Sono dodici mesi che Shaheen
non esiste più. Non c’è a casa, non c’è a scuola. Non la incontri mentre
passeggia con la mamma. Se la chiami risponde una voce registrata: il numero è
bloccato. Non c’è su Facebook, non ha una mail e il medico assicura che non
risulta in nessun ospedale. Shaheen ora si chiama Jasmine e, seduta nel salotto
di un luogo segreto nel Sud Italia, racconta a bassa voce di come è morta.
Straniera cresciuta in Italia, ribelle senza velo di una famiglia musulmana, è
stata promessa in matrimonio dai fratelli per salvare l’onore della famiglia.
Da quel giorno è iniziata la fuga, da quel giorno non è più al sicuro da
nessuna parte. «Se mi trovano rischio la vita. Io ho paura, sempre». Parla e
gli occhi bruciano di tutto il coraggio che le è servito per arrivare fino lì.
Raccontare la sua storia è un pericolo, ma, dice, va fatto per aiutare le altre
che non hanno la forza di morire per una libertà. Sono tante, anche se non si
sa quante. Sono figlie di famiglie straniere, quasi sempre senza cittadinanza,
nate già donne che chiedono di potersi scegliere la vita.
Se chiedete il numero dei matrimoni forzati in
Italia, nessuno ve lo sa dare. Se chiamate i centri antiviolenza e i servizi
sociali, vi spiegheranno che sono decine le ragazze che chiedono aiuto ogni
mese e che cercano di scappare da unioni combinate contro il loro consenso.
Sono originarie di Pakistan, India o Bangladesh e hanno tra i 16 e i 25 anni:
troppi per parlare di “spose bambine”, pochi per lasciare che siano mogli di
chi non hanno scelto. Per ribellarsi serve una denuncia per maltrattamento e
denunciare la propria famiglia è la parte più difficile. Chiedono di scappare,
ma un sistema di protezione ufficialmente non esiste.
Così se lo sono inventato le operatrici
sociali, abituate a risolvere i problemi prima ancora che intervenga una legge.
Dato l’allarme, le ragazze vengono prelevate come fossero testimoni di
giustizia in fuga dalla mafia: si scelgono giorno e ora, si trova una scusa per
farle allontanare dalla famiglia. O la ragazza riesce a uscire di casa
spontaneamente, oppure, con la complicità delle forze dell’ordine, interviene
un esterno (un medico, una professoressa o un’amica). Di solito si inventa una
scena con attori e comparse: dettagli non se ne possono rivelare, perché il
sistema, per funzionare, deve restare segreto. Se la famiglia ha già portato la
figlia all’estero, per la legge la causa è persa. Ma il “servizio protezione”
fai da te smuove in modo informale conoscenze sul posto, anche nelle
ambasciate: si stabilisce un canale di comunicazione clandestino e si aiutano
le ragazze a trovare una scusa per raggiungere l’aeroporto. Poi in Italia
inizia la vera fuga.
L’unica soluzione è scomparire: un giorno sei
figlia, il giorno dopo nessuno sa niente di te. Si ricomincia altrove con una
nuova identità e lasciandosi dietro tutto e tutti: la famiglia, gli amici e
pure i fidanzati clandestini. Perché se vuoi essere libera, devi dimenticare
persino chi amavi di nascosto e avresti voluto con te nella nuova vita. Tiziana
Dal Pra, presidente di Trama di Terre, una delle poche associazioni in Italia
che aiuta queste ragazze, sceglie una frase di Christa Wolf per spiegarlo:
«“Tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”. Ossia per queste donne, fra
l’uccidere una parte di sé e il morire per mano delle loro famiglie, c’è la
vita». Per le ragazze è impossibile non fare errori, riuscire a stare lontano
da tutti e non cedere ai tentativi di riavvicinamento. Ma è l’unica strada.
Jasmine non ce l’ha ancora fatta. Seduta in
quel salotto, lontana chilometri da casa sua, racconta della solitudine che la
mattina ammazza il fiato e della libertà che fa a pugni con il ricordo di aver
abbandonato una madre. A Fq Millennium dice che il giorno in cui ha deciso di
scappare di casa è durato un istante. Ha preso un sacchetto e nascosto i
vestiti sotto un quaderno: «Sai quando dici che sei partito con una valigia
mezza vuota? Io non avevo nemmeno la valigia». Sotto il braccio la borsa grande
da riempire fino a sfondare e dentro quasi niente. «Ho preso le foto. Ma ho
dovuto lasciare gli orsacchiotti di peluche». Nessun tempo per ripensare al
piano: ha attraversato il corridoio, chiuso la porta e all’improvviso non
esisteva più. «Non ho potuto salutare la mia mamma, nessuno. Mi dispiace, è una
colpa che sento».
