Dopo un veloce esame della tesi ancora in corso, e dopo
una rapida discussione sulle politiche economiche mondiali recenti, lo studente
finalmente mi rivela il vero motivo per cui mi aveva chiesto un incontro: vuole
sapere se io gli consiglierei la carriera accademica. Improvvisamente mi
ritrovo catapultato svariati lustri indietro nel tempo. Anch’io, all’inizio dell’antropocene,
avevo rivolto la stessa domanda al mio relatore, il quale mi aveva
probabilmente guardato con lo stesso sguardo misto di empatia e timore con cui
io adesso guardo il mio tesista.
Sto parlando di uno studente bravo, e non solo perché usa
bene i gerundi e mette le virgole dove devono stare. Sta diventando un esperto,
ben più di me, della teoria del circuito monetario e della sua eredità nelle
scuole economiche eterodosse più recenti. Ha la stessa consapevolezza lucida
che avevo io alla sua età della visione di fondo che si nasconde dietro la
cortina dei tecnicismi, sia delle teorie economiche dominanti che di certi loro
critici. Capisce che se una teoria o un modello è alternativo nelle conclusioni
senza esserlo nei fondamenti teorici (ed epistemologici), quindi nella sua
visione pre-analitica, non è davvero un approccio critico, ma solo retorico. Ha
anche capito che, nelle varie traiettorie di ricerca che proliferano
nell’ambito della disciplina economica, la libertà e il pluralismo sono ammessi
soltanto a condizione che il filone di ricerca non si occupi di mettere in
discussione l’ordine macroeconomico al suo più alto livello: si discuta e si
litighi pure, purché non si disturbi il manovratore.
Di fronte a lui, cerco di assumere un’aria riflessiva
degna di un navigato studioso della materia, ma mi rendo conto che mi trovo in
pieno transfert psicanalitico. Non posso mentire a me stesso: qualunque cosa io
dirò, la starò dicendo non tanto a lui, quanto a me alle soglie della laurea.
Dirò di più. Non solo lui è il me stesso di quando avevo meno della metà dei
miei anni che dialoga con il me stesso di oggi, ma io mi trovo a interpretare
anche la parte del mio relatore di tesi che parla con me stesso giovane. O
forse è più corretto dire che sto interpretando la parte del mio relatore di
allora che ri-parla con me svariati anni dopo, quando ormai, come dicono i
croupiers, les jeux sont faits (e dicono pure: rien
ne va plus!). Il dialogo non può che farsi complesso!
Innanzitutto chiariamo un punto (e lo chiarisco anche al
vero lui di oggi, non solo al me di ieri o al me di oggi). Per proseguire nella
vita accademica, qualche forma di compromesso tra i tuoi interessi genuini e
ciò di cui ti occuperai va messo in conto. Temo però che, a questo riguardo, la
persona che io ho più stimato, tra quelle che ho conosciuto in accademia, mi
abbia dato forse il consiglio che si è rivelato più sbagliato. All’inizio
dell’antropocene, il consiglio sembrava avere senso. Se vuoi intraprendere la
carriera accademica, mi disse il mio mentore di allora di cui oggi faccio le
veci, cominciamo con una tesi spendibile. Se facessi un lavoro, per esempio, su
Marx o su Minsky o su Kalecki o su qualsiasi teoria incommensurabile con
l’approccio mainstream, avresti la strada accademica sbarrata. Così ragionando,
abbiamo scelto una tesi su Stiglitz (che andava all’epoca molto di moda presso
gli economisti più in odore di progressismo liberal buonista) ma, come
indennizzo per il mio sacrificio, l’abbiamo messo a confronto con Schumpeter. Quest’ultimo,
oltre a essere un autore di grande spessore e che pochi di coloro che lo
conoscono hanno saputo leggere senza perdersi l’essenziale, mi è stato
utilissimo a distruggere proprio Stiglitz, l’eroe degli accademici
liberal-buonisti. Ne è uscita fuori una tesi critica coi controfiocchi, forse
l’unica mia traccia lasciata nelle vesti di economista che resiste al tempo,
che mi sono divertito a scrivere e su cui non nutro riserve.
Ma il vero compromesso per me doloroso è arrivato dopo.
