1) Le Università propongono agli istituti scolastici dei “pacchetti per l’orientamento”: frequenti, tra gli altri, i corsi Che leader sei? e i laboratori sulle Soft Skills. I docenti delle scuole apprendono dalle circolari dei loro Dirigenti che l’istituzione universitaria dove si sono formati sulle “vecchie” discipline ora eroga competenze sulle nuove “dinamiche di leadership e di followership in un team”. Vengono così invitati a simulare in appositi “laboratori esperienziali di gruppo”, come si “orientano” le studentesse e gli studenti a “diventare dei leader”. Le stesse Università, in base al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 2023, hanno varato in fretta l’ “ alta formazione” per i futuri docenti, il cui costo è a carico dei corsisti: circa duemila euro per acquistare un “pacchetto” di crediti, con lezioni atomizzate e in parte on line, in cui uno spazio non marginale sarà dato alle questioni di leadership e di skills. La giustificazione che serpeggia fra i docenti universitari meno cinici è che “se non li facciamo noi, questi corsi li faranno le università telematiche private”. I più disinibiti (i cosiddetti “docenti Alfa”) cercano di delegare queste incombenze che vanno espletate comunque perché, nella logica del monitoraggio e degli indicatori, sono computate dal “Ranking reputazionale”, il dispositivo che valuta, algoritmo su algoritmo, accanto alla produttività dei ricercatori, le terze missioni e il livello di gradimento dell’Ateneo presso i propri stakeholders.
2) L’Università promuove l’aziendalismo come suo unico orizzonte:
non solo perché continua a demandare, in modo pressante, agli intellettuali
accademici la gestione dell’ “autonomia contabile” ma anche perché
organizza e disciplina ideologicamente (in modo solo in apparenza
neutrale) sia la valutazione della ricerca che le tecniche della didattica:
fattibilità e impatto dei progetti, rilevanza assoluta dell’innovazione
tecnologica da un lato, standardizzazione e formattazione dell’insegnamento
entro modelli precostruiti sulla misurazione degli “effetti d’apprendimento” (learning
outcomes) dall’altro. Non è diverso il processo che investe la scuola, come
risulta da una verifica dei rispettivi linguaggi, sostanzialmente
intercambiabili e abbreviati in acronimi. Le sigle proterve
che quotidianamente i professori, a scuola e all’università, utilizzano e
ripetono (Anvur, Invalsi, Asn, Cfu, Gev, Orcif, Pof, PI, Pon, Gav,
SSD, Prin, Pcto, Vqr…) passivizzano il loro pensiero e il loro lavoro:
si presentano come dati da assumere senza dubbi o dissensi, come
quelle registrate dal taccuino di Victor Klemperer.[1] Questa neolingua della
formazione, della ricerca e della didattica è il solo ‘pensiero-azione’ rimasto
dicibile dopo la cancellazione di tutti gli altri: come è noto, si può essere
islamisti o islamofobi, repubblicani o democratici, sovranisti o europeisti,
laburisti o tories purché si parli e si agisca costantemente come dei
piccoli o grandi manager. Del resto, Unica è il nome
eloquente della nuova piattaforma scolastica dedicata all’orientamento.
3) Dopo la pausa dell’emergenza sanitaria in cui le
catene processuali sono state interrotte e rapidamente riorganizzate,
l’Università si è socialmente legittimata come una frontiera del profitto.
Per una istruttiva comparazione, si può rimemorare il
saggio che Guido Viale pubblicò nel 1968 sui “Quaderni piacentini”: Contro
l’università. Quel numero dei “Quaderni”, che ebbe una diffusione
eccezionale e che contribuì alla stagione del movimento studentesco, avviava la
riflessione sull’uso capitalistico dei saperi. Oggi, nel sistema della ricerca
e della formazione, non si fa più solo uso mediato delle
discipline ai fini del dominio, ma si inducono docenti e studenti ad
apprendere immediatamente il linguaggio del dominio. In
particolare, nel campo della scuola, a essere sfiduciata è la mediazione delle
“vecchie” discipline, avvertite come fardello novecentesco e a esser esaltate
come “innovative” sono invece le tecniche e le retoriche, falsamente
“inclusive”, di riproduzione dei rapporti di potere. Si tratta del
capolavoro dello Zeitgeist neoliberista: al centro di ogni
apprendimento, dalla scuola primaria all’università, si accampa la competenza
imprenditoriale, ossia il “gioco” della competizione e della
concorrenza portato all’interno delle relazioni individuali, la
costruzione di un senso comune in cui per ogni “vincente” ci deve essere
un “perdente”.[2]
4) L’enfasi educativa sulla meritocrazia, sui leader,
sulla competizione e sulle skills sembra tuttavia rivelare una sua condizione
oscena: è retoricamente ossessiva nell’università e nella scuola nel
momento stesso in cui la crisi di civiltà è giunta a mostrare le sue tragiche
contraddizioni planetarie. Nell’arena della concorrenza globale non sembra
esserci più futuro nemmeno per i “vincitori” perché il disagio
psichico è sempre più connaturato alla performance[3], perché la concorrenza sta legittimando
la guerra, i respingimenti e l’ecocidio, e perché le sorti stesse
dell’umanità sono davvero a rischio. In una parola: che democrazia,
progresso e competizione siano fenomeni virtuosamente correlati si sta dimostrando,
alla verifica delle “sensate esperienze”, un sillogismo degno di
Simplicio o di Don Ferrante. Se, alla luce dei conflitti attuali,
la governance universitaria e scolastica, e il loro
disciplinamento diffuso, figurano come i ciechi in processione nel dipinto di
Bruegel il Vecchio, si apre, allora, tra gli intellettuali specializzati[4],
un problema di ecologia politica: smettere di essere consenzienti e
rilegittimare il bisogno di pensare e di agire contro
l’università e contro la scuola neoliberali.