Colpa. È la parola che ripete continuamente.
«Non so se ha capito o se mi odia per quello che ho fatto. Ero molto cambiata e
ho dovuto fare questa scelta per me stessa. Quando perdi qualcuno però ripensi
a tutte le cose che non gli hai dato». Jasmine, nata in Pakistan e orfana di
padre, è in Italia da quando aveva dieci anni. Viene iscritta a scuola, ma
presto si accorge che è una formalità: deve stare in casa con la madre. Per un
po’ riesce a resistere, ma le pressioni si fanno ogni giorno più forti: non può
andare in gita, frequentare le feste, indossare vestiti stretti, iscriversi in
palestra o fare stage di lavoro. Lei vuole, ma non può.
Le cose peggiorano quando decide di togliere
il velo: «Vedevo le mie compagne che si facevano le acconciature e pensavo ai
miei capelli lisci che non potevo far vedere a nessuno. Non è giusto. Perché i
miei fratelli possono fare quello che vogliono e io no? Sono testarda e so che
rispondevo sempre male. Ma loro mi provocavano: mi svegliavano di notte per
farmi pregare. Neppure loro sono praticanti, che senso ha?». Poi la frase,
ripetuta sempre e ossessivamente: «Sei la vergogna della nostra famiglia. Se
papà fosse vivo ti avrebbe già uccisa». Si ferma: «Sono sicura che l’avrebbe
fatto». Lo dice con tutta la freddezza di mesi a costruirsi una maschera, senza
muovere un muscolo: «Mio fratello maggiore ha alzato due volte il coltello
contro di me. Da quel momento non ho più reagito. Rischiavo troppo». Per un po’
tiene duro, fino a quando la mamma non le rivela il piano: «Mi disse: “Hanno
ragione i tuoi fratelli, ti manderemo in Pakistan per farti sposare”. Ho capito
che non potevo più aspettare».
Quella è stata la parte con l’adrenalina,
quando tutto va troppo in fretta per pensare e c’è solo da seguire l’istinto.
Poi la nuova vita e la lotta quotidiana contro il vuoto di non poter più
chiamare la mamma. Neppure per litigare. «Il mio sogno era andarmene via con
lei. Vivere sole noi due. Ma diceva che non era possibile. È difficile per lei
capire, è anziana ed è cresciuta in quella cultura. So che le hanno fatto il
lavaggio del cervello. Ma io sono cambiata. Mi spiace così tanto. Avrei dovuto
essere il suo aiuto». Il nome finto che ha scelto per sé viene da un film, è
quello di una delle eroine. «È bella e forte. Come voglio essere io». Il
problema è il passato che non la lascia andare, che non le dà tregua e la
assale quando meno se lo aspetta: «Sono molto fredda. Ho congelato i ricordi e
faccio finta di niente. Ma quando penso di aver dimenticato, all’improvviso
tornano. E piango, è ovvio». La parte più difficile ora è cosa fare con la
libertà. «Molti pensano che dopo che sei scappata inizi a bere, fumare e vuoi
solo andare a letto con qualcuno. I miei fratelli pensano che io faccia la
prostituta. Ma io non bevo e non fumo e voglio trovare l’uomo giusto per il mio
futuro. Poi magari faremo dei figli insieme. Se succederà, darò loro tutto
quello che non ho avuto. Le attenzioni, i giochi. Tutto». Qui fa il primo
sorriso: «C’è un ragazzo che mi piace. Dovrei scrivergli un messaggio? Non so
come si fa. Devo fare il primo passo? Sono timida. Mio fratello mi gridava
sempre: “Senza di me non sei nessuno”. Te lo credo che non ho fiducia in me.
Adesso ho paura che rimarrò sola per sempre. Ma almeno posso decidere. Lo
dicevo ai miei fratelli: “Dormo io, sposo io”. Sono io che devo dormire ogni
notte con un uomo, sempre io che devo scegliere chi sposare».
È un percorso lungo, cercare quello che si
voleva essere e provare a diventarlo da soli. «Potrei telefonare a casa, ma ho
paura. So che mi insulterebbero e non sono ancora pronta per quelle parole.
