mercoledì 17 gennaio 2024

Elogio del boicottaggio - Piero Bevilacqua

 

Se dovessimo chiederci quale fra le tante cause abbia oggi più peso nel determinare lo scadimento della vita politica, il restringimento della democrazia, la crescita delle disuguaglianze, l’impoverimento dello spirito pubblico, io non avrei esitazione a indicarla: l’affievolimento e la perdita d’efficacia del conflitto sociale. Non che le lotte siano scomparse dalla scena, ma sono quasi sempre frammentate, non inserite in una progettualità generale e soprattutto inefficaci, scarse di esiti positivi, di contropartite incoraggianti in grado di innescare processi più vasti. Senza qui addentrarci in analisi complesse, credo che il cuore di questo affievolimento sia nel depotenziamento della lotta di fabbrica, provocato dalla possibilità che il capitale ha di delocalizzare le sue aziende, e dalle molteplici ristrutturazioni industriali che hanno frantumato la compatta omegeneità operativa della classe operaia. La possibilità che le imprese hanno di rispondere alle rivendicazioni operaie con la fuga, spostando altrove le proprie sedi, ha posto i lavoratori in una condizione di impotenza, che poi si è riflessa – con intrecci che sarebbero da ricostruire in sede storica – nelle scelte moderate e neoliberistiche dei partiti ex comunisti e socialdemocratici. Costoro, sempre meno in grado di rispondere ai bisogni popolari, hanno progressivamente cessato di assumerne la rappresentanza e cercato presso altri ceti il consenso per la propria sopravvivenza. È quanto accaduto negli ultimi 30 anni.

Sul carattere dinamico e progressivo della lotta di classe non occorrerebbero prove storiche. Qui mi basti rammentare che si tratta di una scoperta teorica alle origini del pensiero politico moderno. È Niccolò Machiavelli che, nei Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, criticando tutti gli storici che avevano sin lì considerato la lotta tra patrizi e plebei, nella Roma repubblicana, come dei meri disordini, ne capovolge l’interpretazione. «Costoro biasimano quelle cose che furono la prima causa del tenere libera Roma» poiché «vi sono in ogni repubblica due umori diversi, quelli del popolo e quello dei grandi; e […] tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione loro» (I, IV).

Com’è noto, non si comprenderebbe lo sviluppo della società industriale senza le lotte operaie, come sul piano teorico ha mostrato Marx e come testimonia la storia del movimento operaio a livello mondiale. Un illustre sociologo del ‘900, Ralf Dahrendorf, pur da posizioni democratico-liberali, riconosceva che Marx aveva avuto il merito di cogliere il nesso profondo «tra struttura sociale e mutamento sociale assumendo che i conflitti di gruppo e le loro violente manifestazioni siano le forze che determinano tale mutamento» (Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, 1963). Del resto non c’è Paese che più pienamente dell’Italia fornisca le prove empiriche di tale nesso. Tutto il vasto processo riformatore che negli anni ’70 ha modernizzato un Paese arretrato e autoritario come il nostro, grazie allo Statuto dei lavoratori, alla riforma del diritto di famiglia, al divorzio, al Sistema sanitario nazionale, alla legge sull’aborto ecc., non sarebbe stato possibile senza i grandi e prolungati conflitti della fine degli anni ’60.

Ora è evidente che di fronte al limitato impegno dei sindacati e dei partiti politici nel sostenere lo scontro sociale, com’era accaduto nel ‘900, occorrerebbe pensare a come dar vita a nuove forme di lotta utilizzando le innumerevoli e disperse forze dei movimenti, associazioni, gruppi ecc. che oggi tengono viva per lo meno la critica alla società capitalistica. Beninteso, non si tratta di dar vita a manifestazioni di protesta, organizzare cortei, scrivere appelli ecc. Quel che appare oggi vitalmente necessario è la capacità di infliggere danni alla controparte che si vuol combattere. Senza produrre penalizzazioni, minacciare di perdite, intimorire le imprese, i gruppi politici o i governi, la lotta è quasi sempre povera di esiti. Con ogni evidenza oggi si è creata una tale la sproporzione delle forze tra poteri dominanti e ceti subalterni, alla base dell’umiliazione del lavoro e della dignità umana, dell’imbarbarimento civile che abbiamo sotto gli occhi, che non è possibile cominciare a invertire l’asimmetria se non colpendo gli obiettivi con efficacia.

Occorre dunque una una visione più complessa dei poteri che governano le nostre società. Dovremmo meglio considerare che il capitalismo non è solo un “modo di produzione”, ma anche un “modo di consumo”. Per sopravvivere esso ha un bisogno crescente di consumo famelico, perché la produzione di merci è in continua espansione, così come la competizione tra imprese, sicché gli acquisti bulimici vanno sollecitati con campagne pubblicitarie sempre più invasive e ossessive. Gli imprenditori investono somme ingenti in marketing e pubblicità, perché, mentre accrescono lo sfruttamento dei cittadini in qualità di lavoratori, debbono anche esortarli senza requie affinché acquistino i prodotti del loro stesso lavoro. Mentre spadroneggiano nelle proprie aziende, nell’ambito della società debbono inchinarsi ai potenziali clienti. È evidente dunque che nella sfera del consumo i rapporti di forza tra capitale e lavoro cambiano e in un certo senso si rovesciano. Il profitto, che si realizza solo quando la merce è venduta, sempre più dipende da bisogni non necessari dei cittadini, che si possono rifiutare di acquistare.

