Quando
giunse il momento terribile delle leggi antisemite, le comunità costituite
dalle classi si divisero in due. Come i segni dell'angelo dell'Egitto,
brillavano le stelle sulle nostre ragazze non cristiane.
Non avevamo
fatto noi la legge, ma assistemmo noi alla sua attuazione, e fummo noi a
vergognarcene. Faragó, l'intelligente Faragó, che sapeva l'ungherese meglio di
tutte, si preparò alla maturità in uniforme stellata. Le istruzioni erano
univoche, e, pur non dicendolo apertamente, suggerivano che chi era già
calpestato doveva sentire anche nel settore più irrilevante della sua vita che
il Paese non aveva bisogno di lui. Ero giovane, adesso ormai so quanto
terribilmente lo fossi, all'epoca invece mi sentivo più vecchia di Matusalemme:
avevo giusto sei anni più della classe delle maturande. Volevo aiutare in tutti
i modi Faragó, le assegnai come tema dell'interrogazione della maturità la
poesia patriottica ungherese. Con la ragione di oggi mi rendo conto che non avrei
potuto nuocerle più di così, poverina, ma dal momento che ero convintissima di
lanciare alla poveretta l'unica vera corda alla quale lei potesse aggrapparsi,
il suo tema della maturità era un messaggio, l'attestazione del fatto che era
ungherese, che non pensasse affatto di essere altro, di essere estranea al
corpo della nazione, che credesse a coloro che dai versi parlavano a lei.
Rispose in maniera incantevole, rossa come un peperone, ancora con una
coscienza nazionale che superava di gran lunga la rilevanza dell'esame, mi
ricorderò fino alla morte come recitò Himnusz e Szózat. «Non può avere la
qualifica di eccellente in ungherese» decise l'autorità superiore durante il
consiglio. Come non poteva? L'aveva sempre avuta. Ecco i suoi voti, i suoi compiti
di ungherese. «Non può essere eccellente» ripeterono, come se fossi una scema a
cui bisognava dire tutto più volte. Uscii in corridoio, Faragó era là in piedi,
la abbracciai e scoppiai a piangere. Spero che si ricordi di quelle impotenti
lacrime che le scorrevano sul collo. Spero che si ricordi solo delle lacrime, e
non del fatto che non avrei dovuto piangere. Non avrei dovuto piangere. Tutti
sono capaci di piangere. Piangere è semplice.
***
Durante la
seconda guerra mondiale io sbagliai quasi tutto, e non ho nemmeno la
giustificazione di non aver saputo quale fosse la verità, perché ne sapevo
considerevolmente di più delle persone comuni. Non avevo mezzi, contatti,
collegamenti intelligenti che avrebbero potuto guidarmi, non so alla fin fine
cosa avrei potuto fare dalla stanza in affitto di una cittadina di provincia
contro i provvedimenti dei pubblici poteri, ma sicuramente qualcosa di più del
nulla, del ribrezzo passivo, del tema di maturità di tenore provocatorio, dei
documenti di mio nonno spediti troppo tardi. Fino alla maturità io stessa
traslocai all'internato, se c'era un volo di disturbo e bisognava svegliare le
ragazze ci rannicchiavamo con loro come i conigli; lo scritto della maturità
dovemmo interromperlo due volte per gli allarmi aerei, poi finalmente l'anno
scolastico 1943-44 finì. Ciò che venne dopo diede una nuova direzione anche
alla mia vita, assieme a quella della classe. Mi trasferii a Budapest, mi
sposai, da allora tornai a Debrecen solo in visita. «Il tuo professore di
francese è morto» mi accolse una volta mia madre. Fui presa dalla vergogna.
Come potevo essermi dimenticata di lui, al pari della storia di Vercingetorige,
della gita, del suo diario di guerra! «Come?» chiesi. «In bel modo,
serenamente, come se lo meritava, visto che era una persona così buona. Una
sera non è arrivato a casa, l'hanno trovato per strada, nel grande gelo, il
viso coperto di neve». «Neve pensai, e improvvisamente vidi il prato di Bánkút,
le fiamme del fuoco da campo . È morto nella neve. Ecco, malgrado tutto,
proprio come i soldati al fronte».
Abigail sia
come romanzo sia come film per la televisione avrebbe voluto mostrare che non
esiste comunità che non viene toccata dalla guerra, e solo secondariamente
essere la raffigurazione di una scuola confessionale femminile al tempo di
Hitler. Il motivo per cui il romanzo e il film vennero scritti è ciò che nel
linguaggio tecnico del teatro viene chiamato reazione ritardata. Qualcuno si
diverte un mondo, ridacchia, poi un tale lo rimprovera, gli dà del mascalzone,
per un pezzo lui continua a sorridere, passa un po' di tempo prima che prenda
coscienza del complimento che gli è stato rivolto, dal suo viso sorridente
scompare l'allegria, con un paio di attimi di ritardo, è vero, ma alla fine ha
afferrato: gli hanno detto cosa pensano di lui. In Abigail ho scritto tutto
quello che io, che ero stata testimone e coeva, avrei dovuto fare, e invece ero
rimasta solo un'osservatrice con senso di colpa. Se è diventato un atto
d'accusa, accuso me stessa e quelli come me, se è un riconoscimento, lo è di
coloro che sostituivano i documenti, che salvarono innumerevoli Bánki,
innumerevoli Gine Vitay, che riprogrammavano le lavagne con l'elenco degli inni
da cantare, che ridipingevano le insegne, che mettevano il bavero alle statue.
Il libro l'ho scritto per i giovani, che conoscono questi anni solo come
materiale di studio, pur essendosene fatti carico sia come lettura sia come
esperienza cinematografica anche i più anziani. Mentre scrivevo, risvegliai
dalla neve alta di Debrecen il nostro professore di francese, con i suoi due
volti, con le sue esperienze che custodivano il ricordo delle morti orrende di
morti orrendi, con il suo singolare metodo educativo, nel quale nulla era
essenziale, fuorché l'impulso ad aiutare a ogni costo: lui divenne Abigail, lui
che aveva ben chiaro che l'anima non scalfita, la persona messa in salvo, la
dignità umana protetta erano più importanti delle regole. Il ricordo di due
istituti prese vita attorno alla sua figura: quello del meraviglioso complesso
scolastico che mi aveva educata e quello della scuola di Hódmezovásárhely,
avvolta dai roghi della guerra, i cui begli archi antichi avevano sostenuto una
volta il senso di colpa inestinguibile di una giovane spettatrice tutto sommato
intelligente, pronta a fare del bene, eppure impotente.
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