Però so anche che la mia mamma è malata e che quando avrò il coraggio di
chiamarla, potrebbe essere troppo tardi».
Tra chi ce l’ha fatta c’è Prya, indiana
promessa al cugino di primo grado quando era minorenne. Per tanto tempo ha
detto che non se la sentiva di sposarlo perché era troppo piccola. La famiglia
ha fatto finta di ascoltarla, finché l’ha portata in India. Anche lì ha cercato
di ritardare la cerimonia, ma la sorte era già scritta. L’ultima resistenza è
stata rifiutarsi di andare a letto con il marito. Un disonore troppo grande e
il padre l’ha punita. Nonostante le botte, subite ogni notte per settimane,
Prya non ha mai ceduto e una volta tornata in Italia è scappata. Ci sono voluti
anni per ricostruire la sua vita, ma ora è riuscita a ricongiungersi con la mamma
e la sorella. È solo una delle tante. Durante le ricerche contattiamo Shirin,
pakistana. La storia è simile a tante altre: il biglietto aereo in piena estate
per tornare in patria, le nozze combinate e la richiesta d’aiuto dal Pakistan
inviata a un’amica. Un miracolo delle operatrici permette il rientro in Italia
e quindi la fuga: prima il contatto con l’ambasciata sul posto e poi
l’interessamento delle istituzioni in via informale. Anche quando non puoi fare
nulla di concreto, le pressioni aiutano. Shirin sembrava disposta a raccontare
la sua storia e ci ha pensato una settimana prima di annullare tutto: la
famiglia l’ha già rintracciata una volta e lei ha dovuto morire, cioè sparire,
di nuovo. Non se la sente.
Stesso copione per Asiya: 23 anni e originaria
del Nord Africa. Per due anni ha vissuto con l’uomo scelto dalla famiglia. Si è
ammalata di depressione e che lei stava male se ne è accorta un’operatrice. Ora
vive nascosta sperando che si dimentichino di lei. Un’intervista? Sa che
servirebbe per aiutare le altre, ma ha troppa paura.
In Italia non esiste una legge sui matrimoni
forzati, ma, grazie alla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza
contro le donne (2011), questi abusi rientrano nel reato di maltrattamenti,
puniti con l’articolo 572 del codice penale (da 2 a 6 anni di carcere). In
mezzo c’è il lavoro quotidiano di operatrici ancora troppo sole. C’è una rete
che, se funziona, vede in prima linea i servizi sociali e i centri
antiviolenza. Chi da anni lavora sul tema ed è considerata un’eccellenza è
l’associazione Trama di Terre, fondata a Imola nel 1997. Dal 2011 si è occupata
di 49 donne: 31 dal Pakistan, 4 dall’Albania, 3 dal Bangladesh, 3 dal Marocco,
2 dall’India, 1 dallo Sri Lanka, 1 dalla Tunisia, 1 dalla Costa d’Avorio, 1 dall’Afghanistan,
1 dal Kurdistan, 1 dall’Iran.
L’assistenza è un percorso lungo e il primo
problema è a chi dare l’allarme: servono il momento e la persona giusta, che
sia l’insegnante, una bidella o il referente dello stage. «Dopo la prima
richiesta», spiega l’operatrice e responsabile del centro antiviolenza di
Trama, Alessandra Davide, «cerchiamo di vedere di nascosto le ragazze e ci
vogliono vari colloqui prima che decidano di scappare. È complesso comunicare e
dobbiamo inventarci strategie per incontrarle dove non sono controllate dalla
famiglia». Se la giovane ha meno di 18 anni vengono contattati i servizi
sociali, quindi la Procura dei minori e si può procedere con l’allontanamento.
Se maggiorenne, invece, è la ragazza che deve decidere da sola.
La parte più difficile è preparare alla
separazione dagli affetti: «Come si fa? Si dice la verità», spiega Alessandra
Davide. «Il vuoto che ti lascia l’addio alla famiglia è devastante. Noi
offriamo sostegno per affrontare il dolore, ma quel vuoto non lo riempirà mai
nessuno. Si annullano per poi ricostruirsi un’identità, è un processo
difficile».
Sul matrimonio di queste donne si gioca
l’onore della famiglia. Spesso vengono sposate con i primi cugini per far sì
che le ricchezze non escano dal nucleo, mentre altre, se hanno la cittadinanza
italiana, diventano il modo più veloce per dare il passaporto a un familiare.
