Riportiamo
l’ultimo capitolo del libro di Placido Cherchi, LA
SCRITTURA OLTREPASSANTE, Ernesto De Martino e le dialettiche del
“ritorno”. Cinque studi. Edizioni Kurumuny, Calimera 2013. Il capitolo
riportato riproduce un’intervista del 1990.
De Martino, Ernesto. - Storico delle
religioni ed etnologo meridionalista italiano (Napoli 1908 - Roma 1965). A lui
si devono un’interpretazione storicista delle manifestazioni religiose e alcune
innovative ricerche nel Meridione basate sull’osservazione partecipante e sul
lavoro di équipe interdisciplinari.
De Martino
cercò anche di avviare una “storiografia delle società inferiori”, che
permettesse un approfondimento della conoscenza della civiltà moderna mediante
il confronto con quelle tradizionali. Egli individua il prodursi del sacro nel
superamento dei “momenti critici dell’esistenza”, ovvero delle crisi in cui,
specie per quel che riguarda il mondo etnologico,
è minacciata la presenza stessa (intesa come centro operativo del pensare e
dell’agire umani).
Tale superamento viene operato mediante l’iterazione
rituale di un modello mitico originario, che sottrae quei momenti alla loro
storicità. Coniugando la tradizione storicista con istanze di matrice
etico-sociale marxista, l’opera di De Martino costituisce una sintesi affatto
originale nell’etnologia italiana, che ha ispirato e continua a ispirare
numerosi studiosi nei campi limitrofi della demologia, dell’etnomusicologia e
dello studio della religiosità popolare.
OPERE. Tra le sue opere sono: Naturalismo e
storicismo nell’etnologia (1941); Il mondo magico. Prolegomeni
a una storia del magismo (1948); Morte e pianto rituale nel
mondo antico (1958); Sud e magia (1959); La
terra del rimorso (1961); Furore simbolo valore (1962); La
fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi
culturali (post., 1977). Da “Istella”.
Ernesto De Martino, allievo di A. Omodeo,
fu professore di storia delle religioni nell’università di Cagliari.
Placido Cherchi, suo allievo, è lo studioso che più ha riflettuto e scritto sul
suo pensiero. Fino al libro appena uscito: Placido Cherchi, LA
SCRITTURA OLTREPASSANTE, Ernesto De Martino e le dialettiche del
“ritorno”.Cinque studi. Edizioni Kurumuny, Calimera 2013.
Placido Cherchi è nato ad Oschiri nel 1939. Ha studiato a
Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese, interessandosi
contemporaneamente di problemi etnoantropolotgici e storico-artistici. Tra i
suoi lavori possono essere segnalati: Paul Klee teorico (De
Donato, Bari 1978), Ernesto De Martino (in collaborazione con
la sorella Maria, Liguori, Napoli 1994), Il peso dell’ombra.
L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino, Liguori, Napoli
1997), Etnos e apocalisse(Zonza, Cagliari 1999), Italo
Medda: “esercizi di ammirazione” (Zonza, Cagliari 2004), Il
cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De
Martino (Aìsara, Cagliari 2010).
Intervista su Ernesto De Martino, a cura di Pietro
Angelini
Puoi raccontare del tuo incontro con Ernesto De
Martino e dei suoi anni cagliaritani? Si diceva, una volta, che il periodo
sardo sarebbe stato per l’autore del “Mondo magico» un periodo di acuto
isolamento e di lavoro poco o nulla sintonizzato con
l’universo della cultura isolana, soprattutto con quella di livcllo
etno-antropologico. In realtà, come si potrebbe desumere dal silenzio che i
suoi scritti osservano su quasi tutta quella fase, si tratta degli anni meno
noti della sua biografia e nessuna ricerca è stata fatta per ricostruire
in modo capillare l’ultima stagione della sua esistenza di studioso. Chi
gli è stato vicino durante i suoi soggiorni in Sardegna ha
probabilmente qualche elemento a disposizione per far luce su un passaggio che
i biografi lasciano un po’ nell’ombra.
