La storia in corso non vede il «declino della violenza» rispetto al passato, come dice il pensiero ottimistico, ma il suo sviluppo, con più conflitti sanguinosi, armi più distruttive, più vittime
Quale futuro
ci attende per gli anni a venire? Gli intellettuali di grido affrontano questo
angoscioso interrogativo offrendo due tipi di risposte. Quella mistica, che
affida le nostre sorti all’imperscrutabile volontà di un dio o degli astri. E
quella cinica, in fondo simile, che rigetta l’intera questione riducendo la
storia umana a un misterioso ammasso di imprevedibili eventi accidentali.
Per dirla
con György Lukács, il fatto che questo pigro genere di risposte oggi accontenti
i più, è una prova che viviamo un’epoca di grottesco irrazionalismo.
Per fortuna
esiste anche un modo più serio di affrontare i grandi interrogativi sulle
prospettive dell’umanità. Consiste nel seguire un’indicazione dei
modernizzatori del materialismo, secondo cui la storia può essere intesa come
una sorta di «scienza del futuro». In parole semplici, pur tra sussulti e
rovesciamenti, si tratta di tirar fuori dagli avvenimenti passati le possibili
linee di tendenza per gli anni a venire.
PER CHIARIRE
IL PUNTO,
consideriamo il caso che più angustia le coscienze di questo tempo: la guerra.
Le tendenze storiche di lungo periodo muovono verso il conflitto o verso la
pace mondiale? Una risposta ottimista è venuta dal celebre scienziato cognitivo
Stephen Pinker, secondo cui la storia umana tende verso un «declino della
violenza»: dalle società primitive fino ai giorni nostri, i dati indicherebbero
un calo consistente delle vittime di guerra in rapporto alla popolazione
mondiale. Una magnifica sorte, secondo Pinker, che si spiegherebbe soprattutto
con l’avvento del capitalismo liberale e democratico e con i moti di pace che
tale illuminata civiltà porterebbe in dote. Tutto confortante, ma a ben vedere
anche scientificamente fragile.
La rosea
tesi di Pinker ha suscitato un’ampia discussione tra gli studiosi, da cui
purtroppo non sono emersi molti riscontri favorevoli. Stando a ricerche più
accurate che utilizzano archi temporali più definiti e termini di paragone più
adeguati, robuste evidenze di un declino delle vittime di guerra non si
trovano. Anzi, se si concentra l’attenzione su questo secolo e si rapporta il
numero di vittime a indicatori maggiormente associati ai processi economici, i
risultati sono inquietanti: i morti causati da conflitti militari aumentano sia
in termini assoluti, sia in rapporto alla produzione di armi, sia in rapporto
alla produzione totale di merci, con un incremento di oltre un terzo nell’arco
di un ventennio. Come a dire, abbiamo a che fare con armamenti più distruttivi
e con un capitalismo ancor più sanguinario che in passato.
ALTRO CHE
DECLINO, dunque.
Sarebbe piuttosto il caso di parlare di uno «sviluppo della violenza» militare
nel tempo. Ma come spiegare un tale andamento? Una possibilità consiste nel
collegarlo a una famigerata tesi marxiana, che di recente ha trovato conferme
empiriche: è la tendenza verso la centralizzazione dei capitali nelle mani di
un manipolo sempre più ristretto di grandi proprietari, avvalorata dal fatto
che oltre l’ottanta percento del capitale azionario mondiale è ormai
controllato da meno del due percento degli azionisti. Detto con una metafora, i
dati indicano che il pesce grosso mangia il pesce piccolo e così diventa sempre
più grosso. Ebbene, il guaio di questa tendenza è che porta alla formazione di
imponenti blocchi monopolistici, i quali sono prima o poi destinati a scontrarsi
sui mercati internazionali in una lotta non più solo economica ma anche
militare. Ossia, una guerra imperialista.
Magari a
pezzi, come si usa dire oggi. Se così stanno le cose, tocca pure correggere
Goya. Non è il sonno della ragione ma è la stessa «ragione» capitalistica – la
sua «legge» di movimento – che a quanto pare genera i mostri della guerra.
Il fiducioso
Pinker replicherebbe che una tale angosciosa prospettiva trova un fiero
ostacolo nello spirito pacifista delle democrazie liberali, a suo avviso poco
inclini al conflitto militare. In realtà, l’ipotizzata riluttanza delle
democrazie capitaliste verso la guerra trova riscontri modesti, soprattutto
negli ultimi tempi.
ANCHE IN TAL
CASO è
probabile che giochi un ruolo la tendenza verso la centralizzazione dei
capitali. Dopotutto, se il potere economico si concentra, presto o tardi tocca
pure concentrare il potere politico in poche mani. Si spiegherebbe così pure
l’odierna smania di «riforme» per rafforzare i poteri dei governi e ridurre le
aule parlamentari all’irrilevanza. Con l’effetto, tra l’altro, di abbattere le
residue difese democratiche contro le nuove fiammate di militarismo.
Lo scrittore
di fantascienza Ray Bradbury diceva che una distopia non serve a descrivere un
orrido futuro ma a prevenirlo. Iniziamo allora la prevenzione dicendo una
verità. Le principali minacce alla democrazia e alla pace non vengono da
qualche nemico esterno, ma dalle tendenze di fondo del capitalismo
contemporaneo.
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