martedì 17 aprile 2018

Intervista a Placido Cherchi su Ernesto De Martino (a cura di Pietro Angelini)



Riportiamo  l’ultimo capitolo del libro di Placido Cherchi,  LA SCRITTURA OLTREPASSANTE,  Ernesto De Martino e le dialettiche del “ritorno”. Cinque studi. Edizioni Kurumuny, Calimera 2013. Il capitolo riportato riproduce un’intervista del 1990.

De Martino, Ernesto. - Storico delle religioni ed etnologo meridionalista italiano (Napoli 1908 - Roma 1965). A lui si devono un’interpretazione storicista delle manifestazioni religiose e alcune innovative ricerche nel Meridione basate sull’osservazione partecipante e sul lavoro di équipe interdisciplinari.
De Martino cercò anche di avviare una “storiografia delle società inferiori”, che permettesse un approfondimento della conoscenza della civiltà moderna mediante il confronto con quelle tradizionali. Egli individua il prodursi del sacro nel superamento dei “momenti critici dell’esistenza”, ovvero delle crisi in cui, specie per quel che riguarda il mondo etnologico, è minacciata la presenza stessa (intesa come centro operativo del pensare e dell’agire umani).
Tale superamento viene operato mediante l’iterazione rituale di un modello mitico originario, che sottrae quei momenti alla loro storicità. Coniugando la tradizione storicista con istanze di matrice etico-sociale marxista, l’opera di De Martino costituisce una sintesi affatto originale nell’etnologia italiana, che ha ispirato e continua a ispirare numerosi studiosi nei campi limitrofi della demologia, dell’etnomusicologia e dello studio della religiosità popolare.
OPERE. Tra le sue opere sono: Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941); Il mondo magicoProlegomeni a una storia del magismo (1948); Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958); Sud e magia (1959); La terra del rimorso (1961); Furore simbolo valore (1962); La fine del mondoContributo all’analisi delle apocalissi culturali (post., 1977). Da “Istella”.
Ernesto De Martino, allievo di A. Omodeo, fu professore di storia delle religioni nell’università  di Cagliari. Placido Cherchi, suo allievo, è lo studioso che più ha riflettuto e scritto sul suo pensiero. Fino al libro appena uscito: Placido Cherchi,  LA SCRITTURA OLTREPASSANTE,  Ernesto De Martino e le dialettiche del “ritorno”.Cinque studi. Edizioni Kurumuny, Calimera 2013.

Placido Cherchi è nato ad Oschiri nel 1939. Ha studiato a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese, interessandosi contemporaneamente di problemi etnoantropolotgici e storico-artistici. Tra i suoi lavori possono essere segnalati: Paul Klee teorico (De Donato, Bari 1978), Ernesto De Martino (in collaborazione con la sorella Maria, Liguori, Napoli 1994), Il peso dell’ombra. L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino, Liguori, Napoli 1997), Etnos e apocalisse(Zonza, Cagliari 1999), Italo Medda: “esercizi di ammirazione” (Zonza, Cagliari 2004), Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino (Aìsara, Cagliari 2010).