Non credo di essere in grado di riempire questo vuoto
-storiografico». Altri, meglio di me, potrebbero farlo. E penso, per esempio,
a Clara Gallini, che, anche per precise incombenze istituzionali, gli è stata
più vicina di altre persone. La mia familiarità col personaggio è stata
indubbiamente insolita, ma non tale da andare oltre il tipo di familiarità che
poteva esser concessa a uno studente.
Ho incontrato De Martino qualche anno dopo il suo
approdo accademico a Cagliari e l’ho incontrato proprio nel momento in cui si
proponeva di estendere all’area sarda le ricerche sul tarantismo iniziate nel
Salento. Ho preso parte, da studente laureando, a tutta la fase di preparazione
della campagna etnografica che attuava quel progetto e, dopo un lungo
seminario di addestramento alla ricerca, ho esplorato la zona dell’alta
Ogliastra, sulla fascia centro-orientale dell’isola. Assieme ad altri
contributi, i materiali della mia indagine sono confluiti ne I
rituali dell’argia di Clara Gallini e potrei considerarli come il
primo documento della mia iniziazione demartiniana alle problematiche
etno-antropologiche.
È noto che De Martino non potè portare a compimento
quel progetto e che, a parte la supervisione teorico-metodologica che gli
competeva per obbligo istituzionale, non prese parte molto attiva alla
ricerca. Personalmente ho sempre avuto la sensazione che ne cedesse volentieri
le incombenze e i meriti alla sua bravissima assistente, ma non credo che
questo suo tenersi marginale fosse già imputabile alla malattia, che si
manifestò soltanto nell’ultimo periodo (tra la fine del ’64 e i primi mesi del
’65). Lo attribuirei piuttosto a un crescente disinteresse, già visibile
nella Terra del rimorso, per le tematiche meridionalistiche.
Il De Martino che ho conosciuto agli inizi degli anni sessanta era di fatto
già tutto immerso nell’orizzonte meditativo de La fine del
mondo e aveva sicuramente cominciato a prendere le distanze dal suo
passato di etnologo del nostro Mezzogiorno.
E d’altra parte, un’assiduità più continua ai momenti
pratici di una ricerca che fin dalle prime battute si era annunciata annosa e
orizzontalmente troppo estesa, avrebbe significato anche un’assidua permanenza
a Cagliari, città che egli non amava molto. Se si esclude la campagna dedicata
ai rituali dell’ argia, di cui resta qualche traccia nella
produzione posteriore a La terra del rimorso, De Martino
sembra non aver avuto rapporti con la Sardegna e in effetti sarebbe difficile,
basandosi soltanto sui suoi scritti, ricostruire questo capitolo secondario
della sua biografia. Di fatto, Cagliari e la Sardegna erano troppo lontane
dalle sue possibili «patrie culturali» perché potessero diventare un luogo
della coscienza e assumere quella densità di connotazioni di cui si erano
venute caricando le molte contrade del Sud toccate dal suo itinerare
etnologico.
Oltretutto non aveva mai legato con l’ambiente
accademico della Facoltà e, se si esclude un buon legame con Cases e con Del
Monte. I soli, in quel momento, ad avere una corretta percezione di valore
della sua produzione), anche con la fascia dei pendolari che stavano con lui al
]olly i rapporti erano labili ed episodici. Con Cirese, per esempio, esistevano
vecchie ruggini e si evitavano volentieri; con Pietro Rossi, che lo chiamava
-Franckenstein-, si vendicava inventando esilaranti storie sulle sue chiappe
traboccanti; con Petronio, mi è parso che si ignorassero; con Maltese, era come
se abitassero su galassie diverse. Tutto sommato, preferiva passare il suo
tempo libero con il gruppo di studenti che gravitavano attorno al suo
istituto.
