Non c’è pace
all’anima nostra, non c’è fossa in cui nascondere le salme. Non c’è anfratto
cerebrale in cui resti memoria della Storia, non c’è stomaco per i nostri
calici amari. Non c’è sazietà per i loro appetiti. Non c’è donna che non possa
essere denudata davanti al marito. Non c’è donna denudata che non possa essere
stuprata. Non c’è donna stuprata che non possa essere assassinata. Non c’è
marito spettatore a cui risparmiare l’orgia e poi la pallottola in testa. Non
c’è limite ai loro peni eretti e ai loro mitra puntati. Non c’è spazio per la
sofferenza, solo una densa coltre di onnipotenza diabolica, tutelata dai
velivoli dello Zar e dalle guardie dell’Ayatollah. Non c’è pianto di bambino
che possa essere sopportato, non c’è fosforo abbastanza per soffocarlo. Non ci sono abbastanza case dove
ammassare corpi pulsanti sudore freddo e lasciarli bruciare in roghi violacei. Non c’è più tempo per tutto questo, la sete di
vendetta è troppo acuta. Se non c’è più, bastano le pallottole. A centinaia, a
migliaia. Ne bastano poche per ciascuno, anche una sola.
Linee rosse,
si disse, eravamo nel 2012. Linee rosse all’uso di armi chimiche, come se le
pallottole non avessero già ammazzato. Poi arrivò Ghouta, un anno dopo, l’attacco chimico peggiore degli
ultimi venticinque anni. Linee rosse, qualcuno forse ne aveva parlato. Furia
chimica. La furia chimica non si è fermata, la
furia chimica si è confusa con quella delle bombe-barile, di quelle a grappolo
o di quelle a carica penetrante, ordinaria furia del terrore è diventata.
Né rosse, né lineari sono le rughe dei nostri visi contraffatti, cerati,
truccati, plastificati, per mostrare quello che non siamo, per illuminare
quella decenza che non abbiamo. In un’immensa
battaglia hollywoodiana, tentando di convincerci che non fosse vera, che fosse
solo rappresentata, orchestrata, simulata. Battaglia vera è, di corpi
putrefatti a fianco delle macerie, trapassati da frammenti metallici,
soffocati da gas velenosi, fucilati da mercenari senza scrupoli, spezzati da
torturatori, cancellati alla vista da galere nascoste, ignorati dalla
propaganda. Propaganda, negazione della realtà. È
un’arma straordinaria, che giunge sui nostri aggeggi telefonici, per dirci che
la città è stata liberata dai banditi, dai terroristi, dagli uomini armati, dai
ribelli. «Ribelli, facinorosi, destabilizzatori, agenti del
disordine pubblico, meritate la morte». Un solo presidente vale, e sta seduto
sul suo scranno ricevendo notizie sulla pulizia della città, mentre gli
lucidano le scarpe di pelle da mille e settecento dollari. A Damasco, a Mosca,
a New York, poco importa. I migliori scarpai sono disponibili dovunque esali il
profumo asciutto della banconota stampata.
Sono stato
recentemente a visitare il museo della Resistenza di Valibona, sui monti della
Calvana, a pochi chilometri da Prato e Firenze. Quella casa venne assalita
dalle forze dell’ordine del regime fascista e la banda di partigiani che
operava nell’area debellata. Fu un agguato, che ebbe luogo il 3 gennaio 1944. I
giornali dell’epoca sono esemplari: «Bande di ribelli annientate da reparti
della Guardia repubblicana», «L’azione contro i banditi sulle pendici di Monte
Morello», «Energica azione di polizia contro una banda di ribelli» sono alcuni
dei titoli. Usando il termine ribelli facciamo
quello che già i servili giornalisti dell’epoca facevano scrivendo sulla stampa
quotidiana. Opporsi a fascismo e oppressione dà più fastidio che
accomodarvisi. Il museo sta tra i boschi, una radura la circonda per tre quarti
del suo perimetro, e l’aria fresca che scende dal passo ti penetra le narici,
ti sveglia e calma allo stesso tempo. Quella non è l’aria che si respira nelle
indomite città siriane.
