Un indipendentista sardo di sinistra dopo 29 mesi di
carcere preventivo viene assolto dai giudici ma licenziato ingiustamente
dall’azienda. Oltre al danno anche la beffa. La lotta del ferroviere Bruno
Bellomonte contro Rfi non ha precedenti nella giurisprudenza. Un caso
giudiziario che arriva fino alla revoca di una sentenza definitiva della
Cassazione
Disoccupato a vita perché accusato ingiustamente di
terrorismo. Il calvario giudiziario di un innocente – conclamato – ha toccato
il picco più alto: la Corte di Cassazione. Bruno
Bellomonte, il capostazione che dopo anni di battaglia (dall’ormai
lontanissimo 2009) contro una incredibile accusa di terrorismo dalla quale è
stato assolto in
ogni grado ma che gli è costata 29 mesi di carcere duro e il licenziamento, è
stato beffato anche dalla sezione lavoro della suprema Corte.
Ora per ottenere giustizia è arrivato a dover chiedere
la revocazione di una sentenza della stessa Corte: una pratica estrema accaduta
pochissime volte nella storia della giustizia italiana. Si tratta di un atto
straordinario. La revocazione infatti va rivolta allo stesso giudice che ha
pronunciato la sentenza impugnata.
Un dubbio è più che legittimo: l’errore materiale è
avvenuto contro un semplice lavoratore, sarebbe accaduto lo stesso se al suo
posto ci fosse stato un potente?
LA SENTENZA È STATA depositata il 30 settembre e faceva diventare
definitiva – prima della revocazione – una sentenza della Corte di Appello di
Roma che aveva negato la reintegrazione sul posto di lavoro di Bellomonte
riconosciuta invece da due precedenti sentenze del tribunale del lavoro di
Roma, che avevano rilevato come il licenziamento fosse diretta conseguenza
della ingiusta detenzione.
«Per 29 mesi questo uomo è stato incarcerato
ingiustamente. A una persona innocente cui è stata applicata una ingiusta pena
detentiva non si può dare come ulteriore sanzione la disoccupazione per
sempre», sintetizza Pier Luigi Panici, l’avvocato del lavoro che segue
Bellomonte dal 2010 nella lotta per riavere il suo legittimo posto di lavoro,
perso per una inchiesta dagli esiti allucinanti, a partire dall’arresto
effettuato dalla Digos di Roma il 10 giugno 2009 per l’accusa di terrorismo,
poi rivelatasi infondata.
QUELLO CHE SIA la Corte d’appello del tribunale del lavoro che
la Cassazione non hanno considerato è una legge dello Stato: si tratta della
332 del 1995 in cui è stato modificato l’articolo 102 bis del codice di procedura
penale: «Chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in
carcere (…) e sia stato per ciò stesso licenziato (…) ha diritto di essere
reintegrato nel posto di lavoro medesimo qualora venga pronunciata in suo
favore sentenza di assoluzione».
Il caso di Bellomonte è comunque assolutamente
straordinario, «l’unico noto agli annali della giurisprudenza», sottolinea nel
suo ricorso l’avvocato Panici. Rfi ha sempre rifiutato l’idea di reintegrare
Bellomonte considerato in buona sostanza un lavoratore rompiscatole perché
sindacalizzato. Tanto da arrivare a sostenere «deduzioni irridenti» come quella
contro la richiesta di risarcimento con la motivazione che «il ricorrente non
si è attivato per cercare un altro posto di lavoro»: è obiettivamente difficile
cercare lavoro mentre si è in carcere.
Nei vari gradi di giudizio Rfi ha sostenuto in modo
diverso la motivazione per il licenziamento. In alcuni casi ha cercato
addirittura di sostenere che era stato deciso per giustificato motivo, dovuto
all’assenteismo del lavoratore: ma Bellomonte non poteva essere al lavoro
semplicemente perché era detenuto in carcere.
L’ASSOLUZIONE PER IL REATO di terrorismo è arrivata il 22
novembre 2011: in tutti e tre i gradi di giudizio – i pubblici ministeri hanno
fatto ricorso per altri imputati – Bellomonte è stato assolto perché il fatto
non sussiste. Per questo, a seguito di una ordinanza d’urgenza, poi confermata
con sentenza di primo grado del tribunale di Roma, fu reintegrato da Rfi il 30
aprile 2012.
