Discorso tratto dalla
Conferenza annuale dell’Associazione delle facoltà di Psicoterapia tenutasi
all’Università di Surrey nel Novembre 1999 - David Smail
Inizierò con l’elencarvi una lista di qualità caratteriali.
L’essere gentile, sensibile, intelligente, conoscere l’arte e le discipline
classiche,l’essere intuitivamente percettivo, d’appoggio agli altri senza
risultare invadente, premuroso più che loquace, attraente, fedele, amante dei
bambini, saper pulire e cucinare bene.
Potreste averci messo un po’ a rendervi conto, sentendovi quasi offesi, che
ciò che sto cercando di definire non sono le qualità di un buon terapista, ma
quelle di una buona moglie.
Quindi, a parte la natura delle caratteristiche sopraelencate (per non
parlare di come appaia politicamente scorretto), ciò che rende particolarmente
offensivo ed arrogante il definire con esattezza "una buona moglie",
è l’ipotesi radicata che tutte le donne abbiano bisogno di ispirarsi ad un
particolare ruolo "stereotipato", come se esistesse davvero un solo
modo per essere una brava moglie.
Scommetto che la maggior parte delle persone che considerano inaccettabile
il fatto che si elenchino determinate qualità per definire una buona moglie,
considererebbe più normale fare una lista delle caratteristiche che un
"buon terapista" dovrebbe avere.
Per come la vedo io, l’unica ragione potrebbe essere che in fondo alla
nostra mente esiste l’idea che ci sia realmente un solo modello di buon
terapista, o comunque una serie di caratteristiche in grado di definire, come
viene orribilmente chiamata oggigiorno, la "perfezione " della
psicoterapia.
Ho infatti il sospetto che questa idea sia davvero radicata nella nostra
concezione di psicoterapia.
Quando ripenso ai pazienti di cui mi sono occupato finora però, tale concetto
non sembra essere confermato dall’esperienza. Non solo non sono stato in grado
di aiutare tutti coloro che ho avuto in cura (cosa che, mi rendo conto, non può
che dimostrare che non sono un buon terapista); ma ho anche incontrato molti
pazienti che sono stati senza dubbio aiutati da terapisti piuttosto diversi tra
loro.
E’ vero che ho più o meno un’idea del tipo di terapista al quale vorrei
rivolgermi in caso di necessità, e suppongo che le caratteristiche che citerei
coinciderebbero con quelle che elencherebbero molti altri (ma non tutti)
terapisti di professione.
Mi sembra molto probabile però, che si tratti di un fenomeno che avviene
tra "persone del nostro campo": vorremmo essere visti da gente che
rappresenti ciò che ci piace pensare di essere.
Invece, ripensando a tutti quelli che ho incontrato nel corso della mia
esperienza, mi rendo conto che molti di loro sono stati aiutati da terapisti
completamente diversi da me e da come vorrei essere. Ricordo pazienti
estremamente riconoscenti e soddisfatti dopo essere stati assistiti da
terapisti che invece a me erano sembrati : arrogantemente intransigenti;
direttivi e sicuri di loro stessi; talmente smielati e sentimentali da rendersi
noiosi; eccessivamente religiosi; completamente immersi in chissà quali impenetrabili
sistemi magici; così sempliciotti e pieni di luoghi comuni da risultare più che
banali.
Certo voi potreste pensare che "psicoterapisti" non sia il
termine esatto per definire tipi del genere, e suppongo che, tecnicamente,
potreste anche avere ragione. Fatto sta che, almeno nei casi che mi vengono in
mente, l’aiuto fornito da questi personaggi si è rivelato a quanto pare
essenziale, o per lo meno tanto determinante e duraturo quanto quello ottenuto
usando approcci psicoterapeutici più convenzionali.
L’unica maniera, quindi, che ci darebbe modo di definire, se non un singolo
tipo di " buon terapista", almeno una gamma limitata di essi,
esisterebbe solo nel caso in cui la psicoterapia consistesse in una procedura
tecnica con obiettivi ben precisi e strumenti chiari per raggiungerli.
Naturalmente molti terapisti affermano che la psicoterapia sia proprio
questo, ed anche la maggior parte di quelli che non lo pensano si comporta come
se lo fosse: dopotutto esistono corsi universitari, programmi di accreditamento,
registri, ecc., tutte cose che dimostrano che in realtà esistono canoni per
definire una buona psicoterapia.