Intervista su Ernesto De Martino, a cura di Pietro Angelini

Puoi raccontare del tuo incontro con Ernesto De Martino e dei suoi anni cagliaritani? Si diceva, una volta, che il periodo sardo sarebbe stato per l’autore del “Mondo magico» un periodo di acuto isolamento e di lavoro poco nulla sintonizzato con l’universo della cultura isolana, soprattutto con quella di livcllo  etno-antropologico. In realtà, come si potrebbe desumere dal silenzio che i suoi scritti osservano su quasi tutta quella fase, si tratta degli anni meno noti della sua biografia e nessuna ricerca è stata fatta per ri­costruire in modo capillare l’ultima stagione della sua esistenza di studioso. Chi gli è stato vicino durante i suoi soggiorni in Sardegna ha probabilmente qualche elemento a disposizione per far luce su un passaggio che i biografi lasciano un po’ nell’ombra.
Non credo di essere in grado di riempire questo vuoto -storio­grafico». Altri, meglio di me, potrebbero farlo. E penso, per esempio, a Clara Gallini, che, anche per precise incombenze istituzionali, gli è stata più vicina di altre persone. La mia familiarità col personaggio è stata indubbiamente insolita, ma non tale da andare oltre il tipo di familiarità che poteva esser concessa a uno studente.
Ho incontrato De Martino qualche anno dopo il suo approdo accademico a Cagliari e l’ho incontrato proprio nel momento in cui si proponeva di estendere all’area sarda le ricerche sul taranti­smo iniziate nel Salento. Ho preso parte, da studente laureando, a tutta la fase di preparazione della campagna etnografica che at­tuava quel progetto e, dopo un lungo seminario di addestramento alla ricerca, ho esplorato la zona dell’alta Ogliastra, sulla fascia centro-orientale dell’isola. Assieme ad altri contributi, i materiali della mia indagine sono confluiti ne I rituali dell’argia di Clara Gallini e potrei considerarli come il primo documento della mia iniziazione demartiniana alle problematiche etno-antropologiche.
È noto che De Martino non potè portare a compimento quel progetto e che, a parte la supervisione teorico-metodologica che gli competeva per obbligo istituzionale, non prese parte molto at­tiva alla ricerca. Personalmente ho sempre avuto la sensazione che ne cedesse volentieri le incombenze e i meriti alla sua bravissima assistente, ma non credo che questo suo tenersi marginale fosse già imputabile alla malattia, che si manifestò soltanto nell’ultimo periodo (tra la fine del ’64 e i primi mesi del ’65). Lo attribuirei piuttosto a un crescente disinteresse, già visibile nella Terra del ri­morso, per le tematiche meridionalistiche. Il De Martino che ho co­nosciuto agli inizi degli anni sessanta era di fatto già tutto immerso nell’orizzonte meditativo de La fine del mondo e aveva sicuramente cominciato a prendere le distanze dal suo passato di etnologo del nostro Mezzogiorno.
E d’altra parte, un’assiduità più continua ai momenti pratici di una ricerca che fin dalle prime battute si era annunciata annosa e orizzontalmente troppo estesa, avrebbe significato anche un’assi­dua permanenza a Cagliari, città che egli non amava molto. Se si esclude la campagna dedicata ai rituali dell’ argia, di cui resta qual­che traccia nella produzione posteriore a La terra del rimorso, De Martino sembra non aver avuto rapporti con la Sardegna e in effetti sarebbe difficile, basandosi soltanto sui suoi scritti, ricostruire que­sto capitolo secondario della sua biografia. Di fatto, Cagliari e la Sardegna erano troppo lontane dalle sue possibili «patrie culturali» perché potessero diventare un luogo della coscienza e assumere quella densità di connotazioni di cui si erano venute caricando le molte contrade del Sud toccate dal suo itinerare etnologico.
Oltretutto non aveva mai legato con l’ambiente accademico della Facoltà e, se si esclude un buon legame con Cases e con Del Monte. I soli, in quel momento, ad avere una corretta percezione di valore della sua produzione), anche con la fascia dei pendolari che stavano con lui al ]olly i rapporti erano labili ed episodici. Con Cirese, per esempio, esistevano vecchie ruggini e si evitavano vo­lentieri; con Pietro Rossi, che lo chiamava -Franckenstein-, si ven­dicava inventando esilaranti storie sulle sue chiappe traboccanti; con Petronio, mi è parso che si ignorassero; con Maltese, era come se abitassero su galassie diverse. Tutto sommato, preferiva passare il suo tempo libero con il gruppo di studenti che gravitavano at­torno al suo istituto.
