Dov’è il fascismo - Raniero La Valle
È stato fuorviante il dibattito
protrattosi per giorni e giorni sul fascismo della signora Meloni. Esso non
consiste nel beneplacito al saluto romano, ma nella cultura fascista che la
determina nella sua azione di governo. Se ne possono fare solo alcuni esempi.
Il primo è quello di riferirsi
sempre all’Italia come alla “Nazione”, per marcare un’identità, non per vezzo di linguaggio. Ma l’Italia, secondo la
Costituzione, è una Repubblica, non è una Nazione, ed è la Repubblica, cioè il
diritto, non sono le viscere, a fare il cittadino. Altrimenti si fa lo Stato
etnico, e se arrivano altri si grida alla sostituzione etnica, si sogna il
blocco navale, si chiudono i porti oppure, arrivati, li si imprigiona, li si
segrega e li si deporta, fuori dalla vista, fuori dai confini, in Albania o in
Tunisia, magari a pagamento. È quanto accade con lo Stato di Israele, che la
discriminazione etnica l’ha messa addirittura in una legge di rango
costituzionale che definisce Israele come lo “Stato nazione del popolo
ebraico”, e solo a questo, “esclusivamente” riserva “il diritto di esercitare
l’autodeterminazione nazionale”, che vuol dire negare agli altri la
partecipazione alla sovranità, i diritti politici e perfino, come pretende il generale
Effi Eitam, leader del partito religioso, il porto d’armi; e questo è il
fascismo che porta al genocidio, come oggi a Gaza e che i palestinesi li vuole
mandare nel deserto, in Egitto, in Congo, o tenerli in prigioni a cielo aperto
(lo “Stato” palestinese della soluzione a due Stati, raccomandata, ma solo ora,
da Biden).
Altra
prova di fascismo è l’orgogliosa reiterata rivendicazione di un potere non
“ricattabile”. Ma “ricattare” vuol
dire minacciare un male per ottenere un bene: la democrazia è che un potere può
essere tolto se non obbedisce al bene comune, e la minaccia di togliere potere
al potere la fanno i Parlamenti nelle Repubbliche parlamentari e gli elettorati
quando sono chiamati a votare. Il fascismo è che il Parlamento non può togliere
la fiducia ai governi, gli elettorati non possono votare per uno o più lustri,
e il potere è inamovibile; l’elezione diretta di un presidente del consiglio
(la madre, per la Meloni, di tutte le riforme) lo rende non “ricattabile”: non
può infirmarne il potere né un Parlamento, né un Presidente della Repubblica
né, fin quando il potere non lo chiami alle urne, l’elettorato: e questo è
fascismo. È stato quando il Gran Consiglio del fascismo ha “ricattato”
Mussolini a piazza Venezia, che il Duce è stato ficcato dal re in un’ambulanza.
Altra
prova di fascismo è la passione della guerra e l’entusiasmo per le armi. E quando la guerra non la si può fare in proprio, la si
fa fare agli altri, senza far loro mancare le armi, perché quelle non finiscano
mai, lasciando invece che finiscano i soldati, che è il regalo che stiamo
facendo all’Ucraina, al suo autogenocidio (e il Partito Democratico si
astiene).
Ci
sarebbero tante altre cose proprie del fascismo: la subalternità
ai potenti Alleati, il corporativismo, il classismo fiscale, l’invenzione del
nemico, la propaganda. Non il folklore dei vecchi riti. Di questo
dovremmo accorgerci.
Fascisti in maschera e fascismi in doppiopetto - Marco Bascetta
Sull’adunata
spiritica che ogni anno si ripete in via Acca Larentia a Roma per ricordare
l’inutile e feroce uccisione di tre giovani missini nel gennaio del 1978, non
c’è in realtà molto da dire se non riscoprire, inspiegabilmente sorpresi, che i
fascisti esistono.
Converrebbe
aggiungere che quelli in maschera, con tutto il loro torvo repertorio simbolico
e le loro coreografie, sono di gran lunga preferibili a quelli in doppiopetto
che nel corso del tempo, dopo essere stati “afascisti”, hanno talvolta finito
per dichiararsi, sia pure a denti stretti, antifascisti. I primi si fanno
onestamente riconoscere, mettono in imbarazzo i secondi tirando in ballo la
loro storia comune neanche troppo passata, e si producono in frequenti
carnevalate foriere di sgraditi incidenti e baruffe in famiglia. Per seguire la
truppa in camicia nera, tuttavia, servirebbe oggi, contrariamente agli anni
Venti, un certo stomaco. Ragion per cui l’appeal degli squadristi e in
conseguenza il loro numero rimangono tutto sommato contenuti, anche se non
sempre innocui. Molte aggressioni e attentati a sfondo razziale in diversi
paesi dell’Unione europea sono riconducibili a questo tipo di raggruppamenti.