Mi sembra che stesse particolarmente bene con un
terzetto di cui facevo parte (gli altri due erano Anna Baggiani, che – lui
testimone – avrebbe sposato Cesare Cases qualche anno più tardi, e Nanni
Spissu, allora laureando di Cirese e appassionato musicologo). Non saprei dire
quante volte le nostre giornate si siano chiuse attorno a del buon pesce,
offerto quasi sempre da lui, o al cinema. La nostra differenza più
importante, rispetto agli altri, è probabile consistesse nel fatto che il
nostro marxismo era un -marxismo perplesso» e nel fatto che avevamo giurato,
assieme a lui, di non comprare mai la macchina. La ballata del marxista
triste, che Anna aveva scritto per lui e che Nanni aveva musicato, era
il leit motif, graditissimo, delle nostre scorribande
in periferia o delle serate «fuori servizio» in istituto. La cantava con noi,
con grande divertimento, ma, poiché era molto stonato, gli affidavamo il basso
continuo per le nostre variazioni polifoniche.
Nella cerchia dei suoi proconsoli (proconsoli
dell’argìa erano, secondo la sua scherzosa investitura, gli
studenti-ricercatori del suo seminario) e nella cerchia leggermente più larga
dei suoi frequentatori «esterni», De Martino era un parlatore affascinante,
del tutto all’altezza della sua prosa impareggiabile, e riusciva a ritrovare in
pieno quella corrispondenza tra parola e pensiero che lo piantava in asso
invece a lezione o nelle situazioni caratterizzate dalla presenza di un
pubblico occasionale o poco sintonizzato. In verità, l’autore del Mondo
magico conosceva molto bene, e sulla propria pelle, gli effetti della
sindrome che lui aveva definito come «angoscia territoriale», e mi è sempre
parso che a Cagliari questa crisi di spaesamento fosse costantemente in agguato.
Il suo «campanile di Marcellinara» era certamente Clara Gallini, ma, in assenza
di questo centro cosmicizzante, qualcuno di noi doveva in un modo o nell’altro
rimpiazzarlo. Ricordo, per esempio, che, quando gli capitava di tornare a
Cagliari d’estate, mi telegrafava in modo perentorio, ingiungendomi di
raggiungerlo al più presto; e io, per quanto avessi casa nel «Capo di sopra”,
non mi facevo attendere: incontrarlo era sempre una festa. Se, però, passava
il mare con Vittoria De Palma, anche le lezioni diventavano brillanti e
indimenticabili.
Una situazione di ritorni estivi frequenti era stata
quella relativa alla campagna di preparazione di un itinerario coreutico per
Moisseiev, il celebre coreografo russo, che aveva mietuto trionfi in una tournée italiana
dell’anno prima, con le sue «fantasie slave», e che era in quel momento
interessato a rinnovare il proprio repertorio, ispirandosi al folklore
mediterraneo. L’agenzia romana che sponsorizzava il progetto si era rivolto a
De Martino, e De Martino ci aveva subito arruolati, me e Nanni Spissu, per
battere a tappeto l’isola, alla ricerca di gruppi disposti a ballare per
questa star del Bolscioi. Il momento più interessante di tutta
l’operazione furono le tre settimane di contatti frenetici e di spostamenti
continui, che ci portarono dal basso Campidano all’alta Gallura, con un De Martino
che parlava e parlava, meravigliosamente, tracciando una sorta di sintesi, a
puntate, della Fine del mondo. Parlava del problema delle
apocalissi culturali, dell’ethos del trascendimento, dell’etnocentrismo
critico, del destino dell’Occidente, del senso culturale della convivialità,
dell’umanesimo etnologico, ma anche della sua militanza partigiana sul fronte
del Senio, dei suoi libri, di qualche episodio della sua adolescenza …
Naturalmente parlava anche di come fosse importante offrire a Moisseiev un
materiale non deformato dalla commercializzazione turistica delle varie
“pro-loco”, Ma su questo punto, De Martino si era ingannato, complicando a
dismisura tutto il nostro lavoro. Igor Moisseiev era uomo di spettacolo,
abbastanza lontano dalle consapevolezze etnologiche che gli attribuiva il
nostro maestro (forse in omaggio alla grande etnologia sovietica), e, al
momento dell’arrivo, mostrò di gradire in modo particolare proprio quei due o
tre esempi di gruppi organizzati dagli enti provinciali del turismo, a cui,
per disperazione, avevamo dovuto ricorrere per non lasciare scoperte alcune
aree.