E qui viene in rilievo una contraddizione, certo ben nota, ma su cui si è poco lavorato in termini di progettualità politica e di lotta, soprattutto in Italia. Se consideriamo le cose dal versante del consumo dei beni appare evidente che se i lavoratori sono territorialmente chiusi nei confini nazionali come produttori – benché, almeno a livello europeo, i sindacati avrebbero potuto unificarli – in quanto consumatori potrebbero godere di uno spazio internazionale e avere al loro fianco anche altri ceti. Il rifiuto all’acquisto dei prodotti di una fabbrica che discrimina le maestranze in un luogo delimitato può teoricamente abbracciare un vasto mercato sovranazionale. Non è tutto. Anche le imprese che adottano i metodi più brutali di comportamento nei confronti dei propri dipendenti, che inquinano i suoli e le acque, danneggiano l’ambiente, cercano sempre di darsi una immagine impeccabile di probità, curano in sommo grado la propria reputazione. Le grandi imprese investono cospicue risorse per innalzare e rendere lustro il loro capitale simbolico. Una forma di ricchezza etica che si traduce in danaro, legittimità e potere. Ma anche un capitale esposto, che si può colpire su scala sovranazionale.

Appare chiaro che sto parlando di una forma di lotta ben nota, il sabotaggio, ma che dovremmo riprendere in considerazione entro un quadro di consapevolezza strategica più ampio e soprattutto con uno sforzo organizzativo all’altezza degli obiettivi. Oggi chi rilegge il vecchio testo di Francesco Gesualdi, Manuale del consumatore responsabile. Dal boicottaggio al consumo equo e solidale (Feltrinelli, 1999), a parte le utili informazioni storiche che fornisce, trova ancora freschissime indicazioni metodologiche e giuste riflessioni sulle inespresse potenzialità di questa forma di conflitto.

Beninteso, il boicottaggio non va immaginato in alternativa alla tradizionale lotta sindacale vincolata ai territori, come non sostituisce i partiti. Ma spesso può anche accompagnarla utilmente. Pensiamo alla vertenza dei dipendenti Amazon per il salario e le condizioni di lavoro. Essa poteva e potrebbe essere accompagnata da una campagna nazionale in cui si invitano i suoi potenziali clienti a non acquistare prodotti tramite quell’azienda. Una esortazione motivata con la denuncia delle condizioni di lavoro dei dipendenti, del livello dei salari, dei soprusi che spesso subiscono ecc. In questo caso la forza degli operai nella vertenza con la potente multinazionale, acquisterebbe ben altro vigore. Se si dispone di una efficiente rete organizzativa, al danno degli scioperi operai si unisce quello della perdita di centinaia di migliaia di acquisti. Al contempo l’impresa subisce uno scadimento d’immagine, una ferita al proprio capitale simbolico, apparendo socialmente esecrabile, e destinata perciò a perdere quote di mercato. Una vittoria netta su questo piano potrebbe creare effetti imitativi a catena e cambiare le carte in tavola del conflitto di classe nel nostro tempo, far lievitare il nostro depresso immaginario politico.

È solo un esempio, ma, come suggerisce Gesualdi, questo tipo di battaglie esigono lungo studio da parte di militanti, che vi si dedicano in maniera specifica, e una notevole capacità organizzativa. Capacità che oggi è potenzialmente cresciuta grazie alla rete, ma che si stenta a utilizzare per pura inettitudine. Pressoché nessuno pensa che di fronte al potere sovranazionale delle multinazionali i cittadini organizzati potrebbero mettere in piedi, con costi limitati, un’“Internazionale elettronica”, grazie al collegamento con milioni di consumatori sparsi per il mondo.

Le lotte per la protezione dell’ambiente possono trovare qui il loro campo privilegiato d’azione. Si pensi a come si potrebbero colpire le singole compagnie petrolifere invitando i cittadini a non rifornirsi di benzina presso determinate stazioni di servizio. Ma anche i governi possono essere oggetto di pressioni di grande efficacia, se fossimo bene informati e organizzati con disciplina. Consideriamo come potremmo colpire l’economia d’Israele mentre sta consumando, nell’indifferenza delle élites occidentali, il genocidio del popolo palestinese. Ma oggi, in Italia, si potrebbe organizzare una lotta in grande stile contro un potere che condiziona la vicenda politica nazionale, manipola l’opinione corrente, degrada lo spirito pubblico e la dignità del Paese. Mi riferisco ai grandi quotidiani e soprattutto alla TV pubblica e privata. Il modo in cui questi organi hanno dato conto della condotta di Israele in questi mesi, ha segnato una pagina incancellabile di disonore del giornalismo italiano. Se ne avessimo la forza potremmo organizzare una lunga campagna con la parola d’ordine “spegni la TV”, invitando gli italiani a non accendere i televisori per 1, 2 mesi, in forma di protesta per la parzialità e il servilismo filoatlantico dei nostri telegiornali e rubriche varie. Rammento che ove si riuscisse a creare una defezione significativa, si infliggerebbe un danno alle TV sia pubbliche che private, perché molti inserzionisti farebbero mancare i loro introiti dal momento che il numero dei consumatori di pubblicità diminuirebbe. Riuscire a creare un tale rapporto di ricattabilità delle TV darebbe ai cittadini un nuovo potere, la possibilità di rivendicare una informazione pluralista e meno asservita al conformismo dominante. Una campagna ben condotta, in grado di suscitare un vasto dibattito, capace di porre all’attenzione generale del Paese il problema della veridicità e qualità dell’informazione, potrebbe essere la leva per puntare a una riforma della TV pubblica, che la sottragga al controllo dell’esecutivo e all’occupazione dei partiti.

da qui


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