In questo caso comunque ci si concentra più sulla procedura che su chi la
porta avanti. Malgrado la considerevole prova( da considerarsi l’unica
convincente) che siano le capacità dei terapisti e non la tecnica terapeutica
che portano ai miglioramenti riscontrati in questo campo, si continuano a
selezionare candidati che provengono da scuole particolari o che hanno studiato
un certo tipo di terapia e si continua a difendere la loro qualità tentando di
imprimerla, con una violenza completamente inspiegabile, sul terreno della
validità dimostrabile.
È comprensibile che, visti i presupposti, qualsiasi imparziale osservatore
del nostro operato, penserebbe che la psicoterapia sia una procedura tecnica
(quasi medica), e che chi la pratica possa farlo in modo più o meno
intercambiabile con i colleghi.
Ecco perciò, la visione che la gente comune, sotto l’influenza dei
mass-media, ha della psicoterapia.
Nelle associazioni che formiamo, nei corsi di preparazione che
organizziamo, i registri che proponiamo, gli elaborati e le ricerche che
conduciamo, è presente in maniera opprimente il considerare la psicoterapia
come una tecnica professionale che guida i nostri pensieri e le nostre azioni.
Tuttavia ho il sospetto che nel più profondo della nostra mente, cioè
quella parte che viene fuori durante le chiacchierate informali al bar e così
via ( normalmente chiamata paraprassia professionale), siamo consapevoli del
fatto che la psicoterapia non è questo, e che tra terapista e paziente si
instaura un rapporto più personale che tecnico.
Quindi perché rimaniamo così tenacemente aggrappati ad un’idea di
psicoterapia che non solo viene smentita dalla nostra esperienza lavorativa ma
che non è neanche avvalorata dalla maggior parte dei testi scientifici che
trattano l’argomento?
La breve ma inevitabile risposta è che lo facciamo nel nostro interesse. O
meglio nell’interesse di chi vuole guadagnarsi da vivere praticando la
psicoterapia creandosi un quadro di accreditamento professionale ; è
nell’interesse dei potenziali destinatari dei nostri servizi, per mettergli a
disposizione un modo per rendere più semplice il loro cammino verso un
alleggerimento del loro dolore; è nell’interesse di quelli che si trovano
all’interno del mercato accademico e che desiderano crearsi una stimabile
reputazione di "scienziato in buona fede" per essere conforme ai
modelli convenzionali di ricerca che utilizzano variabili oggettivamente misurabili.
E’ inoltre nell’interesse di una società che causa danni immensi a gran
parte della popolazione per poi presentare quei danni come la conseguenza di
un’aberrazione psicologica fondamentalmente individuale, curabile a priori
attraverso un intervento terapeutico.
A me sembra per lo più che noi siamo, se non ciechi, estremamente confusi
riguardo al ruolo di interesse non solo nella nostra motivazione personale,
bensì nel nostro comprendere la motivazione in genere.
A questo riguardo non posso astenermi dal fare una piccola divagazione
riguardante il ruolo di interesse nelle origini della nostra disciplina.
In questo farò ampio riferimento ad un testo che scrissi qualche anno fa.
Appena lessi le lettere di Freud a Wilhem Fliess, mi colpì il modo in cui
rivelavano l’urgenza che Freud aveva di inventare delle cure praticabili, che
gli avrebbero permesso di guadagnarsi da vivere.
Sembra quindi ( anche troppo chiaramente ), che ciò con cui abbiamo a che
fare in questo caso non sia l’immagine di un uomo dedito alla scienza che mira
alla verità qualunque sia il costo personale ( cioè un vero mito del
diciannovesimo secolo ), ma, per passare all’orribile gergo del business
moderno, quella di un uomo con idee innovatrici che cerca un posto sul mercato
dove inserirle.
Se i suoi pazienti erano motivati da impulsi o desideri sessuali, Freud
sembrava invece spinto più dal bisogno, a noi tutti molto noto, di
"restare a galla" dal punto di vista finanziario.
Lasciate che ve lo dimostri.
Le seguenti citazioni tratte dalle lettere di Freud a Fliess sono state
scelte perché particolarmente commoventi; anche nelle altre comunque ci sono
esempi che mostrano la preoccupazione ansiosa di Freud riguardo al fatto di
guadagnarsi da vivere.
Nella lettera del 2,11,1896, ad esempio, Freud esprime timore riguardante
"la sua situazione lavorativa in quell’anno dalla quale dipende
costantemente il suo umore ….
