“I deboli” devono pagare di tasca propria per il
welfare molto più di quanto pagano “gli agiati”, se le loro spese per sanità e
istruzione pesano sul reddito familiare il doppio di quelle delle classi più
fortunate, la conclusione che se ne trae è che in non pochi casi lo stato
sociale italiano, invece di ridurre le disuguaglianze, rischia di aumentarle.
Il welfare: dalle promesse grilline sul reddito di cittadinanza ai piani sugli
asili nido, fino alle pensioni minime targate centrodestra. Saranno questi,
oltre al lavoro, i temi centrali su cui dovrà misurarsi il prossimo governo.
Si tratterà prima di tutto di capire che fine
farà il reddito di inserimento introdotto dagli ultimi due governi per
contrastare la povertà assoluta. Sarà rafforzato o sostituito da una misura
diversa? Si farà pagare di più alle classi più agiate? Ci sarà davvero un
reddito di cittadinanza? Nel rispondere a questi interrogativi, qualunque
futura maggioranza politica non potrà prescindere dalla constatazione di
significativi squilibri presenti nel nostro welfare, anche se quest’ultimo
resta comunque uno dei più garantisti e universali, se confrontato con quello
di molti altri Paesi. Due classi a confronto Che il welfare made in Italy, sia
pure con punti di forza notevoli, dia prove di strabismo aiutando in molti casi
le famiglie benestanti più di quelle disagiate, non è una novità assoluta. E
tuttavia quel che sorprende nell’indagine di Mbs Consulting, una delle
principali società di consulenza aziendale, che ha intervistato qualche tempo
fa oltre 2.300 famiglie, è la misura di questa amara eterogenesi dei fini. Due
classi sociali vengono messe a confronto: i “deboli” a un estremo, gli “agiati”
all’estremo opposto. I primi sono poveri o a rischio povertà, hanno un
reddito familiare medio di 13.600 euro l’anno e ovviamente non possono
risparmiare neppure un centesimo: sono il 30,6 per cento del campione, che
trasferito sull’intera popolazione italiana significa 7,7 milioni di famiglie.
I secondi hanno un reddito medio netto di 68.700 euro e sono l’8,5 per cento
delle famiglie, 2,1 milioni. Quanto spendono queste due classi per il welfare
tirando fuori i soldi dai loro portafogli? I più poveri il 19,1 per cento del
loro reddito; i più ricchi il 14,7. Insomma, proprio le famiglie più disagiate,
del tutto prive di capacità di risparmio, devono dare un quinto dei propri
guadagni per accedere a servizi sociali essenziali. Le spese basilari Se poi all’interno
di quella spesa, andiamo a vedere quanto si paga per salute, istruzione e
trasporto casa-lavoro più mensa – tre servizi difficilmente comprimibili –
allora lo scarto è ancora più marcato. Per la salute (soprattutto visite
specialistiche, servizi paramedici, occhiali da vista e dentista) le famiglie
in condizioni di debolezza pagano più del doppio di quelle agiate: il 7,8% del
proprio reddito contro il 3,4. Per l’istruzione (tasse, rette, mensa, asili
nido e didattica) il 2,7 contro l’1,3. Per il lavoro il 6,3 contro il 3,3%. Il
divario Nord-Sud Le ragioni di questa clamorosa stortura redistributiva sono in
gran parte riposte nella differente offerta pubblica di welfare al Centro-Nord,
dove è buona o dignitosa, e nel Mezzogiono, dove è spesso precaria, mediocre o
addirittura assente. Così al Sud e nelle Isole, cioè proprio lì dove si
concentrano le classi più disagiate, il 55 per cento delle famiglie è costretto
a sborsare di tasca propria le visite specialistiche (contro il 44,7 del Nord),
e quasi la metà paga gli esami diagnostici e i farmaci per malattie croniche
(contro il 20-30 delle regioni settentrionali). Questo succede quando molte
prestazioni pubbliche sono indisponibili o quando i tempi di attesa sono
intollerabili (nonostante i miglioramenti recenti): per una mammografia,
ricorda il Censis, si aspettano al Sud in media 142 giorni, per una risonanza
magnetica 111. L’assistenza ai non autosufficienti è un altro esempio di
welfare al contrario: ad accollarsi interamente il relativo costo sono quasi
tutte le famiglie disagiate (l’87,5 per cento), e solo il 63,8 di quelle
agiate. Al Sud, in particolare, emerge l’inadeguatezza dell’offerta pubblica,