Quale è stata l’incidenza culturale di De
Martino nell’ambiente cagliaritano o, più in generale) sardo? Si può parlare, per
esempio. di una scuola demartiniana? Esiste, al di là della tua persona, qualche
altra figura di intellettuale che si richiami in termini non generici al senso
di questa lezione?
La permanenza di De Martino a Cagliari è stata troppo
breve perché potesse dar luogo a un seguito consistente. Peraltro, nel clima
degli anni a cavallo fra il ’50 e il ’60, non esistevano le condizioni perché
un personaggio come lui potesse essere subito riconosciuto e apprezzato. Se si
pensa che, nell’affermazione delle discipline etnoantropologiche in Italia, il
suo è stato un ruolo pionieristico, non è difficile capire il prezzo che può
aver pagato, anche qui, in termini di isolamento e marginalità, all’interno di
un mondo accademico dominato dall’umanesimo tradizionale o da forme di marxismo
ancora ferme allo zdanovismo. Agli inizi, solo pochi hanno avuto una sicura
percezione del suo valore. Ma De Martino era De Martino e sui suoi libri
cominciava a convergere l’attenzione della migliore pubblicistica nazionale.
Tuttavia, quando a Cagliari ci si è accorti che si aveva a che fare con uno dei
protagonisti della nascente antropologia italiana, era ormai troppo tardi. De
Martino sarebbe morto da lì a qualche anno. Negli anni immediatamente
successivi alla sua scomparsa, l’avvento massiccio dello strutturalismo ha
labilizzato e reso ancor più deboli le poche tracce lasciate dal suo passaggio.
Chi si è inserito nei ranghi della ricerca universitaria, in quel settore, o
militava sotto altra bandiera metodologica o non aveva forza suftìciente per
affermare una propria continuità rispetto a De Martino. Così, l’antropologia
sarda è nata soprattutto ciresiana. La generazione che usciva da un’esperienza
di tipo demartiniano o è rimasta nel limbo delle vocazioni private o ha dovuto
arrampicarsi con poca fortuna su qualche «accelerato» fuori rotta.
Per quel che ne so, più che presso gli antropologi
(del resto quasi sempre interessati solo al versante meridionalistico del suo
pensiero), De Martino ha incontrato un’attenta accoglienza presso qualche
istituto di filosofia e presso qualche psichiatra. Pare, per esempio, che
Solinas, un docente della nostra Facoltà, progettasse di dedicare un corso di
filosofia morale alla Fine del mondo e che Terzian, primario
della clinica neuropsichiatrica, intendesse utilizzare alcuni suggerimenti
demartiniani nella lettura delle forme psicopatologiche più ricorrenti nella
nostra area culturale. Al pari di ]ervis e di Risso, anche Terzian, sul filo
dell’antipsichiatria goriziana, si rendeva conto del rilievo che certe tesi di
De Martino avrebbero potuto assumere nel terreno della psichiatria. Era quello
un momento in cui si parlava con insistenza della «follia del ritorno» dilagante
tra gli ex-emigrati, e si comprende l’accoglienza che l’ottica culturalistica
di De Martino poteva acquistare agli occhi di una psichiatria non organicista.
Non ho saputo, però, se queste intenzioni abbiano avuto seguito e se si siano
tradotte in qualcosa di documentabile. In tutti i casi, mi pare sintomatico
che, in occasione del ventennale della morte di De Martino, Cagliari non abbia
sentito il bisogno di celebrarne la memoria. Il mio libro si proponeva di rompere
questo silenzio: ma, da queste parti, è stato una voce isolata.