Dopo la laurea, ci voleva un master e un PhD tradizionalissimi, un patto
faustiano che comportasse la rinuncia al pensiero (che doveva diventare
monodimensionale) in cambio della padronanza della grammatica
matematico-statistica senza la quale non sarei stato nemmeno ascoltato dagli
economisti di professione. A giudizio del mentore, se volevo uno straccio di
rispetto in accademia, dovevo scegliere di inabissarmi nel linguaggio degli
economisti per bene e nascondere la mia natura di economista vetero-maledetto.
Dovevo imparare a dimostrare teoremi, non ad argomentare sui fondamenti della
teoria, dovevo far finta che il giudizio finale su uno schema interpretativo
teorico spetti sempre ai dati, e che le controversie si debbano limitare a come
si misura questa o quella variabile e a come si fa una stima inattaccabile. Per
dirla con Lakatos, dovevo imparare a sguazzare nella periferia della teoria
economica dominante, senza azzardarmi a varcare la sua cintura protettiva e
intraprendere azioni di disturbo all’interno del suo nucleo teorico fondativo.
La mia natura eretica sarebbe prima o poi riemersa, perché quella non scompare.
Dovevo solo nasconderla per un po’. Anche per un bel po’, forse. La strategia,
mi disse, è quella di un fiume carsico, che si inabissa e prosegue il suo corso
sotto la roccia, per riaffiorare da qualche altra parte, in qualche altro
momento. Quando è iniziata la mia avventura post-laurea nelle sembianze di un
giovane economista per bene, la mia password più usata è stata, appunto,
“carsico” (adesso posso dirlo, perché non la uso più).
Bene, ma adesso siamo nel 2024, e io non posso proporre
al mio studente, in un contesto del tutto cambiato, lo stesso sacrificio umano
a cui mi sono sottoposto io trent’anni prima. Ai tempi in cui io scrivevo la
tesi, il muro di Berlino era appena crollato, le privatizzazioni erano la
salvezza dai mali dell’inferno, l’Europa austeritaria era il nuovo sol
dell’avvenir, le conferenze degli economisti critici erano popolate da vecchi
polverosi e il dipartimento in cui avevo studiato aspettava con pazienza il
decesso o il pensionamento della vecchia guardia per rimpiazzarla con la nuova,
che nel frattempo si istruiva nelle università americane di comprovata fede
ortodossa. Oggi, invece, le teorie eterodosse sono tornate in vita. La crisi
del 2007-08, con le politiche miopi che ne sono seguite, hanno certamente
contribuito a ridare dignità a linee di ricerca un po’ più capaci di spiegare
fenomeni come la disoccupazione (che per gli economisti ortodossi è
sostanzialmente un fatto naturale) oppure la crisi o il conflitto nella
distribuzione del reddito (su cui i suddetti non ritengono di dover indagare
più di quanto indaghino i vulcanologi) o il mistero di come possa la moneta
uscire dalla cassaforte delle banche senza esservi mai entrata. Oggi, non a
caso, le conferenze eterodosse sono piene di giovani brillanti e appassionati,
che magari hanno iniziato a studiare economia per capire cosa non funzionava
nel mondo in cui erano cresciuti, magari si sono anche ritrovati ad ascoltare
spiegazioni pacate e rassicuranti sul fatto che tutto stava andando verso il
meglio, salvo qualche frizione qua e là, e magari, fantozzianamente, hanno
anche intuito da qualche indizio che qualcosa di quelle spiegazioni non
tornava.
Lui, lo studente, è figlio di questo tempo, in cui gli
economisti critici hanno rialzato la testa. E anzi, devo dire che di questo
contesto di rinascita successivo alla crisi del 2007-08 hanno approfittato
proprio coloro che avevano fatto una scelta opposta alla mia, e che si erano dedicati
a uno studio eterodosso e di nicchia. Alle soglie della crisi del 2007-08,
questi economisti eretici emergevano come esperti preparati e ben attrezzati,
mentre io ero appena all’inizio di un processo di dismissione del camuffamento
da mainstreamer, ero ancora lontano dalla pubblicazione tardiva del mio primo
articolo di cui oggi non mi vergogno, e mi sarei presto scoperto in affannato
ritardo rispetto a diversi contributi interessanti che dal giorno della mia
laurea si erano accumulati ed evoluti mentre io guardavo da tutt’altra parte.