Mi sembra che stesse particolarmente bene con un terzetto di cui facevo parte (gli altri due erano Anna Baggiani, che – lui testi­mone – avrebbe sposato Cesare Cases qualche anno più tardi, e Nanni Spissu, allora laureando di Cirese e appassionato musico­logo). Non saprei dire quante volte le nostre giornate si siano chiuse attorno a del buon pesce, offerto quasi sempre da lui, o al cinema. La nostra differenza più importante, rispetto agli altri, è probabile consistesse nel fatto che il nostro marxismo era un -mar­xismo perplesso» e nel fatto che avevamo giurato, assieme a lui, di non comprare mai la macchina. La ballata del marxista triste, che Anna aveva scritto per lui e che Nanni aveva musicato, era il leit­  motif, graditissimo, delle nostre scorribande in periferia o delle se­rate «fuori servizio» in istituto. La cantava con noi, con grande divertimento, ma, poiché era molto stonato, gli affidavamo il basso continuo per le nostre variazioni polifoniche.
Nella cerchia dei suoi proconsoli (proconsoli dell’argìa erano, secondo la sua scherzosa investitura, gli studenti-ricercatori del suo seminario) e nella cerchia leggermente più larga dei suoi frequen­tatori «esterni», De Martino era un parlatore affascinante, del tutto all’altezza della sua prosa impareggiabile, e riusciva a ritrovare in pieno quella corrispondenza tra parola e pensiero che lo piantava in asso invece a lezione o nelle situazioni caratterizzate dalla pre­senza di un pubblico occasionale o poco sintonizzato. In verità, l’autore del Mondo magico conosceva molto bene, e sulla propria pelle, gli effetti della sindrome che lui aveva definito come «ango­scia territoriale», e mi è sempre parso che a Cagliari questa crisi di spaesamento fosse costantemente in agguato. Il suo «campanile di Marcellinara» era certamente Clara Gallini, ma, in assenza di questo centro cosmicizzante, qualcuno di noi doveva in un modo o nel­l’altro rimpiazzarlo. Ricordo, per esempio, che, quando gli capitava di tornare a Cagliari d’estate, mi telegrafava in modo perentorio, ingiungendomi di raggiungerlo al più presto; e io, per quanto avessi casa nel «Capo di sopra”, non mi facevo attendere: incon­trarlo era sempre una festa. Se, però, passava il mare con Vittoria De Palma, anche le lezioni diventavano brillanti e indimenticabili.
Una situazione di ritorni estivi frequenti era stata quella relativa alla campagna di preparazione di un itinerario coreutico per Mois­seiev, il celebre coreografo russo, che aveva mietuto trionfi in una tournée italiana dell’anno prima, con le sue «fantasie slave», e che era in quel momento interessato a rinnovare il proprio repertorio, ispirandosi al folklore mediterraneo. L’agenzia romana che spon­sorizzava il progetto si era rivolto a De Martino, e De Martino ci aveva subito arruolati, me e Nanni Spissu, per battere a tappeto l’isola, alla ricerca di gruppi disposti a ballare per questa star del Bolscioi. Il momento più interessante di tutta l’operazione furono le tre settimane di contatti frenetici e di spostamenti continui, che ci portarono dal basso Campidano all’alta Gallura, con un De Mar­tino che parlava e parlava, meravigliosamente, tracciando una sorta di sintesi, a puntate, della Fine del mondo. Parlava del problema delle apocalissi culturali, dell’ethos del trascendimento, dell’etnocentrismo critico, del destino dell’Occidente, del senso culturale della convivialità, dell’umanesimo etnologico, ma anche della sua militanza partigiana sul fronte del Senio, dei suoi libri, di qualche episodio della sua adolescenza … Naturalmente parlava anche di come fosse importante offrire a Moisseiev un materiale non defor­mato dalla commercializzazione turistica delle varie “pro-loco”, Ma su questo punto, De Martino si era ingannato, complicando a dismisura tutto il nostro lavoro. Igor Moisseiev era uomo di spet­tacolo, abbastanza lontano dalle consapevolezze etnologiche che gli attribuiva il nostro maestro (forse in omaggio alla grande etno­logia sovietica), e, al momento dell’arrivo, mostrò di gradire in modo particolare proprio quei due o tre esempi di gruppi organiz­zati dagli enti provinciali del turismo, a cui, per disperazione, ave­vamo dovuto ricorrere per non lasciare scoperte alcune aree.