Confezionati
in formato “democratico” dai postfascisti istituzionalizzati,
l’autoritarismo, lo strapotere dell’esecutivo, la diffidenza per la libertà di
stampa, l’idea gerarchica dell’ordine sociale, il nazionalismo, l’arroganza
occidentalista, la xenofobia, il militarismo, la dottrina (e la pratica)
antisindacale, la purezza dei valori, la difesa dei privilegi e molti altri
temi comuni al fascismo e a tutta la tradizione reazionaria risultano
digeribili a un ben più grande numero di cittadini che però continueranno a
indignarsi per i saluti romani e i cerimoniali in stile Ventennio.
Che
dagli attivisti di via Acca Larentia possa prendere le mosse la «ricostituzione
del disciolto partito fascista» (che fra l’altro, nonostante indossino le
camicie nere, nemmeno molti di costoro auspicherebbero) è un’ipotesi ridicola.
Ciò che ridicolo non è, è invece il fatto che in Europa siano stati fondati nel
corso degli ultimi decenni una pletora di partiti fascisti, accomunati da uno
stesso impianto dottrinario autoritario e xenofobo e dal fatto di non aver
assunto in nessun caso il nome proibito di quelli che hanno perso la Seconda
guerra mondiale. Dalla spagnola Vox al polacco Pis, dall’Afd tedesca
all’ungherese Fidesz, da Fratelli d’Italia al Rassemblement nationale, passando
per olandesi, austriaci e scandinavi, imponenti formazioni inglobano, depurate
delle forme più estreme e anacronisticamente stataliste e isolazioniste, idee,
politiche e mentalità che affondano le radici nel terreno ideologico e pratico
dell’interclassismo fascista. Per poi adattarle al contesto delle crisi che si
susseguono nella contemporaneità. Manfred Weber, leader del Partito popolare
europeo, da sempre sbilanciato verso la destra, può anche tuonare contro i
saluti romani, per cui «non c’è posto in Europa», ma per politiche razziste e
liberticide di posto ce ne è a iosa e con l’avallo del Ppe.
Un
nominalismo alla rovescia, che fa delle cose la conseguenza dei nomi e
dell’apologia la causa del reato, affligge sempre più insistentemente la
politica e l’opinione pubblica. Cosicché è il nome del fascismo (e la
sua simbologia) piuttosto che la traduzione politica attuale dei suoi contenuti
a suscitare le reazioni più veementi. Di un antifascismo affetto da questa
sindrome, e a sua volta da un carattere rituale, non si sa bene che cosa
farsene. Invece di invitare pateticamente le destre istituzionalizzate
a prendere le distanze dagli umori nostalgici che le pervadono converrebbe
inchiodarle al rapporto che con queste inclinazioni strutturalmente
intrattengono. Per farlo servirebbe però abbandonare quell’idea della politica
come leale duello governato da regole condivise, che pur essendo in tutta
evidenza fuori dal mondo si conserva tenacemente nella finzione del discorso
pubblico.
L’articolo è tratto da il
manifesto del 12 gennaio
Fascismo: il potere delle immagini - Tomaso Montanari
Il
potere delle immagini. Vedere centinaia di camicie nere schierarsi a Roma, la
destra tesa nel saluto romano, ha provocato reazioni più diffuse e intense che
non leggere le parole di Meloni o Lollobrigida sulla sostituzione etnica.
Almeno, ora è più difficile negare che l’Italia abbia un problema col fascismo:
è come se un ex alcolista fosse fotografato attaccato a una bottiglia
di Bourbon. Le reazioni del Governo e della maggioranza a trazione di
matrice fascista fanno parte della fotografia. Un ministro dell’Interno che
dice che è controproducente applicare la legge. Un presidente del Senato che, da
buon azzeccagarbugli, si arrampica sulle contraddizioni della Cassazione per
escludere che il saluto fascista sia un reato. Una presidente del Consiglio che
non rinnega la targa che mise nel teatro dell’attuale “folla oceanica”: una
targa nella quale si autodefinisce “camerata”.