Dal 6.12.1896, le cose migliorano in qualche modo, " dopo aver goduto
pienamente del lavoro e dei guadagni di cui ho bisogno per il mio benessere (dieci
ore e cento fiorini )…"
Un paio di mesi dopo, la situazione si fa ancora più promettente (8.2.1897
):
Al momento ho in cura dieci pazienti, uno dei quali proveniente da
Budapest; dovrebbe arrivarne un altro da Breslau. E’ probabilmente un’ora di
lavoro in più, ma mi sento al massimo proprio quando lavoro tanto.
La settimana scorsa, ad esempio, ho guadagnato 700 fiorini, non li ottieni
non facendo nulla. Diventare ricchi deve essere davvero difficile.
In una delle lettere più interessanti della raccolta, quella in cui Freud
annuncia a Fliess l’inizio del cambiamento della sua teoria sulla neurosi dalla
seduzione alla fantasia (21.9.1897), è ricorrente il tema dell’insicurezza
finanziaria che si muove a pari passo con le sue ragioni di abbandonare alcune
delle sue precedenti affermazioni (es. quei padri potrebbero essere coinvolti
in " diffuse perversioni " ).
La lettera inizia con l'osservazione di Freud sul fatto che "…è
impoverito, al momento non ha lavoro", ed in seguito ammette : " la
speranza di un successo eterno era così bella, come era bella quella di
ricchezza duratura, di completa indipendenza, di viaggi, di riuscire ad
alleviare i dolorosi problemi dei bambini, quegli stessi problemi che a suo
tempo mi privarono della mia giovinezza."
Verso la fine della lettera poi, scrive con una nota di rimpianto: " è
un peccato che non ci si possa guadagnare da vivere…. con l'interpretazione dei
sogni!".
Probabilmente ancora più rivelatoria è la confessione che, tra le altre
cose, svela l'abitudine di Freud di utilizzare il termine "pesce
rosso" riferendosi ai pazienti ricchi.
Possiamo trovarla nella lettera a Fliess datata 21.9.1899:
"Una paziente con la quale ho trattato, un "pesce rosso", si
è appena fatta annunciare; non so se accettare di prenderla in cura o meno. Il
mio umore dipende anche fortemente dai miei guadagni. Il denaro è il mio
"carburante del buon umore". Da giovane ho imparato che i cavalli
selvaggi della pampas, una volta presi al laccio conservano una sorta di inquietudine
per il resto della vita.
Allo stesso modo io, dopo aver conosciuto l'impotenza dell'essere povero,
la temo continuamente.
Vedrai che se questa città mi fornirà un ampio sostegno il mio stile
migliorerà e le mie idee risulteranno più corrette".
Sebbene ci troviamo tutti costantemente di fronte al rapporto complesso e
conflittuale tra verità ed interesse personale, sembra esserci, allo stesso
tempo, un'atmosfera di confusione totale attorno ad essi.
Oserei definirla quasi un'atmosfera di repressione. Ci vergogniamo del
nostro interesse personale e cerchiamo di nasconderlo dietro a proteste di
diversa motivazione (es., la ricerca della verità).
Non ammettiamo pubblicamente il nostro interesse, ma lo camuffiamo con
mezzi retorici che alla fine ci distolgono dal significato delle nostre azioni
(chiaramente questo non è il caso di tutti).
E' divenuta però un'arte intenzionale della distorsione della verità per
interesse personale, praticata da persone che se ne intendono.
Si tratta naturalmente dell'arte del "raggirare", un'arte che, in
maniera complessa, viene minuziosamente analizzata, quasi ammirata, sebbene
lasciamo che ci inganni.
Nell'epoca moderna, ma probabilmente è sempre stato così, la verità è
schiava dell'interesse. Difatti, nella cosiddetta epoca post-moderna, la
distinzione tra verità ed interesse viene obliterata :la verità diviene un
concetto del tutto pragmatico, e la conoscenza indistinguibile dal potere.
Comunque, ho il forte sospetto che questo sviluppo non sia altro che un
comodo "gioco di prestigio intellettuale", che aiuta a legittimare la
trasformazione di qualsiasi angolo del mercato in cui ci si trovi nel più
grosso potenziale da sfruttare al massimo.
In conclusione, allentare il freno delle operazioni di interesse annienta
la nostra capacità di comprendere ciò che facciamo.
Nel caso della psicoterapia, il desiderio incondizionato di perseguire
l'interesse professionale, l’ossessione di avvalorare le nostre credenziali e
di perfezionare una retorica di credibilità ,ci ha spinto in un vicolo cieco
nel quale non riusciamo più ad individuare le reali caratteristiche della
nostra impresa.
Infatti, il motivo per il quale non abbiamo una vaga idea di cosa
caratterizzi una buona psicoterapia non è che il quesito non abbia soluzione,
ma che ci rifiutiamo fermamente di porlo nel modo appropriato.