Quale è stata l’incidenza culturale di De Martino nell’ambiente cagliaritano o, più in generale) sardo? Si può parlare, per esempio. di una scuola demartiniana? Esiste, al di là della tua persona, qual­che altra figura di intellettuale che si richiami in termini non ge­nerici al senso di questa lezione?

La permanenza di De Martino a Cagliari è stata troppo breve per­ché potesse dar luogo a un seguito consistente. Peraltro, nel clima degli anni a cavallo fra il ’50 e il ’60, non esistevano le condizioni perché un personaggio come lui potesse essere subito riconosciuto e apprezzato. Se si pensa che, nell’affermazione delle discipline et­noantropologiche in Italia, il suo è stato un ruolo pionieristico, non è difficile capire il prezzo che può aver pagato, anche qui, in termini di isolamento e marginalità, all’interno di un mondo accademico dominato dall’umanesimo tradizionale o da forme di marxismo an­cora ferme allo zdanovismo. Agli inizi, solo pochi hanno avuto una sicura percezione del suo valore. Ma De Martino era De Martino e sui suoi libri cominciava a convergere l’attenzione della migliore pubblicistica nazionale. Tuttavia, quando a Cagliari ci si è accorti che si aveva a che fare con uno dei protagonisti della nascente an­tropologia italiana, era ormai troppo tardi. De Martino sarebbe morto da lì a qualche anno. Negli anni immediatamente successivi alla sua scomparsa, l’avvento massiccio dello strutturalismo ha labilizzato e reso ancor più deboli le poche tracce lasciate dal suo pas­saggio. Chi si è inserito nei ranghi della ricerca universitaria, in quel settore, o militava sotto altra bandiera metodologica o non aveva forza suftìciente per affermare una propria continuità rispetto a De Martino. Così, l’antropologia sarda è nata soprattutto ciresiana. La generazione che usciva da un’esperienza di tipo demartiniano o è rimasta nel limbo delle vocazioni private o ha dovuto arrampicarsi con poca fortuna su qualche «accelerato» fuori rotta.
Per quel che ne so, più che presso gli antropologi (del resto quasi sempre interessati solo al versante meridionalistico del suo pensiero), De Martino ha incontrato un’attenta accoglienza presso qualche istituto di filosofia e presso qualche psichiatra. Pare, per esempio, che Solinas, un docente della nostra Facoltà, progettasse di dedicare un corso di filosofia morale alla Fine del mondo e che Terzian, primario della clinica neuropsichiatrica, intendesse utiliz­zare alcuni suggerimenti demartiniani nella lettura delle forme psi­copatologiche più ricorrenti nella nostra area culturale. Al pari di ]ervis e di Risso, anche Terzian, sul filo dell’antipsichiatria goriziana, si rendeva conto del rilievo che certe tesi di De Martino avrebbero potuto assumere nel terreno della psichiatria. Era quello un mo­mento in cui si parlava con insistenza della «follia del ritorno» dila­gante tra gli ex-emigrati, e si comprende l’accoglienza che l’ottica culturalistica di De Martino poteva acquistare agli occhi di una psi­chiatria non organicista. Non ho saputo, però, se queste intenzioni abbiano avuto seguito e se si siano tradotte in qualcosa di docu­mentabile. In tutti i casi, mi pare sintomatico che, in occasione del ventennale della morte di De Martino, Cagliari non abbia sentito il bisogno di celebrarne la memoria. Il mio libro si proponeva di rom­pere questo silenzio: ma, da queste parti, è stato una voce isolata.