Nella
cecità generale, sono paradossalmente i fascisti a parlare chiaro: sempre più
chiaro. Pochi giorni fa, il capogruppo di Fratelli d’Italia alla
Camera ha gridato in Parlamento che al suo partito è particolarmente cara
la frase con cui si chiude il Manifesto futurista (1909): «Ritti sulla
cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!».
È un testo-incubatore del pensiero fascista. Poche righe sopra si
legge: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il
militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna». Quindi, ha terminato il suo
intervento citando una canzone della Compagnia dell’Anello che adatta Tomorrow
belongs to me, la canzone che in Cabaret canta un membro
della Gioventù Hitleriana: un testo di matrice nazista, con passaggi
palesemente antisemiti e allusioni al fascismo, che è l’inno del Fronte della
Gioventù.
In
tutto questo, c’è un silenzio che fa veramente male: quello del Presidente
della Repubblica Sergio Mattarella, il quale nel suo discorso di fine
anno alla nazione non ha pronunciato neanche una volta la parola “fascismo”, o
la parola “antifascismo”.
Dobbiamo
essere consapevoli che stiamo tradendo il mandato di Primo Levi e della sua
generazione: non stiamo ricordando, non siamo vigili. Perché il punto
non dovrebbe essere discutere se una singola manifestazione di fascismo sia
reato o non lo sia, ma ricordare con chiarezza perché una opinione, quella sola
opinione, sia stata spogliata dalla Costituzione della libertà di essere
espressa. Perché il fascismo è, sempre e comunque, «terrorismo, ignoranza,
inciviltà, fondamentale anticristianesimo e antirisorgimento, e bieco apparato
poliziesco delle forze conservatrici», per usare le parole di Franco
Antonicelli. E lo è sia quando è esaltato dalle braccia tese ad Acca Larentia,
sia quando è difeso dagli equilibrismi verbali di deputati e ministri.
Di
una cosa, soprattutto, dobbiamo essere consapevoli: il disegno, a suo
modo lucido, dei fascisti è riscrivere, di fatto abbattere, la Costituzione
antifascista del 1948.
Quando
ci troveremo a discutere del “premierato”, deve essere chiaro che la matrice
“culturale” di questo ritorno ai pieni poteri dell’esecutivo senza alcun
bilanciamento sta in quelle braccia tese ad Acca Larentia. Se il domani
apparterrà davvero a loro, sappiamo già come sarà quel domani.
Meloni ’24 – A che punto è la notte - Marco Revelli
La conferenza
stampa d’inizio anno di Giorgia Meloni ha dato la misura, desolante, di quanto
in basso sia caduto il nostro Paese. Che per la verità molto in alto non era
mai stato, ma a un livello così infimo, negli ultimi decenni, non era mai
arrivato. Una classe di governo da suburra. Un mondo giornalistico da paese di
sonnambuli (secondo la definizione del Censis). Questa la doppia immagine,
diacronica, delle tre ore e passa di “conversazione” della Presidente del
Consiglio con i propri sudditi. E due domande, che sorgono spontanee:
“E’ concepibile,
in un Paese europeo occidentale, una Premier che in un’interlocuzione ufficiale
usa un linguaggio da taverna o da banda giovanile (più volte il termine
‘basita’, ‘me sto a morì, rega’, ecc.), mente spudoratamente sulle proprie
politiche, ribatte alla denuncia di fatti puntuali di corruzione con argomenti
da asilo infantile (‘e allora gli altri’), si rifugia nella battuta facile o
nella retorica di piccolo gruppo (l’elogio della militanza della sorella), ecc.
ecc.?”