L’aria di
quelle città ti intontisce e ti angoscia, è come un anestetico che ti
elettrizza i nervi, fino a farti divorare dall’ansia. «Meglio morire in un bombardamento che
essere ferito. Meglio morire in un bombardamento che attendere l’arrivo delle
milizie della morte» hanno scritto dai quartieri assediati pochi giorni fa.
È un’eternità, è come se fosse già passata un’eternità. Ma ce ne ricorderemo?
Ce ne vergogneremo? Onoreremo quella
migliore gioventù morta perché voleva la libertà e la democrazia, ed aveva
osato resistere all’uomo dalle scarpe di pelle da mille e settecento dollari? Lo
faremo anche se erano musulmani, anche se erano arabi? Lo faremo anche se,
per aver resistito, hanno innervosito famiglie reali, dinastie autoritarie e
uomini soli al comando? Lo faremo anche se, per aver
resistito, hanno dovuto accettare che amici, parenti o famigliari scappassero,
provocando il peggior esodo di fuggiaschi e rifugiati dal Dopoguerra ad oggi? No, purtroppo, non lo faremo. Stiamo
ancora litigando sui numeri dell’accoglienza. Stiamo interrogandoci su chi
avesse ragione, stiamo maledicendo i «terroristi» senza
interrogarci su chi e perché, stiamo sperando che anche quella migliore
gioventù sia finalmente ridotta al silenzio. Per sempre. E che la calma fredda
dell’oppressione umana regni tra noi. Stabilità. Fredda e oppressiva vacuità
morale. Così sia. E i galli e i pappagalli della politica fatta di muscoli e
pallottole riprenderanno a vomitare falsità e lodi all’ordine e alla nazione. I putiniani si ubriacheranno, i
trumpisti si esalteranno, gli assadisti si camufferanno, gli anti-imperialisti
giustificheranno, i pacifisti si distrarranno, i nazionalisti bestemmieranno, i
cretini si moltiplicheranno, gli altri subiranno.
Non c’è pace
all’anima nostra, non c’è fossa in cui nascondere le salme. Non c’è anfratto
cerebrale in cui resti memoria della Storia, non c’è stomaco per i nostri
calici amari. Opachi erano i
colori di Aleppo, quando vi arrivai nel febbraio del 2013. Polverose le tende
che nascondevano balconi silenziosi, scuri gli indumenti dei combattenti,
annerite con la polvere al-Kohl le ciglia di alcuni di loro,
neri gli occhi della gente. Neri paltò e velo delle donne, che camminavano da
un negozio all’altro prima della caduta del sole; la pelle diafana del loro
viso appariva ancora più luminosa in quella cornice.Centinaia di piccoli
sacchetti di plastica nera o di sudicio aspetto emanavano un odore puzzolente e
velenoso, quasi fosse una bile di rabbia, perché l’umido inverno li faceva
morire di agonia, tra segnali di fumo che né fanno fiamme, né si estinguono,
sotto il cavalcavia che nessuno prendeva più a causa degli snipers. Ricoperte di finta pelle nera erano le pareti
imbottite dell’ufficio di un’attivista, che raccoglieva prove documentarie
degli eccidi di regime. Tenebrosa era la notte, scura come dovrebbe essere,
dove i soli frammenti di luce che incrociavi provenivano dalle torce, a meno
che non ti volessi avventurare sulla linea del fronte, situata tra un isolato e
l’altro; là, avresti visto la luce delle sigarette accese e quella dei colpi di
arma da fuoco. E Black Eyes era il soprannome
di uno dei ragazzi che avevo incontrato.
Aveva 21
anni e aveva aderito all’Esercito libero dopo che le autorità avevano perso la
pazienza con ragazzi come lui, che continuavano a dimostrare per la libertà e
la caduta del regime. «Allah, Siria, libertà e basta!» cantavano, parafrasando
il monito delle brigate del partito Baʿth, «Allah, Siria, Bashār e basta!».