con una qualità dei servizi insufficiente nel 35,7 per cento dei casi, contro
il 17,6 della media nazionale. I “rinunciatari” Ma tra i “deboli”, accanto a
coloro che per sanità, istruzione e lavoro pagano più dei ricchi, c’è un’altra
fetta, ancora più numerosa e più bisognosa, che è costretta a rinunciare a
quelle prestazioni perché il suo bilancio non glielo consente. Secondo
l’indagine di Mbs Consulting, su 100 famiglie della classe “debo-le”, 60 non si
possono permettere almeno una parte delle cure sanitarie, 58 non possono
offrire ai propri figli asili nido, corsi specifici e gite scolastiche, 50 lasciano
perdere le spese per cultura, intrattenimento e sport. Anche nell’istruzione,
dunque, la rinuncia alle prestazioni è percentualmente molto pesante tra le
famiglie più povere. Ma è soprattutto nella sanità che questo fenomeno assume
proporzioni spesso drammatiche. L’ondata di rinunce alle cure nasce dal fatto
che il nostro stato sociale chiama più che in passato i cittadini a pagare una
parte delle prestazioni di base, per esempio attraverso i ticket. E non tutte
le famiglie disagiate sono esenti. Squilibri e qualità Insomma, conclude
l’indagine, la struttura del welfare familiare risulta “profondamente
squilibrata”, e “i due principi su cui poggia il nostro stato sociale –
redistributivo e universalistico – sono contraddetti sul piano fattuale, soprattutto
in alcune aree del Paese, a causa della prolungata riduzione di risorse”,
Certo, “il sistema sanitario nazionale italiano mantiene, nel confronto
internazionale, livelli riconosciuti di qualità delle prestazioni
specialistiche e ospedaliere. Ma le difficoltà di acceso alle cure non di
urgenza e agli esami diagnostici ha distribuito tra le famiglie costi maggiori
e soprattutto non proporzionali alle capacità di spesa”. Doppia ingiustizia Si
consuma così un’ingiustizia sociale dal doppio volto. Una parte dei più deboli,
per avere i servizi essenziali, si trova a dover pagare in rapporto al proprio
scarso reddito, la quota più alta di qualunque altra classe sociale. Un’altra
parte è costretta addirittura a rinunciare a quelle prestazioni. In entrambi i
casi, per ristabilire un minimo di giustizia la prima cosa da fare è
salvaguardare il welfare pubblico, preservarlo dai tagli e soprattutto
migliorarlo al Sud. Ma servirebbe anche una politica redistributiva molto più
incisiva di quella attuale. Finora le risorse destinate dallo Stato alle classi
più indifese sono state troppo esigue per invertire lo spaventoso aumento della
povertà che si è verificato nel nostro Paese durante gli anni della recessione:
i poveri assoluti sono più che raddoppiati arrivando a 4,7 milioni, per poi
stabilizzarsi a partire dal 2015. Ma sul versante delle risorse, soltanto
adesso cominciano ad arrivare flussi significativi: 2 miliardi nel 2018, 2,5
nel 2019 e 2,7 nel 2020, grazie soprattutto al reddito di inclusione, entrato
da poco in funzione e alle altre misure previste. Difficile redistribuzione Nel
suo ultimo rapporto annuale, l’Istat dice che durante la recessione lo Stato,
malgrado abbia cercato di aiutare le categorie più colpite dalla crisi, non lo
ha fatto sufficientemente, non è riuscito cioè a “contrapporsi alle forze di
mercato”. Così alla fine la capacità di redistribuire i redditi è risultata da
noi “tra le più basse in Europa”. Tra il 2007 e il 2014 ad essere penalizzata è
stata proprio la classe più debole e in gran parte giovane, mentre una
protezione maggiore è stata data alle classi medie e medio- basse di
pensionati. Molto è cambiato dopo il 2014, dice l’Istat. Le politiche di
redistribuzione (con il bonus di 80 euro, la quattordicesima ai pensionati e il
primo sostegno di inclusione per i poveri), hanno avuto un impatto
indubbiamente positivo sull’aumento del reddito disponibile dei più deboli. Ma
non basta ancora. Bisognerà vedere se e in che misura il reddito di inserimento
contro la povertà assoluta (ammesso che sia conservato dalla futura compagine
governativa) riuscirà a rendere il nostro welfare un po’ meno strabico.
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