E dall’altra
parte: ”Come giudicare un mondo giornalistico che nella gran parte assiste a un
simile spettacolo in rispettoso silenzio, senza un moto di protesta,
d’indignazione, senza neppur tentare di replicare alle falsificazioni più
pacchiane, sorridendo compiacente alle battutacce, o limitandosi a registrare
le forzature e le stesse bugie, insomma, accettando di farsi umiliare
nell’esercizio del proprio mestiere?” Avevano davanti una che aveva appena
imposto una “legge bavaglio” per chiudere la bocca a chi, fra loro, avesse ancora
la velleità di rivelare i panni sporchi delle figure di potere documentate
nelle inchieste giudiziarie. E che ha in animo, parola del fedele Mollicone, di
commissariare l’editoria imponendo un controllo preventivo sulle notizie con
certificazione governativa della loro pubblicabilità (!!!). E non sono riusciti
a esprimere non dico un moto di protesta (che sarebbe chieder troppo) ma
neppure un segno di dignità offesa, nei confronti di chi toglie loro i
fondamentali strumenti del mestiere. Stavano lì, seduti ad ascoltare una che
nel denunciare l’esistenza di oscure trame nei suoi confronti, complotti e
ricatti minacciosi, se ne usciva dicendo di non “chiederle di essere più
precisa”. Cioè di rinunciare a esercitare il primo dovere che la deontologia
professionale imporrebbe a un giornalista – ovvero richiedere a chi esercita il
potere e muove accuse di “essere preciso” -, e non hanno fatto un plisset.
Per poi correre nella loro maggioranza, sia pur con qualche nobile eccezione, a
stilare le elegie che abbiamo letto il giorno dopo sulle prime pagine dei
quotidiano nazionali, su come sia diventata brava la premier a gestire quanto,
all’inizio, ai tempi di Cutro, ne aveva rivelato il catastrofico imbarazzo ad
affrontare il confronto pubblico. E come avesse funzionato il dressage cui
si era evidentemente sottoposta nei giorni dei due lunghi rinvii per
controllare le pulsioni di un carattere strutturalmente insofferente
all’interlocuzione non sottomessa.
Nessuno si è
soffermato sulla fisiognomica messa in campo in quelle tre ore. Sul linguaggio
del corpo che perforava la melina verbale col suo non-dir-nulla delle parole:
le fronti aggrottate, le palpebre abbassate a significar noia, gli angoli della
bocca piegati in segno di disgusto, irrisione, fastidio, l’esoftalmo – ovvero
la protrusione del bulbo oculare – come maschera aggressiva. Repertorio per
molti aspetti tribale di forme comunicative frontalmente contrapposte all’idea
stessa del dialogo, del libero confronto, delle condizioni essenziali di una
democrazia discorsiva come quella che dovrebbe caratterizzare un Paese moderno.
E alla fine quasi tutti a spiegarci quanto sia diventata brava Lei, quanto
“mestiere” abbia accumulato nel praticare l’arte della comunicazione. Insomma,
una fuoriclasse, se non fosse penalizzata dall’armata Brancaleone che si
ritrova intorno. Appesantita da seguaci non alla sua “altezza”, fastidiosi per
lei stessa poverina, gregari che anziché portare acqua al mulino del Capo lo
mettono a secco. Zavorra che tira giù una che potrebbe, di per sé, volare alto.
Argomento che abbiamo sentito infinite volte in questi giorni di clamorose
cadute tra le file dei Fratelli-coltelli, che si tratti del pistolero Pozzolo o
del suo incauto ospite Delmastro, dei manipoli di Acca Larenzia o del loro
avvocato d’ufficio La Russa, del cognato Lollo il denunciatore della
“sostituzione etnica” o del sodale Rampulli, il fustigatore delle stelle
sull’albero di Natale…
Val la pena
soffermarsi su questo vezzo che ha contagiato una parte ampia del mondo
politico e dell’ambiente giornalistico, perché è indice di un vizio grave. Di
una tara storica, direbbe uno come Piero Gobetti. La tendenza a scaricare sui
gregari le colpe del Capo, o se si preferisce a costruire la damnatio di
chi sta sotto per meglio tessere la laudatio di chi sta in
cima, è uno dei sintomi, forse quello più insidioso, dello spirito servile
degli individui e dei gruppi. E’ la cifra con cui i servi contenti svolgono la
propria funzione nella costruzione del consenso, o nella dissuasione del
dissenso, nei contesti gerarchico-autoritari. O, se si preferisce, nei
“Regimi”, siano essi conclamati o in fieri Durante il fascismo era regola
comune scaricare sui gerarchi le colpe dei casi nefasti per preservarne il Duce
e i suoi fasti. Con Giorgia Meloni questa pratica è ritornata a essere
preoccupantemente diffusa. Anche in settori insospettabili dell’opinione
pubblica e degli opinion leader.