5) Per ora, lo spazio per questo pensiero-azione
controtempo è invisibile e negato: l’’autoreferenzialità accademica e
scolastica con cui si continuano a concepire docenti e studenti come dei businessmen in
carriera trova le sue legittimazioni autoteliche nello Zeitgeist.
Una diserzione dei docenti dalla ragione neoliberale esigerebbe la presa di
parola e l’azione politica: per l’università, in specie, disertare
comporterebbe ciò che dalla riforma Gelmini in qua i professori hanno
rinunciato – per opportunismo o per cinismo – a fare: l’elaborazione di
pratiche di produzione e diffusione dei saperi alternative alla logica
dominante nel mondo dell’azienda accademica. Esistono, tuttavia, degli spiragli
autocoscienti[5] in
parte dovuti all’evidenza stessa della crisi. Il dissenso dei
docenti potrebbe opporre al mito ossessivo della competizione le pratiche
controfattuali della solidarietà attiva e della cooperazione infraumana, il
mutuo appoggio, la necessità della giustizia sociale e ambientale come
paradigmi culturali e politici da condividere. Un simile nuovo paradigma della
conoscenza critica potrebbe trovare il suo più acuminato strumento
concettuale nella nostra stessa tradizione: nel pensiero anti-antropocentrico
di Giacomo Leopardi. E, del resto, Sebastiano Timpanaro, sulla base di
una lettura leopardiana materialista e militante, ha posto una questione
non eludibile: “se, per esprimersi con un linguaggio irritante per gli
intellettuali odierni, homo sapiens dimostrasse di essere una
specie zoologica capace di linguaggio, di pensiero, di arte e di tante ottime
cose, ma incapace di eguaglianza e di autogoverno collettivo, la decadenza e la
fine dell’intera umanità sarebbe definitivamente segnata, a scadenza non troppo
lunga”.[6]
Note
[1] “C’erano il BDM e la HJ e la DAF e altre innumerevoli sigle. Nel mio
diario la sigla LTI compare un primo momento come scherzo parodistico, subito
dopo, però, come rapido ausilio della memoria, una sorta di nodo al fazzoletto
ben presto, e per tutti gli anni della miseria, come una vana legittima difesa,
un SOS rivolto a me stesso.” (V. Klemperer, La lingua del Terzo Reich.
Taccuino di un filologo, Giuntina, Roma, 2008, p.25).
[2] Il mito della competizione, “Jacobinitalia”, Alegre,
n. 21/inverno 2023.
[3] M. Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella
società degli individui, minimum fax, Roma, 2023.
[4] L’accademia e il fuori. I problema dell’intellettuale
specializzato in Italia, a cura di V. Mele, F. Mengali, F. Padovani, A.
Tortolini, Orthes, Napoli-Salerno, 2023
[5] Si veda a esempio il pionieristico pamphlet di
Federico Bertoni, Universitaly. La cultura in scatola,
Laterza, Roma-Bari 2016. Per uno sguardo non conformista sul discorso educativo
contemporaneo si rinvia a G. Biesta, Riscoprire l’insegnamento,
Raffaello Cortina, 2022. Tracce di dissenso sono evidenti nei due Manifesti per
l’Università e per la Scuola in https://www.universitadelfuturo.it/index.html
[6] S. Timpanaro, Antileopardiani e neomoderati nella
sinistra italiana, ETS, Pisa, 1982, p. 327
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