Le indagini che Riccardo Di Donato ha recentemente
condotto sulla -preistoria- intellettuale di De Martino mettono in luce alcuni
aspetti inquietanti della sua formazione e in particolare la lunga
frequentazione che egli avrebbe avuto proprio con quelle forme di
irrazionalismo di cui si nutriva il suocero Vittorio Macchioro, archeologo
di fama, studioso dell’orfismo e cultore di metapsichica. Ora, per quel che
riguarda appunto la metapsichica, sussiste il ragionevole dubbio che De
Martino abbia continuato, anche in seguito, a mantenere con la dimensione del
paranormale un rapporto mai completamente risolto e che in buona parte la sua
produzione non se ne discosti in modo radicale, malgrado gli esorcismi a ogni
passo ripetuti contro i suoi cultori. Come vedi tu questo tratto della
personalità di De Martino?
Per poter parlare in modo non generico dei rapporti
che De Martino ha avuto con la metapsichica, occorrerebbe approfondire assai di
più tutto il versante della sua «preistoria» intellettuale. Forse occorrerebbe
andare più in là dei documenti utilizzati da Riccardo Di Donato nel suo
tentativo di aprire un varco verso una zona finora inesplorata. E andare più
in là, in questo caso, vorrebbe dire trovare nuovi documenti, anche se temo che
le piste che portano a tale «preistoria» non siano ulteriormente percorribili.
D’altra parte mi chiedo se sia davvero necessario scavare a monte della famosa
lettera di De Martino a Bozzano, che Galasso ci aveva reso parzialmente nota e
che tu hai pubblicato per intero. A meno che non si voglia scoprire un De
Martino in flagrante peccato di «partecipazione mistica», per quel che
riguarda i suoi interessi metapsichici quella lettera è da considerarsi del
tutto esauriente. In una forma che non potremmo desiderare più esplicita e più
circostanziata, De Martino ci fa sapere attraverso quali canali e a che livello
ha coltivato i suoi studi in quella direzione. Si potrebbe ovviamente obiettare
che questo documento è del ’42 e che si presenta troppo esterno rispetto al
problema di sapere in che modo – al di là di un distanziamento scientifico
evidentemente più tardo – De Martino avesse accolto e «vissuto», fino a quel
momento, le suggestioni del paranormale. Tanto più che il rapporto con Vittorio
Macchioro, per come è stato messo in luce, lascerebbe pensare a qualcosa di più
e di diverso rispetto ai percorsi descritti nel curriculum
studiorum messo a punto per Bozzano. Tuttavia, nella storia di questo
rapporto, nulla induce a pensare che l’adesione di De Martino alla metapsichica
si muovesse nella direzione di quella sorta di Sachlichkeit scientifica
postulata dal suocero. Anzi, come potrebbero testimoniare i lavori sul
paranormale e sull’extrasensoriale’ che riconfluiranno nel primo capitolo
del Mondo magico, De Martino si muoveva già nell’ottica
criticistica di quella metanoìa conoscitlva che gli avrebbe consentito, più
tardi, di parlare in termini storicistici di una «natura culturalmente
condizionata» e dunque di una “realtà dei poteri magici». Ma era, appunto, una
metanoia che cominciava a problematizzare in chiave culturale la nozione di «
realtà » , per contenderla alle definizioni dogmatiche del naturalismo
positivistico. Tutto questo potrebbe voler dire che, dopo una probabile
iniziazione macchiorana, l’interesse di De Martino per la metapsichica sarebbe
venuto rapidamente evolvendo verso direzioni molto diverse, fino a precisarsi
quale utile messa a punto di una strumentazione indispensabile per comprendere
certi meccanismi della cultura magica. Proprio per questo – e sta qui
soprattutto la distanza maturata rispetto a Macchioro – non risulta che De
Martlno abbia mai smarrito il senso della differenza storico-culturale fra la
dimensione metapsichica rintracciabile nella cultura magica e la dimensione
metapsichica ritornante in modo inautentico nei “piccoli medi isterici» dei
nostri universi urbani. Chiedersi in che misura l’autore del Mondo
magico accordasse credito alla metapsichica significa chiedersi in che
misura credesse nella magia. Ma porsi questa domanda vuol dire non aver capito
la particolare radìcalità dello storicismo demartiniano o dimenticare che la
metanoia conoscitiva che esso presuppone era tale da ammettere la possibilità e
della magia e della metapsichica quali fatti reali e perfettamente organici ad
altri orizzonti culturali. Questo non vuol dire che non si impegnasse a
prendere opportune distanze dal pericolo di una nostra regressione a stadi che
la cultura occidentale si è lasciata alle spalle. Il senso di Magia e
civiltà sta appunto qui.