Le indagini che Riccardo Di Donato ha recentemente condotto sulla -preistoria- intellettuale di De Martino mettono in luce alcuni aspetti inquietanti della sua formazione e in particolare la lunga frequentazione che egli avrebbe avuto proprio con quelle forme di irrazionalismo di cui si nutriva il suocero Vittorio Macchioro, ar­cheologo di fama, studioso dell’orfismo e cultore di metapsichica. Ora, per quel che riguarda appunto la metapsichica, sussiste il ra­gionevole dubbio che De Martino abbia continuato, anche in se­guito, a mantenere con la dimensione del paranormale un rapporto mai completamente risolto e che in buona parte la sua produzione non se ne discosti in modo radicale, malgrado gli esor­cismi a ogni passo ripetuti contro i suoi cultori. Come vedi tu questo tratto della personalità di De Martino?

Per poter parlare in modo non generico dei rapporti che De Martino ha avuto con la metapsichica, occorrerebbe approfondire assai di più tutto il versante della sua «preistoria» intellettuale. Forse occorrerebbe andare più in là dei documenti utilizzati da Riccardo Di Donato nel suo tentativo di aprire un varco verso una zona fi­nora inesplorata. E andare più in là, in questo caso, vorrebbe dire trovare nuovi documenti, anche se temo che le piste che portano a tale «preistoria» non siano ulteriormente percorribili. D’altra parte mi chiedo se sia davvero necessario scavare a monte della famosa lettera di De Martino a Bozzano, che Galasso ci aveva reso par­zialmente nota e che tu hai pubblicato per intero. A meno che non si voglia scoprire un De Martino in flagrante peccato di «partecipa­zione mistica», per quel che riguarda i suoi interessi metapsichici quella lettera è da considerarsi del tutto esauriente. In una forma che non potremmo desiderare più esplicita e più circostanziata, De Martino ci fa sapere attraverso quali canali e a che livello ha colti­vato i suoi studi in quella direzione. Si potrebbe ovviamente obiet­tare che questo documento è del ’42 e che si presenta troppo esterno rispetto al problema di sapere in che modo – al di là di un distanziamento scientifico evidentemente più tardo – De Martino avesse accolto e «vissuto», fino a quel momento, le suggestioni del paranormale. Tanto più che il rapporto con Vittorio Macchioro, per come è stato messo in luce, lascerebbe pensare a qualcosa di più e di diverso rispetto ai percorsi descritti nel curriculum studiorum messo a punto per Bozzano. Tuttavia, nella storia di questo rapporto, nulla induce a pensare che l’adesione di De Martino alla metapsichica si muovesse nella direzione di quella sorta di Sachlichkeit scientifica postulata dal suocero. Anzi, come potrebbero testimoniare i lavori sul paranormale e sull’extrasensoriale’ che riconfluiranno nel primo capitolo del Mondo magico, De Martino si muoveva già nell’ottica criticistica di quella metanoìa conoscitlva che gli avrebbe consentito, più tardi, di parlare in termini storicistici di una «natura culturalmente condizionata» e dunque di una “realtà dei poteri magici». Ma era, appunto, una metanoia che cominciava a problematizzare in chiave culturale la nozione di « realtà » , per contenderla alle definizioni dogmatiche del naturalismo positivistico. Tutto questo potrebbe voler dire che, dopo una probabile iniziazione macchiorana, l’interesse di De Martino per la metapsichica sarebbe venuto rapidamente evolvendo verso direzioni molto diverse, fino a precisarsi quale utile messa a punto di una strumentazione indispensabile per comprendere certi meccanismi della cultura magica. Proprio per questo – e sta qui soprattutto la distanza maturata rispetto a Macchioro – non risulta che De Martlno abbia mai smarrito il senso della differenza storico-culturale fra la dimensione metapsichica rintracciabile nella cultura magica e la dimensione metapsichica ritornante in modo inautentico nei “piccoli medi isterici» dei nostri universi urbani. Chiedersi in che misura l’autore del Mondo magico accordasse credito alla metapsichica significa chiedersi in che misura credesse nella magia. Ma porsi questa domanda vuol dire non aver capito la particolare radìcalità dello storicismo demartiniano o dimenticare che la metanoia conoscitiva che esso presuppone era tale da ammettere la possibilità e della magia e della metapsichica quali fatti reali e perfettamente organici ad altri orizzonti culturali. Questo non vuol dire che non si impegnasse a prendere opportune distanze dal pericolo di una nostra regressione a stadi che la cultura occidentale si è lasciata alle spalle. Il senso di Magia e civiltà sta appunto qui.

