giovedì 18 gennaio 2024

Ognuno ha il fascismo che si merita

Dov’è il fascismo - Raniero La Valle

È stato fuorviante il dibattito protrattosi per giorni e giorni sul fascismo della signora Meloni. Esso non consiste nel beneplacito al saluto romano, ma nella cultura fascista che la determina nella sua azione di governo. Se ne possono fare solo alcuni esempi.

Il primo è quello di riferirsi sempre all’Italia come alla “Nazione”, per marcare un’identità, non per vezzo di linguaggio. Ma l’Italia, secondo la Costituzione, è una Repubblica, non è una Nazione, ed è la Repubblica, cioè il diritto, non sono le viscere, a fare il cittadino. Altrimenti si fa lo Stato etnico, e se arrivano altri si grida alla sostituzione etnica, si sogna il blocco navale, si chiudono i porti oppure, arrivati, li si imprigiona, li si segrega e li si deporta, fuori dalla vista, fuori dai confini, in Albania o in Tunisia, magari a pagamento. È quanto accade con lo Stato di Israele, che la discriminazione etnica l’ha messa addirittura in una legge di rango costituzionale che definisce Israele come lo “Stato nazione del popolo ebraico”, e solo a questo, “esclusivamente” riserva “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale”, che vuol dire negare agli altri la partecipazione alla sovranità, i diritti politici e perfino, come pretende il generale Effi Eitam, leader del partito religioso, il porto d’armi; e questo è il fascismo che porta al genocidio, come oggi a Gaza e che i palestinesi li vuole mandare nel deserto, in Egitto, in Congo, o tenerli in prigioni a cielo aperto (lo “Stato” palestinese della soluzione a due Stati, raccomandata, ma solo ora, da Biden).

Altra prova di fascismo è l’orgogliosa reiterata rivendicazione di un potere non “ricattabile”. Ma “ricattare” vuol dire minacciare un male per ottenere un bene: la democrazia è che un potere può essere tolto se non obbedisce al bene comune, e la minaccia di togliere potere al potere la fanno i Parlamenti nelle Repubbliche parlamentari e gli elettorati quando sono chiamati a votare. Il fascismo è che il Parlamento non può togliere la fiducia ai governi, gli elettorati non possono votare per uno o più lustri, e il potere è inamovibile; l’elezione diretta di un presidente del consiglio (la madre, per la Meloni, di tutte le riforme) lo rende non “ricattabile”: non può infirmarne il potere né un Parlamento, né un Presidente della Repubblica né, fin quando il potere non lo chiami alle urne, l’elettorato: e questo è fascismo. È stato quando il Gran Consiglio del fascismo ha “ricattato” Mussolini a piazza Venezia, che il Duce è stato ficcato dal re in un’ambulanza.

Altra prova di fascismo è la passione della guerra e l’entusiasmo per le armi. E quando la guerra non la si può fare in proprio, la si fa fare agli altri, senza far loro mancare le armi, perché quelle non finiscano mai, lasciando invece che finiscano i soldati, che è il regalo che stiamo facendo all’Ucraina, al suo autogenocidio (e il Partito Democratico si astiene).

Ci sarebbero tante altre cose proprie del fascismo: la subalternità ai potenti Alleati, il corporativismo, il classismo fiscale, l’invenzione del nemico, la propaganda. Non il folklore dei vecchi riti. Di questo dovremmo accorgerci.

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Fascisti in maschera e fascismi in doppiopetto - Marco Bascetta

Sull’adunata spiritica che ogni anno si ripete in via Acca Larentia a Roma per ricordare l’inutile e feroce uccisione di tre giovani missini nel gennaio del 1978, non c’è in realtà molto da dire se non riscoprire, inspiegabilmente sorpresi, che i fascisti esistono.