Uno dei nodi più controversi, tra quelli che hanno
dato filo da torcere alla critica, è sicuramente rappresentato dal
problema dei rapporti che De Martino ha intrattenuto col marxismo. C’è chi sostiene
che il marxismo demartiniano avrebbe poco o nulla a che fare col
marxismo delle posizioni più accreditate, ma non manca chi ha visto nelle
trasgressioni demartiniane del crocianesimo un condizionamento derivante dalle
convinzioni marxiste dell’autore del Mondo magico. Si può non
condividere un modo così drastico di leggere la questione, ma è evidente che
già una polarizzazione di questo tipo assegna uno spazio sui generis
alle posizioni demartiniane, considerate- nell’uno e nell’altro caso- come un
dato inclassificabile e sostanzialmente privo di interesse. Quel che
oggettivamente resta documentato è, di fatto, un alto grado di
fraintendimento e di inevitabile isolamento. Qual è il tuo punto di
vista su questo problema?
Si è parlato con certa insistenza di un “ isolamento”
di De Martino, in riferimento soprattutto ai suoi non facili rapporti con la
cultura di sinistra del dopoguerra e con la stessa area di provenienza, quella
dello storicismo crociano. Tale «isolamento» non è un’invenzione della
critica, ma corrisponde allo stato reale delle cose. In qualche modo se ne può
trovare un segno inequivocabile nella stessa difficoltà a collocare De Martino
all’interno delle coordinate più note. A voler capire il senso delle
incomprensioni che hanno caratterizzato da subito i suoi rapporti con l’area
marxista, è impossibile non rifarsi alla quota di hegelismo che domina la sua
lettura di Marx. In quel momento, leggere hegelianamente gli aspetti del
marxismo che potevano entrare con un certo peso nell’orizzonte dello storicismo
significava privilegiare il giovane Marx e restituire spessore filosofico al
messaggio marxiano, intravvisto in un’accezione più ricca rispetto alle
versioni positivistiche che circolavano nel partito. Il senso della
dialettizzazione gramsciana era ancora poco visibile e, del resto, non avrebbe
ridotto in modo decisivo la distanza tra la linea culturale praticata dalla
sinistra e gli ardimenti storicistici di De Martino. Tanto più che in questi
ultimi non c’era soltanto un tale hegelo-marxismo da sempre in odore di eresia,
ma c’era anche molto Heidegger e il dialogo fitto fitto con i più interessanti
analisti europei del mito e dell’esperienza religiosa; c’era, soprattutto, il
suo professionale occuparsi di cose “vietate” che lo esponeva al sospetto di
irrazionalismo e lo faceva apparire come una specie di voyeur
dell’occulto. In questi termini, appunto, lo aveva visto Togliatti,
quando, in un clima di forti umori staliniani e di zdanovismo dilagante, ne
aveva stigmatizzato pubblicamente l’opera. E in questi termini, forse, ha
continuato a ve derlo fino alla fine la maggior parte della cultura di
sinistra.