Ma, paradossalmente, è stato proprio il nuovo ricorso
di Bellomonte sul pagamento delle retribuzioni successive alla scarcerazione
(quattro mensilità più il Tfr), e la sua correttezza nel precisare di essere
stato già «reintegrato» a generare l’errore della Corte d’Appello avallato poi
dalla Cassazione – qui l’errore di fatto per cui si chiede la revocazione – che
hanno scambiato la reintegrazione disposta dal Giudice di primo grado,
spettante a seguito della illegittima carcerazione (art. 102bis), con
l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che disciplina la
reintegrazione solo a seguito di licenziamento illegittimo. In questo caso il
licenziamento era «giustificato» mentre è la mancata reintegrazione a essere
illegittima.
A QUESTA INCREDIBILE vertenza se ne intreccia un’altra, derivante da una vecchia accusa risalente al 2005 relativa a una intercettazione ambientale effettuata in Sardegna, peraltro già smontata dal Tribunale della libertà, poiché – semplicemente – veniva dimostrata la sua totale estraneità ai fatti in quanto lui era in vacanza all’estero.
Comunque per «Arcadia» , questo il nome dell’inchiesta
infinita, con cui il pm di Cagliari Paolo De Angelis sta da anni portando
avanti l’ipotesi di associazione sovversiva da parte dei movimenti sardi per
l’indipendenza, Bellomonte nel 2006 era stato già incarcerato per 19 giorni e
anche sospeso dal lavoro per due mesi. Nel 2014, il rinvio a giudizio ha
consentito a Rfi di sospenderlo nuovamente senza stipendio fino alla fine del
processo, ragionevolmente prevista tra una decina d’anni, ovvero a tempo
indeterminato.
In questo incubo di giustizia negata nel quale si
accavallano due lunghissimi procedimenti penali legati ad altrettante cause di
lavoro, Bellomonte è stato privato di qualsiasi entrata economica che non fosse
l’aiuto della Cassa di resistenza organizzata dai suoi compagni ferrovieri,
esempio pratico e diretto da antica data di solidarietà fra lavoratori,che gli
hanno permesso di tirare avanti nella sua amata «Sardigna».
PARALLELAMENTE all’allucinante vicenda giudiziaria penale e
lavorativa ne corre un’altra altrettanto beffarda e perfida. È la richiesta di
danni per ingiusta carcerazione che Bellomonte con il suo avvocato penale
Simonetta Crisci ha presentato lo scorso dicembre. Per ogni giorno passato in
carcere Bruno ha diritto a essere risarcito.
Ma la legislazione è stata cambiata recentemente
rendendola molto stringente: prevede ora che per accordare il risarcimento
serve che sia provata la colpa del giudice e in più quando si tratta di
richiesta da parte di sospetti per reati politici la possibilità che il ricorso
sia accolto è molto bassa. «Io per lo Stato sono ancora un “sospetto” perché
continuo ad essere un indipendentista ideologicamente di sinistra e quindi
probabilmente non mi riconosceranno un euro.
Detto questo però non smetto certo di fare politica:
dopo lo scioglimento di “A’Manca pro s’indipendentzia” (“A sinistra per
l’indipendenza”, ndr) abbiamo fondato Libe.r.u. che vuol dire “Liberos
rispetados uguales” e che rappresenta l’organizzazione della sinistra
indipendentista in Sardigna».
LA VITA DI BRUNO È segnata, specie dall’angina e dall’operazione
subita al cuore dopo la scarcerazione. Non così la sua voglia di lottare,
nonostante un elenco di torti subiti lungo una Quaresima. «Io non mollo – dice
convinto – se in Cassazione daranno ragione ai miei datori di lavoro non
colpiranno solo Bellomonte, colpiscono i lavoratori, la classe operaia che deve
solo stare zitta e subire. Nonostante tutto, mi auguro ancora che l’errore su
di me venga riconosciuto e la legge rispettata, anche da una azienda potente
come Rfi. Il vento è cambiato in fabbrica e in tutti i luoghi di lavoro, anche
i tribunali non fanno eccezione. A noi non solo spetta resistere ma difendere
quanto, negli anni passati, chi ha combattuto e non si è arreso ci ha lasciato.
Al di là del risultato, la revocazione è dovuta: chi lotta non perde mai»,
conclude orgoglioso.
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