Converrebbe aggiungere che quelli in maschera, con tutto il loro torvo repertorio simbolico e le loro coreografie, sono di gran lunga preferibili a quelli in doppiopetto che nel corso del tempo, dopo essere stati “afascisti”, hanno talvolta finito per dichiararsi, sia pure a denti stretti, antifascisti. I primi si fanno onestamente riconoscere, mettono in imbarazzo i secondi tirando in ballo la loro storia comune neanche troppo passata, e si producono in frequenti carnevalate foriere di sgraditi incidenti e baruffe in famiglia. Per seguire la truppa in camicia nera, tuttavia, servirebbe oggi, contrariamente agli anni Venti, un certo stomaco. Ragion per cui l’appeal degli squadristi e in conseguenza il loro numero rimangono tutto sommato contenuti, anche se non sempre innocui. Molte aggressioni e attentati a sfondo razziale in diversi paesi dell’Unione europea sono riconducibili a questo tipo di raggruppamenti.

Confezionati in formato “democratico” dai postfascisti istituzionalizzati, l’autoritarismo, lo strapotere dell’esecutivo, la diffidenza per la libertà di stampa, l’idea gerarchica dell’ordine sociale, il nazionalismo, l’arroganza occidentalista, la xenofobia, il militarismo, la dottrina (e la pratica) antisindacale, la purezza dei valori, la difesa dei privilegi e molti altri temi comuni al fascismo e a tutta la tradizione reazionaria risultano digeribili a un ben più grande numero di cittadini che però continueranno a indignarsi per i saluti romani e i cerimoniali in stile Ventennio.

Che dagli attivisti di via Acca Larentia possa prendere le mosse la «ricostituzione del disciolto partito fascista» (che fra l’altro, nonostante indossino le camicie nere, nemmeno molti di costoro auspicherebbero) è un’ipotesi ridicola. Ciò che ridicolo non è, è invece il fatto che in Europa siano stati fondati nel corso degli ultimi decenni una pletora di partiti fascisti, accomunati da uno stesso impianto dottrinario autoritario e xenofobo e dal fatto di non aver assunto in nessun caso il nome proibito di quelli che hanno perso la Seconda guerra mondiale. Dalla spagnola Vox al polacco Pis, dall’Afd tedesca all’ungherese Fidesz, da Fratelli d’Italia al Rassemblement nationale, passando per olandesi, austriaci e scandinavi, imponenti formazioni inglobano, depurate delle forme più estreme e anacronisticamente stataliste e isolazioniste, idee, politiche e mentalità che affondano le radici nel terreno ideologico e pratico dell’interclassismo fascista. Per poi adattarle al contesto delle crisi che si susseguono nella contemporaneità. Manfred Weber, leader del Partito popolare europeo, da sempre sbilanciato verso la destra, può anche tuonare contro i saluti romani, per cui «non c’è posto in Europa», ma per politiche razziste e liberticide di posto ce ne è a iosa e con l’avallo del Ppe.

Un nominalismo alla rovescia, che fa delle cose la conseguenza dei nomi e dell’apologia la causa del reato, affligge sempre più insistentemente la politica e l’opinione pubblica. Cosicché è il nome del fascismo (e la sua simbologia) piuttosto che la traduzione politica attuale dei suoi contenuti a suscitare le reazioni più veementi. Di un antifascismo affetto da questa sindrome, e a sua volta da un carattere rituale, non si sa bene che cosa farsene. Invece di invitare pateticamente le destre istituzionalizzate a prendere le distanze dagli umori nostalgici che le pervadono converrebbe inchiodarle al rapporto che con queste inclinazioni strutturalmente intrattengono. Per farlo servirebbe però abbandonare quell’idea della politica come leale duello governato da regole condivise, che pur essendo in tutta evidenza fuori dal mondo si conserva tenacemente nella finzione del discorso pubblico.

L’articolo è tratto da il manifesto del 12 gennaio

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Fascismo: il potere delle immagini - Tomaso Montanari

Il potere delle immagini. Vedere centinaia di camicie nere schierarsi a Roma, la destra tesa nel saluto romano, ha provocato reazioni più diffuse e intense che non leggere le parole di Meloni o Lollobrigida sulla sostituzione etnica. Almeno, ora è più difficile negare che l’Italia abbia un problema col fascismo: è come se un ex alcolista fosse fotografato attaccato a una bottiglia di Bourbon. Le reazioni del Governo e della maggioranza a trazione di matrice fascista fanno parte della fotografia. Un ministro dell’Interno che dice che è controproducente applicare la legge. Un presidente del Senato che, da buon azzeccagarbugli, si arrampica sulle contraddizioni della Cassazione per escludere che il saluto fascista sia un reato. Una presidente del Consiglio che non rinnega la targa che mise nel teatro dell’attuale “folla oceanica”: una targa nella quale si autodefinisce “camerata”.

