Se dovessimo chiederci quale fra le tante cause abbia oggi più peso nel determinare lo scadimento della vita politica, il restringimento della democrazia, la crescita delle disuguaglianze, l’impoverimento dello spirito pubblico, io non avrei esitazione a indicarla: l’affievolimento e la perdita d’efficacia del conflitto sociale. Non che le lotte siano scomparse dalla scena, ma sono quasi sempre frammentate, non inserite in una progettualità generale e soprattutto inefficaci, scarse di esiti positivi, di contropartite incoraggianti in grado di innescare processi più vasti. Senza qui addentrarci in analisi complesse, credo che il cuore di questo affievolimento sia nel depotenziamento della lotta di fabbrica, provocato dalla possibilità che il capitale ha di delocalizzare le sue aziende, e dalle molteplici ristrutturazioni industriali che hanno frantumato la compatta omegeneità operativa della classe operaia. La possibilità che le imprese hanno di rispondere alle rivendicazioni operaie con la fuga, spostando altrove le proprie sedi, ha posto i lavoratori in una condizione di impotenza, che poi si è riflessa – con intrecci che sarebbero da ricostruire in sede storica – nelle scelte moderate e neoliberistiche dei partiti ex comunisti e socialdemocratici. Costoro, sempre meno in grado di rispondere ai bisogni popolari, hanno progressivamente cessato di assumerne la rappresentanza e cercato presso altri ceti il consenso per la propria sopravvivenza. È quanto accaduto negli ultimi 30 anni.
Sul
carattere dinamico e progressivo della lotta di classe non occorrerebbero prove
storiche. Qui mi basti rammentare che si tratta di una scoperta teorica alle
origini del pensiero politico moderno. È Niccolò Machiavelli che, nei Discorsi
sopra la Prima Deca di Tito Livio, criticando tutti gli storici che avevano
sin lì considerato la lotta tra patrizi e plebei, nella Roma repubblicana, come
dei meri disordini, ne capovolge l’interpretazione. «Costoro biasimano quelle
cose che furono la prima causa del tenere libera Roma» poiché «vi sono in ogni
repubblica due umori diversi, quelli del popolo e quello dei grandi; e […] tutte
le leggi che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione loro» (I,
IV).
Com’è noto,
non si comprenderebbe lo sviluppo della società industriale senza le lotte
operaie, come sul piano teorico ha mostrato Marx e come testimonia la storia
del movimento operaio a livello mondiale. Un illustre sociologo del ‘900, Ralf
Dahrendorf, pur da posizioni democratico-liberali, riconosceva che Marx aveva
avuto il merito di cogliere il nesso profondo «tra struttura sociale e
mutamento sociale assumendo che i conflitti di gruppo e le loro violente
manifestazioni siano le forze che determinano tale mutamento» (Classi e
conflitto di classe nella società industriale, Laterza, 1963). Del resto
non c’è Paese che più pienamente dell’Italia fornisca le prove empiriche di
tale nesso. Tutto il vasto processo riformatore che negli anni ’70 ha
modernizzato un Paese arretrato e autoritario come il nostro, grazie allo
Statuto dei lavoratori, alla riforma del diritto di famiglia, al
divorzio, al Sistema sanitario nazionale, alla legge sull’aborto
ecc., non sarebbe stato possibile senza i grandi e prolungati conflitti
della fine degli anni ’60.
Ora è
evidente che di fronte al limitato impegno dei sindacati e dei partiti politici
nel sostenere lo scontro sociale, com’era accaduto nel ‘900, occorrerebbe
pensare a come dar vita a nuove forme di lotta utilizzando le innumerevoli e
disperse forze dei movimenti, associazioni, gruppi ecc. che oggi tengono viva
per lo meno la critica alla società capitalistica. Beninteso, non si tratta di
dar vita a manifestazioni di protesta, organizzare cortei, scrivere appelli
ecc. Quel che appare oggi vitalmente necessario è la capacità di
infliggere danni alla controparte che si vuol combattere. Senza produrre penalizzazioni, minacciare
di perdite, intimorire le imprese, i gruppi politici o i governi, la lotta è
quasi sempre povera di esiti. Con ogni evidenza oggi si è creata una
tale la sproporzione delle forze tra poteri dominanti e ceti subalterni,
alla base dell’umiliazione del lavoro e della dignità umana,
dell’imbarbarimento civile che abbiamo sotto gli occhi, che non è
possibile cominciare a invertire l’asimmetria se non colpendo gli obiettivi con
efficacia.
Occorre
dunque una una visione più complessa dei poteri che governano le nostre società.
Dovremmo meglio considerare che il capitalismo non è solo un “modo di
produzione”, ma anche un “modo di consumo”. Per sopravvivere esso ha un bisogno
crescente di consumo famelico, perché la produzione di merci è in continua
espansione, così come la competizione tra imprese, sicché gli acquisti bulimici
vanno sollecitati con campagne pubblicitarie sempre più invasive e ossessive.
Gli imprenditori investono somme ingenti in marketing e pubblicità, perché,
mentre accrescono lo sfruttamento dei cittadini in qualità di lavoratori,
debbono anche esortarli senza requie affinché acquistino i prodotti del loro
stesso lavoro. Mentre spadroneggiano nelle proprie aziende, nell’ambito della
società debbono inchinarsi ai potenziali clienti. È evidente dunque che nella sfera
del consumo i rapporti di forza tra capitale e lavoro cambiano e in un certo
senso si rovesciano. Il profitto, che si realizza solo quando la merce è
venduta, sempre più dipende da bisogni non necessari dei cittadini, che si
possono rifiutare di acquistare.
