giovedì 18 gennaio 2024

Prospettive accademiche per un economista critico: un dialogo complesso - Marcello Spanò

  

Dopo un veloce esame della tesi ancora in corso, e dopo una rapida discussione sulle politiche economiche mondiali recenti, lo studente finalmente mi rivela il vero motivo per cui mi aveva chiesto un incontro: vuole sapere se io gli consiglierei la carriera accademica. Improvvisamente mi ritrovo catapultato svariati lustri indietro nel tempo. Anch’io, all’inizio dell’antropocene, avevo rivolto la stessa domanda al mio relatore, il quale mi aveva probabilmente guardato con lo stesso sguardo misto di empatia e timore con cui io adesso guardo il mio tesista.

Sto parlando di uno studente bravo, e non solo perché usa bene i gerundi e mette le virgole dove devono stare. Sta diventando un esperto, ben più di me, della teoria del circuito monetario e della sua eredità nelle scuole economiche eterodosse più recenti. Ha la stessa consapevolezza lucida che avevo io alla sua età della visione di fondo che si nasconde dietro la cortina dei tecnicismi, sia delle teorie economiche dominanti che di certi loro critici. Capisce che se una teoria o un modello è alternativo nelle conclusioni senza esserlo nei fondamenti teorici (ed epistemologici), quindi nella sua visione pre-analitica, non è davvero un approccio critico, ma solo retorico. Ha anche capito che, nelle varie traiettorie di ricerca che proliferano nell’ambito della disciplina economica, la libertà e il pluralismo sono ammessi soltanto a condizione che il filone di ricerca non si occupi di mettere in discussione l’ordine macroeconomico al suo più alto livello: si discuta e si litighi pure, purché non si disturbi il manovratore.

Di fronte a lui, cerco di assumere un’aria riflessiva degna di un navigato studioso della materia, ma mi rendo conto che mi trovo in pieno transfert psicanalitico. Non posso mentire a me stesso: qualunque cosa io dirò, la starò dicendo non tanto a lui, quanto a me alle soglie della laurea. Dirò di più. Non solo lui è il me stesso di quando avevo meno della metà dei miei anni che dialoga con il me stesso di oggi, ma io mi trovo a interpretare anche la parte del mio relatore di tesi che parla con me stesso giovane. O forse è più corretto dire che sto interpretando la parte del mio relatore di allora che ri-parla con me svariati anni dopo, quando ormai, come dicono i croupiers, les jeux sont faits (e dicono pure: rien ne va plus!). Il dialogo non può che farsi complesso!

Innanzitutto chiariamo un punto (e lo chiarisco anche al vero lui di oggi, non solo al me di ieri o al me di oggi). Per proseguire nella vita accademica, qualche forma di compromesso tra i tuoi interessi genuini e ciò di cui ti occuperai va messo in conto. Temo però che, a questo riguardo, la persona che io ho più stimato, tra quelle che ho conosciuto in accademia, mi abbia dato forse il consiglio che si è rivelato più sbagliato. All’inizio dell’antropocene, il consiglio sembrava avere senso. Se vuoi intraprendere la carriera accademica, mi disse il mio mentore di allora di cui oggi faccio le veci, cominciamo con una tesi spendibile. Se facessi un lavoro, per esempio, su Marx o su Minsky o su Kalecki o su qualsiasi teoria incommensurabile con l’approccio mainstream, avresti la strada accademica sbarrata. Così ragionando, abbiamo scelto una tesi su Stiglitz (che andava all’epoca molto di moda presso gli economisti più in odore di progressismo liberal buonista) ma, come indennizzo per il mio sacrificio, l’abbiamo messo a confronto con Schumpeter. Quest’ultimo, oltre a essere un autore di grande spessore e che pochi di coloro che lo conoscono hanno saputo leggere senza perdersi l’essenziale, mi è stato utilissimo a distruggere proprio Stiglitz, l’eroe degli accademici liberal-buonisti. Ne è uscita fuori una tesi critica coi controfiocchi, forse l’unica mia traccia lasciata nelle vesti di economista che resiste al tempo, che mi sono divertito a scrivere e su cui non nutro riserve.