Nella cecità generale, sono paradossalmente i fascisti a parlare chiaro: sempre più chiaro. Pochi giorni fa, il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera ha gridato in Parlamento che al suo partito è particolarmente cara la frase con cui si chiude il Manifesto futurista (1909): «Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!». È un testo-incubatore del pensiero fascista. Poche righe sopra si legge: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna». Quindi, ha terminato il suo intervento citando una canzone della Compagnia dell’Anello che adatta Tomorrow belongs to me, la canzone che in Cabaret canta un membro della Gioventù Hitleriana: un testo di matrice nazista, con passaggi palesemente antisemiti e allusioni al fascismo, che è l’inno del Fronte della Gioventù.

In tutto questo, c’è un silenzio che fa veramente male: quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale nel suo discorso di fine anno alla nazione non ha pronunciato neanche una volta la parola “fascismo”, o la parola “antifascismo”.

Dobbiamo essere consapevoli che stiamo tradendo il mandato di Primo Levi e della sua generazione: non stiamo ricordando, non siamo vigili. Perché il punto non dovrebbe essere discutere se una singola manifestazione di fascismo sia reato o non lo sia, ma ricordare con chiarezza perché una opinione, quella sola opinione, sia stata spogliata dalla Costituzione della libertà di essere espressa. Perché il fascismo è, sempre e comunque, «terrorismo, ignoranza, inciviltà, fondamentale anticristianesimo e antirisorgimento, e bieco apparato poliziesco delle forze conservatrici», per usare le parole di Franco Antonicelli. E lo è sia quando è esaltato dalle braccia tese ad Acca Larentia, sia quando è difeso dagli equilibrismi verbali di deputati e ministri.

Di una cosa, soprattutto, dobbiamo essere consapevoli: il disegno, a suo modo lucido, dei fascisti è riscrivere, di fatto abbattere, la Costituzione antifascista del 1948.

Quando ci troveremo a discutere del “premierato”, deve essere chiaro che la matrice “culturale” di questo ritorno ai pieni poteri dell’esecutivo senza alcun bilanciamento sta in quelle braccia tese ad Acca Larentia. Se il domani apparterrà davvero a loro, sappiamo già come sarà quel domani.

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Meloni ’24 – A che punto è la notte - Marco Revelli 

La conferenza stampa d’inizio anno di Giorgia Meloni ha dato la misura, desolante, di quanto in basso sia caduto il nostro Paese. Che per la verità molto in alto non era mai stato, ma a un livello così infimo, negli ultimi decenni, non era mai arrivato. Una classe di governo da suburra. Un mondo giornalistico da paese di sonnambuli (secondo la definizione del Censis). Questa la doppia immagine, diacronica, delle tre ore e passa di “conversazione” della Presidente del Consiglio con i propri sudditi. E due domande, che sorgono spontanee:

“E’ concepibile, in un Paese europeo occidentale, una Premier che in un’interlocuzione ufficiale usa un linguaggio da taverna o da banda giovanile (più volte il termine ‘basita’, ‘me sto a morì, rega’, ecc.), mente spudoratamente sulle proprie politiche, ribatte alla denuncia di fatti puntuali di corruzione con argomenti da asilo infantile (‘e allora gli altri’), si rifugia nella battuta facile o nella retorica di piccolo gruppo (l’elogio della militanza della sorella), ecc. ecc.?”