Uno dei nodi più controversi, tra quelli che hanno dato filo da torcere alla critica, è sicuramente rappresentato dal problema dei rapporti che De Martino ha intrattenuto col marxismo. C’è chi so­stiene che il marxismo demartiniano avrebbe poco nulla a che fare col marxismo delle posizioni più accreditate, ma non manca chi ha visto nelle trasgressioni demartiniane del crocianesimo un condizionamento derivante dalle convinzioni marxiste dell’autore del Mondo magico. Si può non condividere un modo così drastico di leggere la questione, ma è evidente che già una polarizzazione di questo tipo assegna uno spazio sui generis alle posizioni demar­tiniane, considerate- nell’uno e nell’altro caso- come un dato in­classificabile e sostanzialmente privo di interesse. Quel che oggettivamente resta documentato è, di fatto, un alto grado di fraintendimento e di inevitabile isolamento. Qual è il tuo punto di vista su questo problema?

Si è parlato con certa insistenza di un “ isolamento” di De Mar­tino, in riferimento soprattutto ai suoi non facili rapporti con la cul­tura di sinistra del dopoguerra e con la stessa area di provenienza, quella dello storicismo crociano. Tale «isolamento» non è un’inven­zione della critica, ma corrisponde allo stato reale delle cose. In qualche modo se ne può trovare un segno inequivocabile nella stessa difficoltà a collocare De Martino all’interno delle coordinate più note. A voler capire il senso delle incomprensioni che hanno caratterizzato da subito i suoi rapporti con l’area marxista, è im­possibile non rifarsi alla quota di hegelismo che domina la sua let­tura di Marx. In quel momento, leggere hegelianamente gli aspetti del marxismo che potevano entrare con un certo peso nell’orizzonte dello storicismo significava privilegiare il giovane Marx e restituire spessore filosofico al messaggio marxiano, intravvisto in un’accezione più ricca rispetto alle versioni positivistiche che circolavano nel partito. Il senso della dialettizzazione gramsciana era ancora poco visibile e, del resto, non avrebbe ridotto in modo decisivo la distanza tra la linea culturale praticata dalla sinistra e gli ardimenti storicistici di De Martino. Tanto più che in questi ultimi non c’era soltanto un tale hegelo-marxismo da sempre in odore di eresia, ma c’era anche molto Heidegger e il dialogo fitto fitto con i più interessanti analisti europei del mito e dell’esperienza religiosa; c’era, soprattutto, il suo professionale occuparsi di cose “vietate” che lo esponeva al sospetto di irrazionalismo e lo faceva apparire come una specie di voyeur dell’occulto. In questi termini, appunto, lo aveva visto Togliatti, quando, in un clima di forti umori staliniani e di zdanovismo dilagante, ne aveva stigmatizzato pubblicamente l’opera. E in questi termini, forse, ha continuato a ve derlo fino alla fine la maggior parte della cultura di sinistra.
D’altra parte è anche necessario riconoscere che il De Martino  «maggiore» si è sempre sentito distante da tutte le forme più rozze di Aufklaerung, comprese quelle dominanti nelle mitologie progressiste della sinistra. Se si esclude la fase meridionalistica e parzialmente gramsciana della sua produzione (mi riferisco in modo particolare a Sud e magia), nella quale è possibile rintracciare diverse convergenze con le strategie culturali della sinistra, la line-a più costante del pensiero demartiniano appare disegnata lungo i percorsi corrosivamente critici rispetto alle più confermate convinzioni del marxismo corrente. Per convincersi che si trattava di una critica da sinistra, basterebbe pensare, a titolo esemplificativo, alle sorprendenti affinità che una tesi come quella sull’”imbarbarimento del marxismo” (formulata nel ’49 in un testo che ebbe molta notorietà) aveva con le tesi marcusiane sul magismo della « nuova razionalità sovietica» messe a punto in Soviet Marxism. Né mi pare ,  appunto un caso che, già a proposito del Mondo magico, Solmi avesse individuato sostanziali parallelismi con la Dialettica dell’il­luminismo di Horkheimer e Adorno. Da un punto di vista generale, trovo, infatti, che il confronto con i Francofortesi possa essere util­mente sostenuto e che riesca a render conto della solitaria posi­zione di De Martino nello spazio della cultura italiana del momento. Ma questa convergenza (che non dovrebbe far pensare a un contatto effettivo) riconduce ancora una volta a Hegel e alle consapevolezze storicistiche di cui Hegel rappresenta un passaggio inevitabile.
Naturalmente, il bisogno di cercare riscontri per tentare di foca­lizzare la specificità di De Martino non dovrebbe far dimenticare che si tratta di una specificità difficilmente esauribile nel ventaglio dei riscontri di volta in volta trovati e che essa conserva integral­mente la sua singolarità anche quando si sia scoperto che questo o quell’aspetto presenta tratti in comune con il pensiero di questo o di quell’autore.