Ma il vero compromesso per me doloroso è arrivato dopo. Dopo la laurea, ci voleva un master e un PhD tradizionalissimi, un patto faustiano che comportasse la rinuncia al pensiero (che doveva diventare monodimensionale) in cambio della padronanza della grammatica matematico-statistica senza la quale non sarei stato nemmeno ascoltato dagli economisti di professione. A giudizio del mentore, se volevo uno straccio di rispetto in accademia, dovevo scegliere di inabissarmi nel linguaggio degli economisti per bene e nascondere la mia natura di economista vetero-maledetto. Dovevo imparare a dimostrare teoremi, non ad argomentare sui fondamenti della teoria, dovevo far finta che il giudizio finale su uno schema interpretativo teorico spetti sempre ai dati, e che le controversie si debbano limitare a come si misura questa o quella variabile e a come si fa una stima inattaccabile. Per dirla con Lakatos, dovevo imparare a sguazzare nella periferia della teoria economica dominante, senza azzardarmi a varcare la sua cintura protettiva e intraprendere azioni di disturbo all’interno del suo nucleo teorico fondativo. La mia natura eretica sarebbe prima o poi riemersa, perché quella non scompare. Dovevo solo nasconderla per un po’. Anche per un bel po’, forse. La strategia, mi disse, è quella di un fiume carsico, che si inabissa e prosegue il suo corso sotto la roccia, per riaffiorare da qualche altra parte, in qualche altro momento. Quando è iniziata la mia avventura post-laurea nelle sembianze di un giovane economista per bene, la mia password più usata è stata, appunto, “carsico” (adesso posso dirlo, perché non la uso più).

Bene, ma adesso siamo nel 2024, e io non posso proporre al mio studente, in un contesto del tutto cambiato, lo stesso sacrificio umano a cui mi sono sottoposto io trent’anni prima. Ai tempi in cui io scrivevo la tesi, il muro di Berlino era appena crollato, le privatizzazioni erano la salvezza dai mali dell’inferno, l’Europa austeritaria era il nuovo sol dell’avvenir, le conferenze degli economisti critici erano popolate da vecchi polverosi e il dipartimento in cui avevo studiato aspettava con pazienza il decesso o il pensionamento della vecchia guardia per rimpiazzarla con la nuova, che nel frattempo si istruiva nelle università americane di comprovata fede ortodossa. Oggi, invece, le teorie eterodosse sono tornate in vita. La crisi del 2007-08, con le politiche miopi che ne sono seguite, hanno certamente contribuito a ridare dignità a linee di ricerca un po’ più capaci di spiegare fenomeni come la disoccupazione (che per gli economisti ortodossi è sostanzialmente un fatto naturale) oppure la crisi o il conflitto nella distribuzione del reddito (su cui i suddetti non ritengono di dover indagare più di quanto indaghino i vulcanologi) o il mistero di come possa la moneta uscire dalla cassaforte delle banche senza esservi mai entrata. Oggi, non a caso, le conferenze eterodosse sono piene di giovani brillanti e appassionati, che magari hanno iniziato a studiare economia per capire cosa non funzionava nel mondo in cui erano cresciuti, magari si sono anche ritrovati ad ascoltare spiegazioni pacate e rassicuranti sul fatto che tutto stava andando verso il meglio, salvo qualche frizione qua e là, e magari, fantozzianamente, hanno anche intuito da qualche indizio che qualcosa di quelle spiegazioni non tornava.

Lui, lo studente, è figlio di questo tempo, in cui gli economisti critici hanno rialzato la testa. E anzi, devo dire che di questo contesto di rinascita successivo alla crisi del 2007-08 hanno approfittato proprio coloro che avevano fatto una scelta opposta alla mia, e che si erano dedicati a uno studio eterodosso e di nicchia. Alle soglie della crisi del 2007-08, questi economisti eretici emergevano come esperti preparati e ben attrezzati, mentre io ero appena all’inizio di un processo di dismissione del camuffamento da mainstreamer, ero ancora lontano dalla pubblicazione tardiva del mio primo articolo di cui oggi non mi vergogno, e mi sarei presto scoperto in affannato ritardo rispetto a diversi contributi interessanti che dal giorno della mia laurea si erano accumulati ed evoluti mentre io guardavo da tutt’altra parte.