E dall’altra parte: ”Come giudicare un mondo giornalistico che nella gran parte assiste a un simile spettacolo in rispettoso silenzio, senza un moto di protesta, d’indignazione, senza neppur tentare di replicare alle falsificazioni più pacchiane, sorridendo compiacente alle battutacce, o limitandosi a registrare le forzature e le stesse bugie, insomma, accettando di farsi umiliare nell’esercizio del proprio mestiere?” Avevano davanti una che aveva appena imposto una “legge bavaglio” per chiudere la bocca a chi, fra loro, avesse ancora la velleità di rivelare i panni sporchi delle figure di potere documentate nelle inchieste giudiziarie. E che ha in animo, parola del fedele Mollicone, di commissariare l’editoria imponendo un controllo preventivo sulle notizie con certificazione governativa della loro pubblicabilità (!!!). E non sono riusciti a esprimere non dico un moto di protesta (che sarebbe chieder troppo) ma neppure un segno di dignità offesa, nei confronti di chi toglie loro i fondamentali strumenti del mestiere. Stavano lì, seduti ad ascoltare una che nel denunciare l’esistenza di oscure trame nei suoi confronti, complotti e ricatti minacciosi, se ne usciva dicendo di non “chiederle di essere più precisa”. Cioè di rinunciare a esercitare il primo dovere che la deontologia professionale imporrebbe a un giornalista – ovvero richiedere a chi esercita il potere e muove accuse di “essere preciso” -, e non hanno fatto un plisset. Per poi correre nella loro maggioranza, sia pur con qualche nobile eccezione, a stilare le elegie che abbiamo letto il giorno dopo sulle prime pagine dei quotidiano nazionali, su come sia diventata brava la premier a gestire quanto, all’inizio, ai tempi di Cutro, ne aveva rivelato il catastrofico imbarazzo ad affrontare il confronto pubblico. E come avesse funzionato il dressage cui si era evidentemente sottoposta nei giorni dei due lunghi rinvii per controllare le pulsioni di un carattere strutturalmente insofferente all’interlocuzione non sottomessa.

Nessuno si è soffermato sulla fisiognomica messa in campo in quelle tre ore. Sul linguaggio del corpo che perforava la melina verbale col suo non-dir-nulla delle parole: le fronti aggrottate, le palpebre abbassate a significar noia, gli angoli della bocca piegati in segno di disgusto, irrisione, fastidio, l’esoftalmo – ovvero la protrusione del bulbo oculare – come maschera aggressiva. Repertorio per molti aspetti tribale di forme comunicative frontalmente contrapposte all’idea stessa del dialogo, del libero confronto, delle condizioni essenziali di una democrazia discorsiva come quella che dovrebbe caratterizzare un Paese moderno. E alla fine quasi tutti a spiegarci quanto sia diventata brava Lei, quanto “mestiere” abbia accumulato nel praticare l’arte della comunicazione. Insomma, una fuoriclasse, se non fosse penalizzata dall’armata Brancaleone che si ritrova intorno. Appesantita da seguaci non alla sua “altezza”, fastidiosi per lei stessa poverina, gregari che anziché portare acqua al mulino del Capo lo mettono a secco. Zavorra che tira giù una che potrebbe, di per sé, volare alto. Argomento che abbiamo sentito infinite volte in questi giorni di clamorose cadute tra le file dei Fratelli-coltelli, che si tratti del pistolero Pozzolo o del suo incauto ospite Delmastro, dei manipoli di Acca Larenzia o del loro avvocato d’ufficio La Russa, del cognato Lollo il denunciatore della “sostituzione etnica” o del sodale Rampulli, il fustigatore delle stelle sull’albero di Natale…

Val la pena soffermarsi su questo vezzo che ha contagiato una parte ampia del mondo politico e dell’ambiente giornalistico, perché è indice di un vizio grave. Di una tara storica, direbbe uno come Piero Gobetti. La tendenza a scaricare sui gregari le colpe del Capo, o se si preferisce a costruire la damnatio di chi sta sotto per meglio tessere la laudatio di chi sta in cima, è uno dei sintomi, forse quello più insidioso, dello spirito servile degli individui e dei gruppi. E’ la cifra con cui i servi contenti svolgono la propria funzione nella costruzione del consenso, o nella dissuasione del dissenso, nei contesti gerarchico-autoritari. O, se si preferisce, nei “Regimi”, siano essi conclamati o in fieri Durante il fascismo era regola comune scaricare sui gerarchi le colpe dei casi nefasti per preservarne il Duce e i suoi fasti. Con Giorgia Meloni questa pratica è ritornata a essere preoccupantemente diffusa. Anche in settori insospettabili dell’opinione pubblica e degli opinion leader.