Insistiamo sul fatto che ci siano soltanto determinati tipi di risposte, ad
esempio quelle conformi alla nostra nozione di psicoterapia come tecnica più o
meno medica da apprendere.
Appena percepiamo le risposte che cominciano a prendere forma nella nostra
attività, ci facciamo prendere dal panico ed indietreggiamo rifiutandoci di
accettarle.
Quelle risposte ci mostrano chiaramente che la psicoterapia non è più
efficace di qualsiasi altro approccio ai disturbi emotivi; che la tecnica non
ha niente a che fare con i successi che si ottengono con la psicoterapia; che
le caratteristiche personali del terapista sono più importanti, per ottenere
risultati positivi, di qualsiasi fedeltà teorica; e che la formazione dei
terapisti è per gran parte irrilevante visto che volontari non qualificati
ottengono spesso gli stessi risultati se non migliori.
Mi rendo conto che tutto ciò costituisce una minaccia per i nostri
interessi di categoria professionale, ma solleva anche domande piuttosto
interessanti sulla natura di un impegno che pensiamo, in seguito alla nostra
esperienza, abbia un certo valore.
Il nostro problema è che ci siamo preoccupati più di precisare le
caratteristiche di una buona psicoterapia che di riconoscerle. Nel primo caso
ci si concentra sulle tecniche, nel secondo sulle persone. Anche l'approccio
Rogeriano, che iniziò con il riconoscere l'importanza delle qualità personali,
cadde molto presto nella trappola del voler fare diventare ciò una tecnica attraverso
procedure di formazione.
Piuttosto che semplici qualità da identificare, il calore umano e la
compassione divennero materia di fabbricazione. La psicoterapia, come
sicuramente, in fondo ai nostri cuori tutti sappiamo, non è una procedura
tecnica come, ad esempio, l'odontoiatria, che può essere portata avanti in
maniera intercambiabile da persone che sono state formate fino a raggiungere un
livello di competenza accettabile.
Come il matrimonio, ad esempio, la sfera in cui si colloca la psicoterapia
è molto più personale e razionale. I successi ottenuti dipendono non solo dalle
qualità personali di chi vi prende parte (il paziente così come lo
psicoterapista), ma anche dall’interazione tra loro. La ricerca che guarda a
questi aspetti è ancora molto scarsa, se la si paragona alla ricerca spietata
di effetti ricorsivi di variabili misurabili quali l’orientamento del
terapista, la lunghezza del trattamento, ecc. Infatti, abbiamo appena iniziato
a porre quesiti interessanti riguardo a ciò che occorre per una
"buona" psicoterapia, ed anche qui, comunque, è molto discutibile
affermare se questo tipo di domande possano essere proiettate in termini di
ricerca convenzionale più di quanto non si possa fare con quelle che riguardano
ciò che occorre per un "buon" matrimonio.
Vedremo che esistono, ad esempio, diversi tipi di psicoterapia.
Se alcuni individui risultano per così dire "più portati" nella
psicoterapia, di altri (questione che abbiamo completamente evitato di
trattare), ciò non vuol dire che sia possibile emulare le loro capacità
personali .
Siamo ossessionati dal modello della produzione ed è alquanto improbabile
che ci accontentiamo del semplice riconoscimento di "buona"
psicoterapia quando ce la troviamo davanti.
Non c’è nessuna ragione evidente per la quale debba essere così: Siamo in
grado, ad esempio, di apprezzare un buon musicista o un buon pittore senza
possedere necessariamente le loro capacità artistiche.
In tutta la letteratura riguardante la psicoterapia è molto poca, a mio
avviso, quella che illustra e che prende in seria considerazione la sua natura
personale e relazionale.
Due scrittori che trattano questi aspetti sono Peter Lomas (3) e Paul
Gordon (4).
Le lezioni che loro, come senza dubbio molti altri, devono dare, sono molto
diverse dal tipo di "paraocchi intellettuali" (e dalla cattiva fede
professionale) nei quali la retorica scientifica convenzionale ci costringe.
In contrasto con la immagine capziosa plasmata quasi esclusivamente dal
nostro interesse a sviluppare un prodotto vendibile sul mercato, ci viene
presentata una visione di psicoterapia come quintessenza dell’impegno umano
pieno di incertezza, di fragilità, nel quale un qualche tipo di cura potrebbe
emergere, forse, dal tentativo squisitamente vulnerabile di due persone che agiscono
in buona fede, per quanto sia loro possibile.
Queste non sono sicuramente le basi sulle quali si può fondare una grande e
lucrativa industria.