Il momento storico è dunque più propizio per chi si affaccia sul mercato accademico oggi, forse. Ma forse anche no. Le università, almeno in Italia, sono presidiate dai fanatici dell’eccellenza e della meritocrazia, che credono di avere seppellito definitivamente il baronato sotto un tumulo di pubblicazioni. La linea in Italia è dettata dalla Bocconi. I dottorati in cui si insegnano teorie alternative sono estinti o disastrati, almeno nella realtà geografica a me più vicina. Metodi quantitativi sì, ce n’è come il prezzemolo, ma le riflessioni sui fondamenti del pensiero economico te le devi coltivare per i fatti tuoi nei momenti dedicati al relax o alle deiezioni quotidiane, possibilmente con la porta chiusa a chiave. E su tutto ciò, naturalmente, incombe l’ANVUR, che dirige il traffico come un vigile urbano. Per avere un bollino di idoneità non conta ciò che racconti agli studenti né come lo racconti, né se per risparmiare tempo fai gli esami a quiz e contribuisci ad allevare una generazione di laureati intellettualmente pigri e inconsapevoli. Non conta nemmeno il contenuto di ciò che scrivi, che nessuno peraltro legge. Conta invece il numero di pubblicazioni e la loro qualità, la cui valutazione è affidata a un algoritmo che identifica come “migliori” le riviste più lette, cioè in definitiva quelle che si occupano di argomenti più alla moda, che sono decisi dalle università statunitensi più esclusive, che a loro volta dettano la linea al mondo intero. Non stupisce che il conformismo nel mondo accademico sia la regola, nonché la via più facile verso gli avanzamenti di carriera.

E quindi? Adesso cosa ho da offrire come consiglio, sia a lui che a me stesso agli albori dell’antropocene? Di primo acchito mi verrebbe da avvisarlo: scappa! fai altro! datti alla musica, o alla fotografia, apri una pasticceria italiana in Australia, oppure fai lo spacciatore di gas russo. Scappa da questa battaglia tra visioni del mondo che sai già che non puoi vincere. Fai scelte di vita che io non ho avuto il coraggio di fare. Scegliti, insomma, combattimenti più alla portata di un umano storico, non di un umano biblico. E poi la vita privata è un combattimento in sé, ed è tutt’altro che facile: se aggiungessi anche la dimensione collettiva ne resteresti schiacciato. L’individuale è politico? Davvero? Hai visto quelli che gridavano questo slogan come sono finiti? Oggi quasi tutti sono schierati a difesa dell’ordine contro cui combattevano da giovani, e ti danno pure del fasciopopulista se glielo fai notare. Perciò, sii saggio, cerca la felicità dove puoi davvero trovarla, non nel mondo che non vedremo mai.

Ma poi ci ripenso, e mi dico che in fondo al suo posto non saprei dove andare. Manca il piano B. Non solo. Confesso che mi prende anche l’orgoglio del combattente romantico o, meglio, donchisciottesco (ecco l’altra mia password dei primi tempi: Quixotte), di chi cerca di tenere a galla il Titanic trattenendolo dall’albero maestro. Mi dico che lui, il tesista, è in condizioni di correggere la mia scelta sbagliata, di imparare dalla mia esperienza e di partire col piede giusto. Mi dico che ha il tempo a suo favore, per fare anche errori, ma forse meno enormi dei miei, oltre che il tempo per leggere e studiare tutto ciò che vuole. Può scegliersi spazi di compromesso accettabili tra la sua esigenza di ragionare sui massimi sistemi e l’esigenza del “mercato accademico”, che richiede per lo più di dedicarsi a risolvere esercizi di rapida soluzione. Se lo inducessi a rinunciare, farei indirettamente spazio al passaggio, al suo posto, di un qualunque ingenuo macinatore di scienza normale. Come potrei poi lamentarmi se l’università resta squatterata dalle truppe di economisti cresciuti a pane, pensiero unico e frizioni del pensiero unico? Insomma, ci vuole qualcuno che ci aiuti a spingere il macigno di Sisifo verso l’alto, nel tentativo di non farlo rotolare indietro. Se non lui, cioè io, cioè il mio relatore, cioè tutti coloro che sono come noi, chi? Se non ora, cioè prima della nostra estinzione, cioè all’inizio dell’antropocene, cioè alla fine, cioè domani, quando?

Il dialogo si è fatto effettivamente complesso, come era inevitabile. Ci salutiamo con più perplessità di quando abbiamo iniziato a parlare. Io esco dallo studio e dal sogno borgesiano in cui mi sono infilato, e me ne vado a fare un giro sotto la pioggia.

da qui

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