E allora, giusto per vaccinarci almeno noi da questo virus, diciamocele alcune verità. A cominciare dal fatto che tra Giorgia Meloni e il circo Barnum che si è portata con sé al vertice dello Stato (per lo meno quelli che come lei arrivano dalle primitive propaggini missine e l’hanno accompagnata nella lunga attraversata del deserto) non c’è nessuna differenza, tranne quella tra i ruoli assunti. Ma dal punto di vista delle rispettive storie (delle “biografie politiche”), della cultura (si fa per dire) politica di ognuno dei personaggi, delle rispettive radici, dei valori (o meglio disvalori) di riferimento, dei processi di formazione, la “premier” e il cerchio ristretto dei fedelissimi che la circondano sono la stessa cosa. Sono impastati della stessa materia oscura. Condividono miti, riti, liturgie, odi e amori. In forma quasi patologica, come avviene nel caso delle classiche “comunità” intese nel senso più profondamente organico: le comunità “di destino”. O “di combattimento”. Quelle in cui gli affiliati si sentono parte dello stesso sangue e dello stesso suolo, impegnati in una difesa a ogni costo, qualunque ne siano meriti o colpe, di ognuno, perché si è militato nelle stesse trincee, si sono condivise le stesse prove estreme, i medesimi oltrepassamenti dei limiti, le identiche solitudini minoritarie. Contesti in cui ci si unisce nell’odio per l’esterno assunto come nemico e nella determinazione a non tradire (“boia chi molla è il grido di battaglia”) chi ne sta dentro.

Per questo Acca Larentia non è un luogo, e un fatto, marginale. Episodio di cronaca. Ha un significato rivelatore importante, perché lì, in quel punto, s’incrociano passato e presente dell’attuale leadership nazionale, intorno a un grumo identitario forte, di cui i saluti romani non sono orpello più o meno grottesco, ma simboli di memoria condivisa che disvela come la radice di questo segmento centrale di classe politica assurta a ruolo di governo affondi le radici nel campo più torbido della guerra civile a bassa intensità che ha caratterizzato gli anni settanta e ottanta, nelle falangi del neofascismo romano che fu allora tra i più turbolenti: quello in cui maturò lo spontaneismo armato dei fratelli Fioravanti, ed erano quotidiane le pratiche squadriste delle sezioni della Balduina, di Colle Oppio, di via delle Medaglie d’oro (da cui uscirono, non dimentichiamolo, gli assassini di Walter Rossi). Per anni, le celebrazioni lugubri di quell’episodio indubbiamente atroce del 7 gennaio, di quell’esecuzione gratuita, sono state l’occasione per i militanti post-missini, di rinverdire i lustri di quelle battaglie, e confermare con i simboli le proprie fedi rinnovate. A quei rituali Giorgia Meloni ha partecipato con zelo, accompagnata non certo da stinchi di santo (una volta persino a fianco di quel Giuliano Castellino, già di Forza Nuova e prima missino, recentemente condannato per l’assalto alla CGIL – si veda il video di Report al minuto 51,21), e con lei parte del nucleo originario, di più antica militanza, di Fratelli d’Italia.

Per questo spiace che ancora così tanti commentatori, sulla stampa e nei media, anche gente d’indubbia formazione politica di sinistra e di elevato livello intellettuale – gente come Massimo Cacciari, o Antonio Padellaro per far solo due nomi – non colgano il nesso stretto tra “questione antifascista” e qualità politica del governo Meloni. Che alzino il sopracciglio con infastidito gesto d’insofferenza quando si denuncia il carattere esplicitamente anti-antifascista di questa classe di governo a cominciare dal suo massimo vertice, quasi si trattasse di una sorta di feticismo archeologico perduto tra le nebbie del passato quando occorrerebbe concentrarsi esclusivamente sulla critica del presente e sulla attuale, non “atavica”, incapacità degli uomini (e delle donne) di Meloni ad affrontare le emergenze economiche e sociali del Paese. O che uno come Alessandro De Angelis contesti a Elly Schlein di aver enfatizzato, nel suo intervento alla Camera, la gravità della manifestazione di Acca Larenzia, in particolare la frase secondo cui “Acca Larentia è il fermo immagine di un paese in cui non ci riconosciamo”, tacciata addirittura come “torsione gruppettara”, sintomo di minoritarismo e dell’incapacità di cogliere il carattere episodico, limitato, confinato nella minuscola nicchia del neofascismo militante mentre l’Italia sarebbe altro. Tesi ribadita, sullo stesso portale di Huffington Post, dal suo direttore, Mattia Feltri, che anziché con Meloni e i suoi ministri se la prende con Conte, reo di non aver identificato il vero fascista, anzi “il fascistissimo” in giro per il mondo, ovvero Putin, nella sua presa di posizione contro l’invio delle armi in Ucraina: altro che gli sfigati di Acca Larenzia.