E allora, giusto
per vaccinarci almeno noi da questo virus, diciamocele alcune verità. A
cominciare dal fatto che tra Giorgia Meloni e il circo Barnum che si è portata
con sé al vertice dello Stato (per lo meno quelli che come lei arrivano dalle
primitive propaggini missine e l’hanno accompagnata nella lunga attraversata
del deserto) non c’è nessuna differenza, tranne quella tra i ruoli assunti. Ma
dal punto di vista delle rispettive storie (delle “biografie politiche”), della
cultura (si fa per dire) politica di ognuno dei personaggi, delle rispettive
radici, dei valori (o meglio disvalori) di riferimento, dei processi di formazione,
la “premier” e il cerchio ristretto dei fedelissimi che la circondano sono la
stessa cosa. Sono impastati della stessa materia oscura. Condividono miti,
riti, liturgie, odi e amori. In forma quasi patologica, come avviene nel caso
delle classiche “comunità” intese nel senso più profondamente organico: le
comunità “di destino”. O “di combattimento”. Quelle in cui gli affiliati si
sentono parte dello stesso sangue e dello stesso suolo, impegnati in una difesa
a ogni costo, qualunque ne siano meriti o colpe, di ognuno, perché si è
militato nelle stesse trincee, si sono condivise le stesse prove estreme, i
medesimi oltrepassamenti dei limiti, le identiche solitudini minoritarie.
Contesti in cui ci si unisce nell’odio per l’esterno assunto come nemico e
nella determinazione a non tradire (“boia chi molla è il grido di battaglia”)
chi ne sta dentro.
Per questo Acca
Larentia non è un luogo, e un fatto, marginale. Episodio di cronaca.
Ha un significato rivelatore importante, perché lì, in quel punto, s’incrociano
passato e presente dell’attuale leadership nazionale, intorno a un grumo
identitario forte, di cui i saluti romani non sono orpello più o meno
grottesco, ma simboli di memoria condivisa che disvela come la radice di questo
segmento centrale di classe politica assurta a ruolo di governo affondi le
radici nel campo più torbido della guerra civile a bassa intensità che ha
caratterizzato gli anni settanta e ottanta, nelle falangi del neofascismo
romano che fu allora tra i più turbolenti: quello in cui maturò lo spontaneismo
armato dei fratelli Fioravanti, ed erano quotidiane le pratiche squadriste
delle sezioni della Balduina, di Colle Oppio, di via delle Medaglie d’oro (da
cui uscirono, non dimentichiamolo, gli assassini di Walter Rossi). Per anni, le
celebrazioni lugubri di quell’episodio indubbiamente atroce del 7 gennaio, di
quell’esecuzione gratuita, sono state l’occasione per i militanti post-missini,
di rinverdire i lustri di quelle battaglie, e confermare con i simboli le
proprie fedi rinnovate. A quei rituali Giorgia Meloni ha partecipato con zelo,
accompagnata non certo da stinchi di santo (una volta persino a fianco di quel
Giuliano Castellino, già di Forza Nuova e prima missino, recentemente
condannato per l’assalto alla CGIL – si
veda il video di Report al minuto 51,21), e con lei parte del nucleo
originario, di più antica militanza, di Fratelli d’Italia.
Per questo spiace
che ancora così tanti commentatori, sulla stampa e nei media, anche gente
d’indubbia formazione politica di sinistra e di elevato livello intellettuale –
gente come Massimo Cacciari, o Antonio Padellaro per far solo due nomi – non
colgano il nesso stretto tra “questione antifascista” e qualità politica del
governo Meloni. Che alzino il sopracciglio con infastidito gesto d’insofferenza
quando si denuncia il carattere esplicitamente anti-antifascista di questa
classe di governo a cominciare dal suo massimo vertice, quasi si trattasse di
una sorta di feticismo archeologico perduto tra le nebbie del passato quando
occorrerebbe concentrarsi esclusivamente sulla critica del presente e sulla
attuale, non “atavica”, incapacità degli uomini (e delle donne) di Meloni ad
affrontare le emergenze economiche e sociali del Paese. O che uno come
Alessandro De Angelis contesti a Elly Schlein di aver enfatizzato, nel suo
intervento alla Camera, la gravità della manifestazione di Acca Larenzia, in
particolare la frase secondo cui “Acca Larentia è il fermo immagine di un paese
in cui non ci riconosciamo”, tacciata addirittura come “torsione gruppettara”,
sintomo di minoritarismo e dell’incapacità di cogliere il carattere episodico,
limitato, confinato nella minuscola nicchia del neofascismo militante mentre
l’Italia sarebbe altro. Tesi ribadita, sullo stesso portale di Huffington Post,
dal suo direttore, Mattia Feltri, che anziché con Meloni e i suoi ministri se
la prende con Conte, reo di non aver identificato il vero fascista, anzi “il
fascistissimo” in giro per il mondo, ovvero Putin, nella sua presa di posizione
contro l’invio delle armi in Ucraina: altro che gli sfigati di Acca Larenzia.
