L’università di Stanford ha avviato una ricerca intesa a capire quanto
i nativi digitali, che pure in rete si trovano perfettamente a loro agio, siano
effettivamente in grado di valutare correttamente l’informazione che trovano
sui social media o attraverso Google.
I risultati mostrano (cito testualmente) “una sconcertante incapacità
di ragionare sull’informazione veicolata in rete”, di distinguere la pubblicità
dalle notizie, di identificare le fonti. La ricerca si è svolta tra il gennaio
2015 e il giugno 2016 e ha coinvolto in 56 diverse prove 7.804 studenti di
dodici stati, appartenenti sia a scuole secondarie e università di modesta
qualità, sia a scuole secondarie e università eccellenti, compresa la stessa Stanford
(qui una sintesi e alcuni esempi).
Nella scuola secondaria sono state testate competenze di base, come la
capacità di analizzare la home page di un sito (per esempio, Slate): gli
studenti risultano incapaci di distinguere le notizie dai contenuti sponsorizzati,
perfino se c’è la scritta “contenuto sponsorizzato”, e riescono a identificare
la pubblicità solo se sono ben visibili il logo di un’azienda e un prezzo.
Credono che il primo risultato che trovano con Google sia “il più autorevole e
affidabile”. E ancora: si lasciano catturare dalle immagini. E dimenticano di
controllare se la fonte è attendibile, o se tra didascalia della foto e
contenuto c’è corrispondenza: ma la foto “scattata a Fukushima l’altro ieri”, è
stata davvero scattata lì, e proprio l’altro ieri?
Gli studenti universitari non controllano su Google a chi fanno capo
siti e pagine per capire se l’informazione fornita è di parte, e prendono per
buone notizie diffuse da imprese e lobbisti. Non vanno a vedere i link con le
fonti o i documenti. Su Facebook e Twitter, non distinguono tra pagine
ufficiali e verificate (Facebook le identifica con un segno di spunta
all’interno di un bollino blu) e pagine false. Non distinguono tra video
giornalistici e video di brand journalism (qui un esempio, peraltro molto
bello, di collaborazione tra il Guardian e Amazon).
In rete, gran parte degli articoli, lunghi o brevi che siano, viene
letta parzialmente
Sarebbe interessante fare la stessa ricerca in Italia. Ma temo che i
risultati non sarebbero più confortanti, in un paese che continua, secondo i
dati Ocse, ad avere un modesto grado di alfabetizzazione. E che, secondo il
recente Digital economy & society index (Desi), è al quart’ultimo posto in
Europa per alfabetizzazione digitale.
Ho anche il sospetto che la fruizione di notizie dalla rete, che è in
realtà molto più complessa della fruizione di notizie veicolate dalla tv o dai
giornali, sia in sé più ludica, più emotiva, più superficiale, più veloce.
Quindi, fatalmente, più acritica.
In rete i lettori dedicano in media 123 secondi a un articolo lungo
(long-form: più di mille parole) contro i 53 secondi medi dedicati a un
articolo breve (short-form: tra le 101 e le 999 parole). Questo dato ci dice
che sul web anche testi più complessi e argomentati hanno la loro ragion
d’essere. Ma soprattutto ci dice che gran parte degli articoli, lunghi o brevi
che siano, è letta parzialmente, considerando che un lettore esperto ha
comunque bisogno di oltre tre minuti per leggere mille parole, capendo e
ricordando qualcosa.
Se volete testare la vostra velocità di lettura, provate con questo
sito.
Vi propongo una breve digressione per guardare a un passato nemmeno
tanto remoto. Negli anni sessanta, per le persone più semplici (per esempio,
mia nonna) una notizia era sicuramente vera perché “l’aveva detto la
televisione”. Anzi, la televisiùn, perché la nonna capiva l’italiano ma parlava
solo dialetto. Per le persone più acculturate, una notizia era presumibilmente
vera perché era uscita “sui giornali”.
Oggi molti credono che una notizia sia “vera” perché (anzi: proprio
perché) “gira in rete”, e non in televisione o sui giornali. C’è un particolare
non irrilevante da considerare, però: in precedenza, nel caso di tv e giornali,
la prima responsabilità di distinguere tra vero e falso faceva capo al
giornalista e alla sua testata che, almeno secondo le regole della professione
e almeno in teoria, erano tenuti a farsene carico.