Ecco, tutto questo accanirsi a sminuire, minimizzare, derubricare mostra una preoccupante incapacità di capire come il curriculum di una classe politica sia intrinsecamente connesso con la sua qualità nella focalizzazione e risoluzione dei problemi. Che un gruppo dirigente proveniente da un percorso di formazione all’insegna della nostalgia per un passato aberrante e distruttivo è inevitabilmente segnato da una bassa qualità, o dall’assenza di qualità. O, al limite, da qualità negative, quali una visione improntata a una sorta di darwinismo sociale, al culto della forza e della sopraffazione, al ricorso a stilemi retorici distorcenti. Per questo continuiamo a ribadire l’inseparabilità tra “questione antifascista” e questione politica e sociale, in una parola: “Questione democratica”. E insieme consideriamo patetica l’invocazione, che sorge un po’ dappertutto nella sfera politica e mediatica, alla Presidente del Consiglio a “prendere le distanze”, a dire almeno una parola di dissociazione, e separare se stessa da quei manipoli che degradano l’immagine dell’Italia in Europa e nel mondo. Patetica perché ignora che Giorgia Meloni è ciò che è. Parte di quella storia, di quella vicenda fino a qualche anno fa minoritaria. Segnata da quell’imprinting. Dalla dipendenza da quei padri fondatori, come Giorgio Almirante, il vero anello di congiunzione tra gli orrori della Repubblica sociale e il neofascismo missino post-bellico. Si legga il libro di Davide Conti, Fascisti contro la democrazia, si presti attenzione soprattutto al sottotitolo: “Almirante e Rauti alle radici della destra italiana”(e se il libro richiedesse troppo tempo se ne legga almeno l’ampia recensione di Antonella Tarpino). Vi si dimostra con rigorosa documentazione come l’Msi di Giorgio Almirante sia ex origine implicato con quel “sovversivismo” che il clima della Guerra fredda aveva coltivato e protetto sul confine labile tra legalità e illegalità, e come in particolare dalla fine degli anni sessanta quel partito e quell’”ambiente” sia stato parte attiva in quella “strategia della tensione” che costituiva insieme l’effetto di una vocazione violenta e la fonte di legittimazione di pratiche estreme. Vi si trova anche una perfetta descrizione della “doppiezza” tradizionale almirantiana, intreccio – esattamente come oggi – di “cattivismo” e di “vittimismo” (si pensi alla teoria delle “trame bianche” per allontanare da sé il sospetto di complicità con lo stragismo). Chiedere a Giorgia Meloni di “prendere le distanze” da quel retroterra significherebbe chiederle di prendere le distanze da se stessa: una cosa che potrebbe magari anche fare se tiratavi per i capelli, ma che non sarebbe certo gesto di sincerità politica e culturale, anzi.

E a proposito di Almirante, è bene ricordarsi sempre che fu lui, il 5 maggio del 1942, sulla famigerata rivista “La difesa della razza” di cui era allora capo-redattore, a scrivere il seguente testo: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore … Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”Questo è l’uomo al cui nome gli amministratori di Fratelli d’Italia chiedono di dedicare strade e piazze, e che Giorgia Meloni ha ricordato, poco tempo fa, nel 32esimo anniversario della morte, come “Un grande uomo, un grande politico, un Patriota” (sic), non dimenticando mai di invocarlo come padre spirituale (“Amore per l’Italia, onestà, coerenza e coraggio sono valori che ha trasmesso alla Destra italiana e che portiamo avanti ogni giorno”, aveva aggiunto). Ora, che questa gente, oggi, a proposito di Israele e Palestina, si permetta di dispensare in giro attestazioni di filosemitismo e di antisemitismo, fa parte di quel vero “mondo alla rovescia” – non quello di cui vaneggia il generale Vannacci – che tanto ci chiude la gola per l’angoscia.