Dal mio punto di vista, non possiamo neanche iniziare a definire una buona
psicoterapia o un buon psicoterapista se prima non rivediamo completamente il
concetto che abbiamo della psicoterapia in generale.
Tale revisione non deriva soltanto da una posizione ideologica , ma
dall’osservazione e dall’esperienza di un secolo di psicoterapia nel corso del
quale, come scrivono Hillman e Ventura, il mondo è andato peggiorando.
Mi sento di affermare che il superficiale modello di azione umana che fa
parte del pensiero della stragrande maggioranza degli psicoterapeuti
convenzionali, risulta separato e depersonificato.
Con il termine " separato ", intendo dire che i protagonisti
della terapia vengono considerati unicamente nel contesto del luogo in cui si
svolge la terapia, così che l’importanza della loro personalità e
dell’interazione tra loro viene enormemente enfatizzata in relazione alle
possenti forze sociali che li circondano.
A causa di queste influenze più estese , è improbabile che gli individui si
sentano liberi di agire semplicemente sulle basi delle idee acquisite in
terapia.
In effetti, le caratteristiche ed i repertori comportamentali che
consideriamo, in senso molto limitato, "personali" (e quindi per
principio volontariamente alterabili), sono, proprio come la lingua che
parliamo, retti da influenze socio-economiche e culturali sulle quali non abbiamo
nessun tipo di controllo, conscio o inconscio che sia.
Allo stesso modo, utilizzando l’aggettivo " depersonificato ",
intendo dire che il destinatario della psicoterapia terapia è considerato come
una incoercibile volontà in grado di cambiare il corso di importantissimi
eventi riconoscendo semplicemente l’opportunità di farlo. Si presume in tal
caso, che l’idea di poterlo fare possa creare cambiamenti di direzione
volontari attraverso un semplice processo causa-effetto ( causa mentale ed
effetto fisico ), che non spiega in nessun modo come i corpi acquisiscano e
mantengano le meccaniche di attività.
Questo concetto è frequentemente affiancato da un altro, spesso non
dichiarato, secondo il quale il solo fatto di non desiderare un determinato
pensiero, sentimento o comportamento basta a cancellarlo completamente dal
repertorio dell’individuo.
Chiaramente, la nostra struttura fisica non ci permette di agire in questa
maniera.
Non siamo in grado di eliminare le esperienze del passato stampate in noi,
così come non potremmo mai eliminare la lingua che parliamo.
L’idea che tormenta così tanto il pensiero psicoterapeutico (quella secondo
cui saremmo "responsabili" per noi stessi, in grado di
"scegliere" come essere e così via), assume livelli di indipendenza
sia dalla struttura sociale che ci circonda, sia dalle esigenze e dalle
limitazioni dei nostri corpi e non potrebbero verosimilmente essere apprezzati
da nessuno, poiché se ciò fosse vero, di fatto questo ci collocherebbe oltre
l’orizzonte di una visione scientifica del mondo in un universo di pura magia.
La psicoterapia è sì un’impresa personale e relazionale, ma si trova in un
contesto sociale che ne limita di gran lunga lo spazio per effettuare
cambiamenti.
Nel migliore dei casi, arreca conforto e coraggio a chi soffre; cose che
derivano dalla solidarietà tra due persone. Ma quanto poi quella persona
riuscirà a mettere in pratica le "lezioni" apprese una volta
terminata la relazione dipende dalla forza e dalle risorse interiori
disponibili nel contesto sociale o che sono state acquisite in passato.
Pertanto la psicoterapia non è un rimedio ai mali psicologici ed emozionali
che sono in effetti causati da complicate interazioni tra esseri umani, realtà
sociali e coscienze individuali.
E’ piuttosto una forma di aiuto, basata sull’arricchimento di un certo tipo
di solidarietà umana che mira a ciò che l’individuo può capire e su cosa può
lavorare.
Ci sono molti percorsi per arrivare ad acquisire questo tipo di aiuto che,
se riuscissimo a liberarci dei paraocchi dell’interesse, potremmo riconoscere,
sebbene non specificare.
La psicoterapia esisterà pure da un centinaio di anni, ma imparare a
riconoscere cosa occorre per una "buona " psicoterapia è un compito
che fino ad ora abbiamo soltanto cominciato.
Se mai riusciremo a farlo (come dovremmo), penso che la " marea di
fango " che la psicoterapia è divenuta si ritirerà fino a divenire una
corrente salutare e di supporto per chi ne ha bisogno.
(Tradotto
da Valentina Subacchi)