo, ben dimostrati anche dall’affossamento di qualsiasi proposta di
salario minimo.
* * * * *
I fatti
ricordati ci mostrano inequivocabilmente il segno di classe della politica
economica dell’attuale governo. Non c’è molto altro da aggiungere, se non che
questi interventi producono una accentuazione della frammentazione delle
condizioni che caratterizzano i diversi comparti lavorativi. In altre parole la
logica corporativa tende a riaffermarsi come progetto istituzionale per
svuotare ulteriormente il ruolo – già debole – dei sindacati. Una
politica in linea con i dispositivi neoliberali che stanno, in modo sempre più
violento e marcato, imprimendo i lineamenti a questa cupa era. Inaugurata, vale
la pena di non dimenticarlo, da governi precedenti sostenuti anche dal
centrosinistra, a partire da Monti in poi.
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