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Le braccia tese di Acca Larentia: non sono un semplice déjà vu - Silvia Manderino

Roma, Acca Larentia, 7 gennaio 2024, centinaia di braccia tese nel saluto romano, l’urlo collettivo “Presente!”, croci celtiche in ordine sparso a contorno dell’evento. Molti, da ogni parte, commentano: «Episodio che si ripete ogni anno il 7 gennaio, con ogni governo, ci si indigna solo ora?». E la questione, a parte qualche confronto televisivo tra indignati e ragionieri della presa d’atto, si chiude così. Si chiude? La questione è apertissima (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/01/11/meloni-24-a-che-punto-e-la-notte/). Perché la messa al bando dell’ideologia fascista, che trova alimento in quelle manifestazioni pubbliche oggi sempre più frequenti, è sancita dalla Costituzione repubblicana.

Oggi il Governo italiano è composto da una maggioranza la cui storia e cronaca politica hanno origine in quelle braccia alzate inneggianti all’ideologia fascista. Nel 2024 il Governo italiano è rappresentato da persone che nell’ideologia fascista hanno politicamente vissuto in modo convinto. Hanno giurato sulla Costituzione antifascista quando hanno assunto altissimi ruoli istituzionali, ma il loro quotidiano operato e il loro silenzio su eventi di eclatante fascismo come Acca Larentia sono l’evidente prova che si tratta di spergiuri, di soggetti pericolosi per la democrazia costituzionale.

Ci sono due leggi che configurano reato l’apologia di fascismo e, sotto ogni forma e ogni manifestazione di tale forma, la ricostituzione del disciolto partito fascista. Due leggi che attuano la XII disposizione finale della Costituzione italiana. La magistratura ha il compito di accertare se i reati sussistano. La politica istituzionale ha il compito di intervenire per condannare pubblicamente eventi manifestamente eversivi, perché così si qualifica l’episodio di Acca Larentia.

L’allontanamento dalla democrazia e la sua sostituzione con un ordinamento autoritario ha avuto sempre un analogo approccio: la storia lo insegna ma averlo appreso sembra tuttora una chimera. Sono i fatti, apparentemente di poca sostanza perché relativi a una manifestazione pubblica di breve durata, che tracciano la strada verso l’autoritarismo. Sono i fatti che danno il segno della progressiva regressione. Se a quei singoli fatti si accompagna una linea politica diretta a smantellare poco a poco, e su ogni fronte, diritti e libertà individuali e collettive, cominciando dal progetto di cambiare l’ordinamento costituzionale, allora – come ha scritto su queste pagine Tomaso Montanari (https://volerelaluna.it/commenti/2024/01/11/fascismo-il-potere-delle-immagini/) – l’attenzione e l’opposizione vanno poste come primo obiettivo per la difesa della democrazia.

La democrazia va difesa sempre, diritti e libertà non sono per sempre. Allentare l’attenzione, sottovalutare eventi di chiaro segno fascista, non reagire di fronte a tentativi di rottura della vita democratica, rinunciare a combattere nella difesa di libertà e diritti che il fascismo ha represso e sempre tenterà di reprimere solo se trova lo spazio: è questo su cui dovrebbero interrogarsi tutti coloro che credono nella democrazia del Paese.

Quanto accaduto ad Acca Larentia, non condannato da chi ne ha il dovere istituzionale e costituzionale, va considerato un preciso segnale. Per prendere coscienza che la democrazia in Italia è garantita solo se la si difende, contro ogni pericolo, contro ogni tentativo di minarne le fondamenta. La democrazia vive se la si tutela quotidianamente, se la si protegge contro ogni progetto politico – ancor di più se proveniente da chi è al vertice delle istituzioni – di suo smantellamento. Non ci sono vie di mezzo, non si tergiversa, su questo non si tace, non si transige (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/01/05/contro-il-fascismo-ora-ragazze-e-ragazzi-tocca-a-voi/).

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