Tu hai fatto un ‘esperienza più che biennale della didattica di De Martino. Come lo ricordi nella veste di docente? E soprattutto qual era il suo modo di porsi nella relazione con gli studenti? Qual­cuno parla di lui come di un pendolare burbero e sbrigativo, ma dalla memoria che altri ne hanno conservato risulta che così non fosse. Da che parte sta, su questo punto, la tua testimonianza?

Direi che sta tutta dalla parte della memoria di questi ultimi. Non solo per la straordinaria affabilità del personaggio, ma anche – e soprattutto – per il rispetto autentico che caratterizzava il suo modo di trattare lo studente. Posso ricordare, a sostegno di quel che dico, un episodio molto significativo. Una mattina mi trovavo in istituto (quello, allora, di via Università, a lato del Rettorato) a lavorare alle schede sull’argia già pervenute. La campagna sulla species nostrana di tarantismo era partita da qualche tempo e si pensava di cominciare con qualche tentativo di primo bilancio orientativo (eravamo, se non ricordo male, all’inizio del ’63). Ero solo e aspettavo che De Martino arrivasse. Prima di lui arrivò invece, un certo prof. Reda, che cercava il nostro “maestro”. Sapeva di essere atteso e si fermò con me, interessandosi alle schede che stavo ordinando per aree di provenienza. Mi colpirono, ovvia­mente, la sua curiosità e la pertinenza delle osservazioni. In realtà, Reda era un “addetto ai lavori” che aveva scritto qualcosa sul taran­tismo e che insegnava in quel momento alla clinica neuropsichia­trica di Cagliari. De Martino lo aveva convocato per discutere con lui l’idea di mettere in piedi anche per l’argia, come per il tarantìsmo pugliese, una équipe di specialisti che leggesse da vari punti di vista il fenomeno. Quando il “maestro” giunse, notai il suo stupore nel trovare Reda in istituto. L’appuntamento, di fatto, era stato fissato per la settimana successiva ed era più che naturale che De Martino non si aspettasse di incontrarlo lì. La sorpresa era palese, ma non diventò in nessun momento una sorpresa di disappunto: restò fino alla fine quello che era, una sorpresa allegra e molto colorata di contentezza. Ricordo, fra l’altro, che si divertirono entrambi come matti ridendo a più non posso di questi scherzi della memoria. Era evidente che la loro conoscenza risaliva a cose comuni e che era fatta di stima reciproca. Ma quando Reda volle entrare in argomento e incominciare a discutere del problema-argia, De Martino obiettò senza esitazione che al colloquio “specialistico» avrebbero dovuto essere presenti gli studenti, che erano da tutti i punti di vista i de­stinatari più reali della scelta che avrebbe costituito l’oggetto della discussione. Pertanto pregava Reda di tornare più in là, al momento giusto. Non gli andava che una conversazione importante come quella fosse una discussione “di vertice” e che gli studenti ne restas­sero esclusi. La sua professione di insegnante laico gli imponeva di tener conto con attenzione dei discenti.