E qui viene
in rilievo una contraddizione, certo ben nota, ma su cui si è poco lavorato in
termini di progettualità politica e di lotta, soprattutto in Italia. Se
consideriamo le cose dal versante del consumo dei beni appare evidente che se i
lavoratori sono territorialmente chiusi nei confini nazionali come produttori –
benché, almeno a livello europeo, i sindacati avrebbero potuto unificarli – in
quanto consumatori potrebbero godere di uno spazio internazionale e avere al
loro fianco anche altri ceti. Il rifiuto all’acquisto dei prodotti di una
fabbrica che discrimina le maestranze in un luogo delimitato può teoricamente
abbracciare un vasto mercato sovranazionale. Non è tutto. Anche le imprese che
adottano i metodi più brutali di comportamento nei confronti dei propri
dipendenti, che inquinano i suoli e le acque, danneggiano l’ambiente, cercano
sempre di darsi una immagine impeccabile di probità, curano in sommo grado la
propria reputazione. Le grandi imprese investono cospicue risorse per innalzare
e rendere lustro il loro capitale simbolico. Una forma di ricchezza etica che
si traduce in danaro, legittimità e potere. Ma anche un capitale esposto, che
si può colpire su scala sovranazionale.
Appare
chiaro che sto parlando di una forma di lotta ben nota, il sabotaggio,
ma che dovremmo riprendere in considerazione entro un quadro di consapevolezza
strategica più ampio e soprattutto con uno sforzo organizzativo
all’altezza degli obiettivi. Oggi chi rilegge il vecchio testo di Francesco
Gesualdi, Manuale del consumatore responsabile. Dal boicottaggio
al consumo equo e solidale (Feltrinelli, 1999), a parte le
utili informazioni storiche che fornisce, trova ancora freschissime indicazioni
metodologiche e giuste riflessioni sulle inespresse potenzialità di questa
forma di conflitto.
Beninteso, il
boicottaggio non va immaginato in alternativa alla tradizionale lotta sindacale
vincolata ai territori, come non sostituisce i partiti. Ma spesso può anche
accompagnarla utilmente. Pensiamo alla vertenza dei dipendenti Amazon per il
salario e le condizioni di lavoro. Essa poteva e potrebbe essere
accompagnata da una campagna nazionale in cui si invitano i suoi potenziali
clienti a non acquistare prodotti tramite quell’azienda. Una esortazione
motivata con la denuncia delle condizioni di lavoro dei dipendenti, del livello
dei salari, dei soprusi che spesso subiscono ecc. In questo caso la forza degli
operai nella vertenza con la potente multinazionale, acquisterebbe ben altro
vigore. Se si dispone di una efficiente rete organizzativa, al danno degli
scioperi operai si unisce quello della perdita di centinaia di migliaia di
acquisti. Al contempo l’impresa subisce uno scadimento d’immagine, una ferita
al proprio capitale simbolico, apparendo socialmente esecrabile, e destinata
perciò a perdere quote di mercato. Una vittoria netta su questo piano potrebbe
creare effetti imitativi a catena e cambiare le carte in tavola del conflitto
di classe nel nostro tempo, far lievitare il nostro depresso immaginario
politico.
È solo un esempio,
ma, come suggerisce Gesualdi, questo tipo di battaglie esigono lungo
studio da parte di militanti, che vi si dedicano in maniera specifica, e una
notevole capacità organizzativa. Capacità che oggi è potenzialmente
cresciuta grazie alla rete, ma che si stenta a utilizzare per pura
inettitudine. Pressoché nessuno pensa che di fronte al potere sovranazionale
delle multinazionali i cittadini organizzati potrebbero mettere in piedi, con
costi limitati, un’“Internazionale elettronica”, grazie al collegamento con
milioni di consumatori sparsi per il mondo.
Le lotte per
la protezione dell’ambiente possono trovare qui il loro campo privilegiato
d’azione. Si
pensi a come si potrebbero colpire le singole compagnie petrolifere invitando i
cittadini a non rifornirsi di benzina presso determinate stazioni di servizio.
Ma anche i governi possono essere oggetto di pressioni di grande efficacia, se
fossimo bene informati e organizzati con disciplina. Consideriamo come potremmo
colpire l’economia d’Israele mentre sta consumando, nell’indifferenza
delle élites occidentali,
il genocidio del popolo palestinese. Ma oggi, in Italia, si potrebbe
organizzare una lotta in grande stile contro un potere che condiziona la
vicenda politica nazionale, manipola l’opinione corrente, degrada lo spirito
pubblico e la dignità del Paese. Mi riferisco ai grandi quotidiani e
soprattutto alla TV pubblica e privata. Il modo in cui questi organi hanno dato
conto della condotta di Israele in questi mesi, ha segnato una pagina
incancellabile di disonore del giornalismo italiano. Se ne avessimo la
forza potremmo organizzare una lunga campagna con la parola d’ordine
“spegni la TV”, invitando gli italiani a non accendere i televisori per 1, 2
mesi, in forma di protesta per la parzialità e il servilismo filoatlantico
dei nostri telegiornali e rubriche varie. Rammento che ove si riuscisse a
creare una defezione significativa, si infliggerebbe un danno alle TV sia
pubbliche che private, perché molti inserzionisti farebbero mancare i loro
introiti dal momento che il numero dei consumatori di pubblicità diminuirebbe.
Riuscire a creare un tale rapporto di ricattabilità delle TV darebbe ai
cittadini un nuovo potere, la possibilità di rivendicare una informazione
pluralista e meno asservita al conformismo dominante. Una campagna ben
condotta, in grado di suscitare un vasto dibattito, capace di porre
all’attenzione generale del Paese il problema della veridicità e qualità
dell’informazione, potrebbe essere la leva per puntare a una riforma della TV
pubblica, che la sottragga al controllo dell’esecutivo e all’occupazione dei
partiti.
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