Magari le cose cambieranno, ma oggi la responsabilità di distinguere
tra vero e falso non fa certo capo a Google e a Facebook, che dicono “non è il
nostro mestiere”. The Verge scrive che “nella timeline di Facebook o nei feed
di Google tutte le storie arrivano impacchettate nella stessa maniera, si
tratti di un’inchiesta del Washington Post costata mesi di lavoro o di un
clickbait” (una pseudoinformazione sensazionalistica e acchiappaclic).
Quando non si sa come distinguere il vero dal falso, tutto potrebbe
essere vero, e tutto potrebbe essere falso
Dunque, ora anche l’onere di discriminare tra vero e falso si disintermedia
insieme alla notizia, e finisce direttamente in capo ai navigatori. Che non
sempre, e non tutti, hanno voglia, tempo e capacità di distinguere tra notizie
che, oltretutto, formalmente, si somigliano.
Se siete arrivati fin qui (e avete già letto ben 786 parole compresa
quest’ultima: bravi!) forse avete cominciato a interrogarvi sulle conseguenze
dell’incompetenza nel distinguere tra vero e falso e tra le fonti affidabili e
quelle che non lo sono.
Qui di seguito ne suggerisco alcune possibili.
Prima conseguenza. Quando non si sa come distinguere il vero dal falso,
tutto potrebbe essere vero: le persone continuano a diffondere bufale
prendendole per buone, così come hanno cominciato a fare nel (lontanissimo,
secondo i tempi della rete) anno 2000, con la storia dei gattini bonsai. Se
volete ripercorrerla passo per passo, potete farlo grazie a questo ottimo
articolo di Paolo Attivissimo.
Seconda conseguenza. Quando non si sa come distinguere il vero dal
falso, viene la tentazione di proteggersi chiudendosi in un contesto
rassicurante e privo di contraddizioni, tenendosi ben strette le proprie
narrazioni favorite, e ignorando ogni informazione contrastante. Sono le stanze
dell’eco (echo chambers) di cui parla il Washington Post. Sono le bolle di
filtraggio (filter bubble) di cui parla Wired.
Ed eccoci alla terza conseguenza: quando non si sa come distinguere il
vero dal falso, tutto potrebbe essere falso, e non resta che andare in cerca di
una verità ulteriore, vera proprio in quanto nascosta e nota solo a pochi
iniziati. Ed eccoci al complottismo, che può assumere mille forme, dalle più
comiche (l’interrogazione parlamentare sull’esistenza delle sirene) alle più
tragiche, che riguardano vaccini e malattie.
Il complottismo esorcizza la complessità del reale, rafforza il senso
di identità degli individui confermando le loro credenze pregresse e costruendo
“nemici” da combattere, offre un’illusione di controllo fondata su certezze
granitiche e ha una componente a suo modo eroica: tutto questo può essere molto
seducente, specie per le persone più disorientate.
La Repubblica suggerisce una serie di contromisure. Elenca i siti
antibufala italiani (oltre al blog di Paolo Attivissimo c’è, per esempio,
bufale.net che pubblica anche una sterminata lista nera di false testate
giornalistiche, siti di disinformazione medica, scientifica, politica, siti
complottisti e altri orrori della rete). Cita alcuni nuovi strumenti per
etichettare bufale e siti dubbi. E conclude ricordando la recente inchiesta di
BuzzFeed che “ha inchiodato il Movimento 5 stelle alla sua rete di siti
redditizi” (Grillo sul suo blog ha definito “ridicole” queste accuse e “fake
news” l’inchiesta di BuzzFeed).
Siete arrivati anche fin qui (1.159 parole), e avete anche seguito
qualche link controllando le fonti e approfondendo, e vi siete formati
un’opinione non necessariamente coincidente con quella dell’autrice
dell’articolo, ma comunque fondata su solide evidenze? Siete dei fenomeni, e
con ogni probabilità avete la dotazione di curiosità e pensiero critico oggi
indispensabili per navigare in rete. Buona fortuna, e non fatevi fregare.
Ovviamente è una bufala anche questo articolo. Considerare "ottimo" attivissimo e parlare di complottismo in termini generici e squalificanti, significa toccare il fondo dell'informazione.
RispondiEliminami chiedo perché per offendere dobbiamo sempre mettere in mezzo gli animali, povere bufali femmine...
Eliminacome per gli uragani, sempre nomi di domma, mai un Adolfo, un Benito, un Josif, un George W...