Reda naturalmente accettò di buon grado, scusandosi per la sua propensione a scoordinare i tempi.
Gli studenti in questione erano ovviamente quelli del gruppo dei “proconsoli dell’ argia”  e, a fronte della mia casuale presenza, c’era, in quel momento, l’assenza di tutti gli altri. Una decina di non-pre­senti, nell’insieme. Era come se De Martino si sforzasse in tutti i modi di portare anche noi nello spazio delle “segrete cose” e di renderci partecipi a tutte le forme del “fare” scientifico, come quando a spese dell’istituto ci portò a Roma a seguire un seminario sul mito. Abituati come eravamo a essere sempre trattati come l’ultima ruota del carro, queste attenzioni del “maestro” ci inorgoglivano molto. Non avevamo mai conosciuto una generosità accademica come la sua e non è strano che l’episodio di Reda si sia piantato in modo indischiodabile nella mia memoria.
Trovo invece molto strano che qualcuno possa ricordare De Martino come un “pendolare” burbero e sfuggente.
Prendi, peraltro, il tasto-libri. Lui sapeva meglio di noi che molti testi necessari alla ricerca non potevano essere rintracciati nelle bi­blioteche cagliaritane. Ed era sempre dai suoi scaffali personali che venivamo messi in grado di lavorare. Ricordo di aver tenuto per mesi, in lettura, la copia in due volumi degli Etudes comparées di Pinard de la Boullaye, libro ormai introvabile anche in Francia, oltre che da noi. Benché De Martino fosse uno dei pochi a posse­derlo, non ebbe nessuna difficoltà a portarlo con sé da Roma e a consegnarmelo sine die. Ma non ero un privilegiato: faceva così con tutti i suoi allievi.
Quanto al suo modo di parlare dalla cattedra e di comunicare, non mi resta che ripetere le cose già dette. Da quel pulpito, lui non era così catturante e così ricco di fascino quanto gli riusciva di essere nello spazio delle piccole cerchie. Il pubblico – fosse pure il tipo di pubblico che si può incontrare in un’aula universitaria – ­finiva  sempre col determinare in lui una situazione di forte condi­zionamento in grado di far cadere o di diminuire di molto la forza trascinante della sua parola. Certo, per chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo al di là di questi momenti, le possibilità di ricordarlo come lo ricordiamo noi erano poche. Salvo che non si stesse già lavorando su qualcuno dei suoi libri. In tal caso, una pagina qual­siasi poteva bastare a rendere inesistente quello strano scarto tra la parola e la scrittura. Impareggiabile com’era, quest’ultima riu­sciva a creare forme di ascolto intenso anche nei confronti di un parlare «altro-da-sé». Del resto, in qualche circostanza, questo par­lare si accendeva in modo straordinario e nascevano lezioni che nessuno di noi avrebbe dimenticato. La cosa, a quel pubblico, ap­pariva un po’ enigmatica, ma chi gli stava vicino non si stupiva per nulla: sapeva che, stavolta, il professore era tornato a Cagliari in compagnia.

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