Il momento storico è dunque più propizio per chi si
affaccia sul mercato accademico oggi, forse. Ma forse anche no. Le università,
almeno in Italia, sono presidiate dai fanatici dell’eccellenza e della
meritocrazia, che credono di avere seppellito definitivamente il baronato sotto
un tumulo di pubblicazioni. La linea in Italia è dettata dalla Bocconi. I
dottorati in cui si insegnano teorie alternative sono estinti o disastrati,
almeno nella realtà geografica a me più vicina. Metodi quantitativi sì, ce n’è
come il prezzemolo, ma le riflessioni sui fondamenti del pensiero economico te
le devi coltivare per i fatti tuoi nei momenti dedicati al relax o alle
deiezioni quotidiane, possibilmente con la porta chiusa a chiave. E su tutto
ciò, naturalmente, incombe l’ANVUR, che dirige il traffico come un vigile
urbano. Per avere un bollino di idoneità non conta ciò che racconti agli
studenti né come lo racconti, né se per risparmiare tempo fai gli esami a quiz
e contribuisci ad allevare una generazione di laureati intellettualmente pigri
e inconsapevoli. Non conta nemmeno il contenuto di ciò che scrivi, che nessuno
peraltro legge. Conta invece il numero di pubblicazioni e la loro qualità, la
cui valutazione è affidata a un algoritmo che identifica come “migliori” le
riviste più lette, cioè in definitiva quelle che si occupano di argomenti più
alla moda, che sono decisi dalle università statunitensi più esclusive, che a
loro volta dettano la linea al mondo intero. Non stupisce che il conformismo
nel mondo accademico sia la regola, nonché la via più facile verso gli
avanzamenti di carriera.
E quindi? Adesso cosa ho da offrire come consiglio, sia a
lui che a me stesso agli albori dell’antropocene? Di primo acchito mi verrebbe
da avvisarlo: scappa! fai altro! datti alla musica, o alla fotografia, apri una
pasticceria italiana in Australia, oppure fai lo spacciatore di gas russo.
Scappa da questa battaglia tra visioni del mondo che sai già che non puoi
vincere. Fai scelte di vita che io non ho avuto il coraggio di fare. Scegliti,
insomma, combattimenti più alla portata di un umano storico, non di un umano
biblico. E poi la vita privata è un combattimento in sé, ed è tutt’altro che
facile: se aggiungessi anche la dimensione collettiva ne resteresti
schiacciato. L’individuale è politico? Davvero? Hai visto quelli che gridavano
questo slogan come sono finiti? Oggi quasi tutti sono schierati a difesa
dell’ordine contro cui combattevano da giovani, e ti danno pure del
fasciopopulista se glielo fai notare. Perciò, sii saggio, cerca la felicità
dove puoi davvero trovarla, non nel mondo che non vedremo mai.
Ma poi ci ripenso, e mi dico che in fondo al suo posto
non saprei dove andare. Manca il piano B. Non solo. Confesso che mi prende
anche l’orgoglio del combattente romantico o, meglio, donchisciottesco (ecco
l’altra mia password dei primi tempi: Quixotte), di chi cerca di tenere a galla
il Titanic trattenendolo dall’albero maestro. Mi dico che lui, il tesista, è in
condizioni di correggere la mia scelta sbagliata, di imparare dalla mia
esperienza e di partire col piede giusto. Mi dico che ha il tempo a suo favore,
per fare anche errori, ma forse meno enormi dei miei, oltre che il tempo per
leggere e studiare tutto ciò che vuole. Può scegliersi spazi di compromesso
accettabili tra la sua esigenza di ragionare sui massimi sistemi e l’esigenza
del “mercato accademico”, che richiede per lo più di dedicarsi a risolvere
esercizi di rapida soluzione. Se lo inducessi a rinunciare, farei
indirettamente spazio al passaggio, al suo posto, di un qualunque ingenuo
macinatore di scienza normale. Come potrei poi lamentarmi se l’università resta
squatterata dalle truppe di economisti cresciuti a pane, pensiero unico e
frizioni del pensiero unico? Insomma, ci vuole qualcuno che ci aiuti a spingere
il macigno di Sisifo verso l’alto, nel tentativo di non farlo rotolare
indietro. Se non lui, cioè io, cioè il mio relatore, cioè tutti coloro che sono
come noi, chi? Se non ora, cioè prima della nostra estinzione, cioè all’inizio dell’antropocene,
cioè alla fine, cioè domani, quando?
Il dialogo si è fatto effettivamente complesso, come era
inevitabile. Ci salutiamo con più perplessità di quando abbiamo iniziato a
parlare. Io esco dallo studio e dal sogno borgesiano in cui mi sono infilato, e
me ne vado a fare un giro sotto la pioggia.
Nessun commento:
Posta un commento