D’altra parte è anche necessario riconoscere che il De
Martino «maggiore» si è sempre sentito distante da tutte le forme più
rozze di Aufklaerung, comprese quelle dominanti nelle
mitologie progressiste della sinistra. Se si esclude la fase meridionalistica e
parzialmente gramsciana della sua produzione (mi riferisco in modo particolare
a Sud e magia), nella quale è possibile rintracciare diverse
convergenze con le strategie culturali della sinistra, la line-a più costante
del pensiero demartiniano appare disegnata lungo i percorsi corrosivamente
critici rispetto alle più confermate convinzioni del marxismo corrente. Per
convincersi che si trattava di una critica da sinistra, basterebbe pensare, a
titolo esemplificativo, alle sorprendenti affinità che una tesi come quella
sull’”imbarbarimento del marxismo” (formulata nel ’49 in un testo che ebbe
molta notorietà) aveva con le tesi marcusiane sul magismo della « nuova
razionalità sovietica» messe a punto in Soviet Marxism. Né mi
pare , appunto un caso che, già a proposito del Mondo
magico, Solmi avesse individuato sostanziali parallelismi con la Dialettica
dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. Da un punto di vista
generale, trovo, infatti, che il confronto con i Francofortesi possa essere
utilmente sostenuto e che riesca a render conto della solitaria posizione di
De Martino nello spazio della cultura italiana del momento. Ma questa
convergenza (che non dovrebbe far pensare a un contatto effettivo) riconduce
ancora una volta a Hegel e alle consapevolezze storicistiche di cui Hegel
rappresenta un passaggio inevitabile.
Naturalmente, il bisogno di cercare riscontri per
tentare di focalizzare la specificità di De Martino non dovrebbe far
dimenticare che si tratta di una specificità difficilmente esauribile nel
ventaglio dei riscontri di volta in volta trovati e che essa conserva integralmente
la sua singolarità anche quando si sia scoperto che questo o quell’aspetto
presenta tratti in comune con il pensiero di questo o di quell’autore.
Tu hai fatto un ‘esperienza più che biennale della
didattica di De Martino. Come lo ricordi nella veste di docente? E soprattutto
qual era il suo modo di porsi nella relazione con gli studenti? Qualcuno parla
di lui come di un pendolare burbero e sbrigativo, ma dalla memoria che altri ne
hanno conservato risulta che così non fosse. Da che parte sta, su questo punto,
la tua testimonianza?
Direi che sta tutta dalla parte della memoria di
questi ultimi. Non solo per la straordinaria affabilità del personaggio, ma
anche – e soprattutto – per il rispetto autentico che caratterizzava il suo
modo di trattare lo studente. Posso ricordare, a sostegno di quel che dico, un
episodio molto significativo. Una mattina mi trovavo in istituto (quello,
allora, di via Università, a lato del Rettorato) a lavorare alle schede
sull’argia già pervenute. La campagna sulla species nostrana
di tarantismo era partita da qualche tempo e si pensava di cominciare con
qualche tentativo di primo bilancio orientativo (eravamo, se non ricordo male,
all’inizio del ’63). Ero solo e aspettavo che De Martino arrivasse. Prima di
lui arrivò invece, un certo prof. Reda, che cercava il nostro “maestro”. Sapeva
di essere atteso e si fermò con me, interessandosi alle schede che stavo
ordinando per aree di provenienza. Mi colpirono, ovviamente, la sua curiosità
e la pertinenza delle osservazioni. In realtà, Reda era un “addetto ai lavori”
che aveva scritto qualcosa sul tarantismo e che insegnava in quel momento alla
clinica neuropsichiatrica di Cagliari. De Martino lo aveva convocato per
discutere con lui l’idea di mettere in piedi anche per l’argia, come per il
tarantìsmo pugliese, una équipe di specialisti che leggesse da
vari punti di vista il fenomeno. Quando il “maestro” giunse, notai il suo
stupore nel trovare Reda in istituto. L’appuntamento, di fatto, era stato
fissato per la settimana successiva ed era più che naturale che De Martino non
si aspettasse di incontrarlo lì. La sorpresa era palese, ma non diventò in
nessun momento una sorpresa di disappunto: restò fino alla fine quello che era,
una sorpresa allegra e molto colorata di contentezza. Ricordo, fra l’altro, che
si divertirono entrambi come matti ridendo a più non posso di questi scherzi
della memoria. Era evidente che la loro conoscenza risaliva a cose comuni e che
era fatta di stima reciproca. Ma quando Reda volle entrare in argomento e
incominciare a discutere del problema-argia, De Martino obiettò senza
esitazione che al colloquio “specialistico» avrebbero dovuto essere presenti
gli studenti, che erano da tutti i punti di vista i destinatari più reali
della scelta che avrebbe costituito l’oggetto della discussione. Pertanto
pregava Reda di tornare più in là, al momento giusto. Non gli andava che una
conversazione importante come quella fosse una discussione “di vertice” e che
gli studenti ne restassero esclusi. La sua professione di insegnante laico gli
imponeva di tener conto con attenzione dei discenti.