Ecco, tutto questo
accanirsi a sminuire, minimizzare, derubricare mostra una preoccupante
incapacità di capire come il curriculum di una classe politica sia
intrinsecamente connesso con la sua qualità nella focalizzazione e risoluzione
dei problemi. Che un gruppo dirigente proveniente da un percorso di formazione
all’insegna della nostalgia per un passato aberrante e distruttivo è
inevitabilmente segnato da una bassa qualità, o dall’assenza di qualità. O, al
limite, da qualità negative, quali una visione improntata a una sorta di
darwinismo sociale, al culto della forza e della sopraffazione, al ricorso a
stilemi retorici distorcenti. Per questo continuiamo a ribadire
l’inseparabilità tra “questione antifascista” e questione politica e sociale,
in una parola: “Questione democratica”. E insieme consideriamo patetica
l’invocazione, che sorge un po’ dappertutto nella sfera politica e mediatica,
alla Presidente del Consiglio a “prendere le distanze”, a dire almeno una parola
di dissociazione, e separare se stessa da quei manipoli che degradano
l’immagine dell’Italia in Europa e nel mondo. Patetica perché ignora che
Giorgia Meloni è ciò che è. Parte di quella storia, di quella vicenda fino a
qualche anno fa minoritaria. Segnata da quell’imprinting. Dalla dipendenza da
quei padri fondatori, come Giorgio Almirante, il vero anello di congiunzione
tra gli orrori della Repubblica sociale e il neofascismo missino post-bellico.
Si legga il libro di Davide Conti, Fascisti contro la democrazia,
si presti attenzione soprattutto al sottotitolo: “Almirante e Rauti alle radici
della destra italiana”(e se il libro richiedesse troppo tempo se ne legga
almeno l’ampia recensione
di Antonella Tarpino). Vi si dimostra con rigorosa documentazione come
l’Msi di Giorgio Almirante sia ex origine implicato con quel
“sovversivismo” che il clima della Guerra fredda aveva coltivato e protetto sul
confine labile tra legalità e illegalità, e come in particolare dalla fine
degli anni sessanta quel partito e quell’”ambiente” sia stato parte attiva in
quella “strategia della tensione” che costituiva insieme l’effetto di una
vocazione violenta e la fonte di legittimazione di pratiche estreme. Vi si
trova anche una perfetta descrizione della “doppiezza” tradizionale
almirantiana, intreccio – esattamente come oggi – di “cattivismo” e di “vittimismo”
(si pensi alla teoria delle “trame bianche” per allontanare da sé il sospetto
di complicità con lo stragismo). Chiedere a Giorgia Meloni di “prendere le
distanze” da quel retroterra significherebbe chiederle di prendere le distanze
da se stessa: una cosa che potrebbe magari anche fare se tiratavi per i
capelli, ma che non sarebbe certo gesto di sincerità politica e culturale,
anzi.
E a proposito di
Almirante, è bene ricordarsi sempre che fu lui, il 5 maggio del 1942, sulla
famigerata rivista “La difesa della razza” di cui era allora capo-redattore, a
scrivere il seguente testo: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per
tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la
coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che
scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare
e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello
della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi
determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno
spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un
universalismo fittizio e ingannatore … Altrimenti finiremo per fare il gioco
dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi
cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza
neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di
spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a
passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà
al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. Questo è
l’uomo al cui nome gli amministratori di Fratelli d’Italia chiedono di dedicare
strade e piazze, e che Giorgia Meloni ha ricordato, poco tempo fa, nel 32esimo
anniversario della morte, come “Un grande uomo, un grande politico, un
Patriota” (sic), non dimenticando mai di invocarlo come padre spirituale
(“Amore per l’Italia, onestà, coerenza e coraggio sono valori che ha trasmesso
alla Destra italiana e che portiamo avanti ogni giorno”, aveva aggiunto). Ora,
che questa gente, oggi, a proposito di Israele e Palestina, si permetta di
dispensare in giro attestazioni di filosemitismo e di antisemitismo, fa parte
di quel vero “mondo alla rovescia” – non quello di cui vaneggia il generale
Vannacci – che tanto ci chiude la gola per l’angoscia.