Camminava per le vie del quartiere al-Mashhad con una pistola alla cintura. «Ho
perso dieci tra i miei migliori amici, sei durante le manifestazioni pacifiche
e quattro in battaglia», spiegava, mentre sedavamo sul bordo di un marciapiede
grigio, di fronte a un edificio sventrato da un colpo di cannone. All’inizio della rivoluzione, si
riunivano spostandosi improvvisamente di luogo per non essere pedinati.Cambiava
il suo indirizzo email ogni mese. Usavano un
cellulare il cui numero era registrato sotto il nome di qualcuno non sospetto,
vicino al regime, per non essere messi sotto ascolto. Entrò nella brigata al-Khāl, «Lo zio materno», all’inizio del 2012, vi
rimase fino a quando l’Esercitò libero entrò ad Aleppo, nel mese di agosto, e
preferì uscire per dedicarsi all’informazione. Pochi
avevano un’esperienza di giornalismo online e fotografia,
mentre lui portava sempre con sé un’arma e una macchina fotografica. Black
Eyes si definiva un poeta naturale, pubblicava i suoi versi
rivoluzionari su Internet, scriveva gli slogan delle marce, ma era anche uno
studente di ingegneria. Così va la vita. Portava i capelli come un
giovane Elvis Presley, ma Elvis Presley non aveva gli occhi neri. Di lui, non
ho più avuto notizie.
Non c’è pace all’anima nostra, non ci sarà pace
all’anima nostra, per averli lasciati soli contro tutto e tutti. Contro il regime del loro
Paese, contro i jihadisti venuti da terre straniere, contro la seconda armata
più potente al mondo. Contro la nostra indifferenza, contro la nostra insofferenza,
contro la nostra ingenuità. Non c’è anfratto cerebrale in cui resti memoria
della Storia. Non c’è tempo per ricordare i lager, Srebrenica,
Grozny, Kigali, non ci sono libri di storia che raccontino delle città
bombardate nel ’45, di quelle rase al suolo dai Crociati, dai Barbari o dagli
Ittiti. Non c’è spazio nelle chips dei
nostri apparecchi elettronici per studiare e comprendere che la Storia è
ritornata, e fa paura. È ritornata, con i suoi fantasmi fascisti, i suoi
predicatori dell’odio, i suoi affaristi e mercanti di armi e propaganda, le sue
menzogne.
Aleppo è caduta, ed io ho paura. Non vale la
tristezza, non vale la rabbia, non vale la disperazione. Vale ora la paura, che
Aleppo non sia l’ultima, e che arrivi un giorno il turno di coloro che hanno
mantenuto il silenzio o creduto che la Storia non sarebbe tornata. Invece, eccola. Eccola alle nostre
porte, con i missili puntati, i dittatori sempre più convinti della loro
giustezza, i fili spinati e i bastoni contro gli stranieri, il Consiglio
di Sicurezza usato come strumento di guerra, le offensive in nome della
Civiltà.
Non c’è
stomaco per i nostri calici amari, non
siamo pronti al peggio perché non abbiamo capito cosa si sta giocando in Siria. Non
amiamo più l’Europa, non difendiamo più il diritto, non ci occupiamo del più
debole, non crediamo più che la libertà abbia un prezzo, non siamo più
disponibili a pagare un prezzo. Non
siamo forse più i figli legittimi della Resistenza antifascista, né degli
emigrati del Novecento. Non siamo forse più quello che pensavamo di
essere, mentre i nemici della libertà e del diritto sono più determinati che
mai. Tra noi, come oltre il mare e le montagne.
Aleppo è
caduta. Ancora non hanno finito di trucidare gli ultimi abitanti dei quartieri
orientali. Ancora non hanno saziato i loro appetiti. Ancora si beffano della
nostra impotenza. Ancora non hanno finito il lavoro. Ancora noi facciamo finta
di non capire.
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