Reda naturalmente accettò di buon grado, scusandosi
per la sua propensione a scoordinare i tempi.
Gli studenti in questione erano ovviamente quelli del
gruppo dei “proconsoli dell’ argia” e, a fronte della mia casuale
presenza, c’era, in quel momento, l’assenza di tutti gli altri. Una decina di
non-presenti, nell’insieme. Era come se De Martino si sforzasse in tutti i
modi di portare anche noi nello spazio delle “segrete cose” e di renderci
partecipi a tutte le forme del “fare” scientifico, come quando a spese
dell’istituto ci portò a Roma a seguire un seminario sul mito. Abituati come
eravamo a essere sempre trattati come l’ultima ruota del carro, queste
attenzioni del “maestro” ci inorgoglivano molto. Non avevamo mai conosciuto una
generosità accademica come la sua e non è strano che l’episodio di Reda si sia
piantato in modo indischiodabile nella mia memoria.
Trovo invece molto strano che qualcuno possa ricordare
De Martino come un “pendolare” burbero e sfuggente.
Prendi, peraltro, il tasto-libri. Lui sapeva meglio di
noi che molti testi necessari alla ricerca non potevano essere rintracciati
nelle biblioteche cagliaritane. Ed era sempre dai suoi scaffali personali che
venivamo messi in grado di lavorare. Ricordo di aver tenuto per mesi, in
lettura, la copia in due volumi degli Etudes comparées di
Pinard de la Boullaye, libro ormai introvabile anche in Francia, oltre che da
noi. Benché De Martino fosse uno dei pochi a possederlo, non ebbe nessuna
difficoltà a portarlo con sé da Roma e a consegnarmelo sine die. Ma
non ero un privilegiato: faceva così con tutti i suoi allievi.
Quanto al suo modo di parlare dalla cattedra e di
comunicare, non mi resta che ripetere le cose già dette. Da quel pulpito, lui
non era così catturante e così ricco di fascino quanto gli riusciva di essere
nello spazio delle piccole cerchie. Il pubblico – fosse pure il tipo di
pubblico che si può incontrare in un’aula universitaria – finiva sempre
col determinare in lui una situazione di forte condizionamento in grado di far
cadere o di diminuire di molto la forza trascinante della sua parola. Certo,
per chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo al di là di questi momenti, le
possibilità di ricordarlo come lo ricordiamo noi erano poche. Salvo che non si
stesse già lavorando su qualcuno dei suoi libri. In tal caso, una pagina qualsiasi
poteva bastare a rendere inesistente quello strano scarto tra la parola e la
scrittura. Impareggiabile com’era, quest’ultima riusciva a creare forme di
ascolto intenso anche nei confronti di un parlare «altro-da-sé». Del resto, in
qualche circostanza, questo parlare si accendeva in modo straordinario e
nascevano lezioni che nessuno di noi avrebbe dimenticato. La cosa, a quel
pubblico, appariva un po’ enigmatica, ma chi gli stava vicino non si stupiva
per nulla: sapeva che, stavolta, il professore era tornato a Cagliari in
compagnia.
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