Le braccia tese di Acca Larentia: non sono un semplice déjà
vu - Silvia Manderino
Roma,
Acca Larentia, 7 gennaio 2024, centinaia di braccia tese nel saluto romano,
l’urlo collettivo “Presente!”, croci celtiche in ordine sparso a contorno
dell’evento. Molti, da ogni parte, commentano: «Episodio che si ripete
ogni anno il 7 gennaio, con ogni governo, ci si indigna solo ora?». E la
questione, a parte qualche confronto televisivo tra indignati e ragionieri
della presa d’atto, si chiude così. Si chiude? La questione è apertissima (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/01/11/meloni-24-a-che-punto-e-la-notte/).
Perché la messa al bando dell’ideologia fascista, che trova alimento in
quelle manifestazioni pubbliche oggi sempre più frequenti, è sancita dalla
Costituzione repubblicana.
Oggi
il Governo italiano è composto da una maggioranza la cui storia
e cronaca politica hanno origine in quelle braccia alzate inneggianti
all’ideologia fascista. Nel 2024 il Governo italiano è rappresentato da
persone che nell’ideologia fascista hanno politicamente vissuto in modo
convinto. Hanno giurato sulla Costituzione antifascista quando hanno assunto
altissimi ruoli istituzionali, ma il loro quotidiano operato e il loro silenzio
su eventi di eclatante fascismo come Acca Larentia sono l’evidente prova che si
tratta di spergiuri, di soggetti pericolosi per la democrazia costituzionale.
Ci
sono due leggi che configurano reato l’apologia di fascismo e, sotto ogni forma
e ogni manifestazione di tale forma, la ricostituzione del disciolto partito
fascista. Due leggi che attuano la XII disposizione finale della Costituzione
italiana. La magistratura ha il compito di accertare se i reati sussistano. La
politica istituzionale ha il compito di intervenire per condannare
pubblicamente eventi manifestamente eversivi, perché così si qualifica
l’episodio di Acca Larentia.
L’allontanamento
dalla democrazia e la sua sostituzione con un ordinamento autoritario ha avuto
sempre un analogo approccio: la storia lo insegna ma averlo appreso sembra
tuttora una chimera. Sono i fatti, apparentemente di poca sostanza perché
relativi a una manifestazione pubblica di breve durata, che tracciano la strada
verso l’autoritarismo. Sono i fatti che danno il segno della progressiva
regressione. Se a quei singoli fatti si accompagna una linea politica diretta a
smantellare poco a poco, e su ogni fronte, diritti e libertà individuali e
collettive, cominciando dal progetto di cambiare l’ordinamento costituzionale,
allora – come ha scritto su queste pagine Tomaso Montanari (https://volerelaluna.it/commenti/2024/01/11/fascismo-il-potere-delle-immagini/)
– l’attenzione e l’opposizione vanno poste come primo obiettivo per la difesa
della democrazia.
La
democrazia va difesa sempre, diritti e libertà non sono per sempre. Allentare
l’attenzione, sottovalutare eventi di chiaro segno fascista, non reagire di
fronte a tentativi di rottura della vita democratica, rinunciare a combattere
nella difesa di libertà e diritti che il fascismo ha represso e sempre tenterà
di reprimere solo se trova lo spazio: è questo su cui dovrebbero
interrogarsi tutti coloro che credono nella democrazia del Paese.
Quanto
accaduto ad Acca Larentia, non condannato da chi ne ha il dovere istituzionale
e costituzionale, va considerato un preciso segnale. Per prendere coscienza che
la democrazia in Italia è garantita solo se la si difende, contro ogni
pericolo, contro ogni tentativo di minarne le fondamenta. La democrazia vive se
la si tutela quotidianamente, se la si protegge contro ogni progetto politico –
ancor di più se proveniente da chi è al vertice delle istituzioni – di suo
smantellamento. Non ci sono vie di mezzo, non si tergiversa, su questo non si
tace, non si transige (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/01/05/contro-il-fascismo-ora-ragazze-e-ragazzi-tocca-a-voi/).
Nessun commento:
Posta un commento