In alcuni casi poi, è una punizione per quelle che non seguono le regole della
comunità e vogliono vivere all’occidentale. «Le ragazze che chiedono aiuto
hanno chiaro in testa che non vogliono condividere nessuna intimità con chi non
hanno scelto. Noi riteniamo che si tratti di un vero e proprio stupro
legalizzato. Ma a volte nemmeno questo basta per denunciare i genitori». Per
chi decide di andare avanti si prepara la fuga. «Per sicurezza, le ragazze sono
trasferite il più lontano possibile da casa e chiediamo loro di scegliere un
falso nome, anche se poi non abbiamo il diritto di modificare i documenti. È la
banalità della burocrazia quotidiana: c’è sempre il rischio che, durante una
pratica, la notifica finisca alla residenza della famiglia».
Il controllo della comunità d’origine è
sistematico: subito dopo la scomparsa della ragazza, inizia un’indagine tramite
i referenti sul territorio e le informazioni circolano velocissime.
Il pericolo non è solo essere rintracciate, ma
rimettere in gioco la decisione. Passano i mesi e iniziano i tentativi di
contatto da parte delle famiglie: lettere, richieste di incontri e, per chi ce
la fa, telefonate. Tramite avvocati, operatrici o mediatori, le famiglie
abbandonate fanno di tutto per riavere a casa le figlie. «Le mamme, i papà e i
fratelli», continua Alessandra Davide, «sono attori incredibili. Colgono la tua
fragilità e la utilizzano per farti tornare. Promettono che tutto sarà diverso
o fanno leva sulla minaccia che ci saranno ritorsioni sulle madri, le
sentinelle che erano incaricate di vigilare su di loro. Capita che le ragazze
non solo riallaccino i rapporti, ma anche decidano di tornare a casa». Se maggiorenni,
nessuno le può fermare. «Ognuna decide per sé, noi possiamo solo dare consigli
e continuare a seguirle. Le promesse delle famiglie non vengono quasi mai
rispettate e il controllo diventa ancora più rigido». Con il rischio che, una
volta rientrate, siano portate nel Paese d’origine per riparare al disonore con
un matrimonio. «Una volta fuori dall’Italia, non possiamo più fare niente. Il
fatto che non sia stata approvata la riforma della cittadinanza è stato un
grave danno. Se le nate qui fossero italiane, avremmo più strumenti di
intervento. Se non si svincola il permesso di soggiorno dalla famiglia, questo
diventa inevitabilmente un ulteriore ricatto».
Il rientro è uno dei momenti più delicati per
chi ha seguito da vicino un percorso di “autodeterminazione”, che a Trama ci
tengono a definire femminista perché «mette al centro il tuo essere donna».
«Vedo nei loro occhi», spiega la presidente Dal Pra, «la fiamma di chi sa che
deve lottare per se stessa. Ma è dura. Da poco una delle nostre è tornata a casa
e sappiamo che è in pericolo. Ora le dicono: “Se scappi ti ammazziamo”, mentre
prima non c’era questa minaccia. Qui si vede il nostro limite». Il ritorno è la
parte più difficile da capire. «Sono donne sole. Pagano e pagheranno per tutta
la vita l’emarginazione culturale e dalla loro comunità». E anche per questo è
sbagliato pensare che fuggano perché affascinate dall’Occidente: «Vogliono solo
essere libere di amare. Ma per esserlo, sono costrette a lasciare affetti che
non troveranno più. È un dolore straziante. Credo che servirebbero dei gruppi
di auto-aiuto delle donne, dove chi è fuggita diventa un sostegno per altre. Il
mix di patriarcato e controllo dovuto alla religione è micidiale e non basta
quel bisogno primario di libertà a permetterti di resistere».
Il problema per Dal Pra è anche la solitudine
di chi tratta queste storie: «Il relativismo culturale porta tanti a
giustificare i matrimoni forzati. A dire “è la loro cultura”. Noi abbiamo
subito negli anni un forte isolamento politico per le nostre posizioni».
Il matrimonio forzato è un reato in molti
Paesi europei: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Germania, Gran
Bretagna e Norvegia. Ma il dibattito è molto acceso.
L’associazione inglese Southall Black Sisters,
con cui ha collaborato anche Trama di Terre, sostiene che penalizzare il reato
sia negativo perché molte non vogliono che le famiglie siano perseguite e sono
disincentivate a ribellarsi. Secondo l’avvocatessa Monica Miserocchi, che ha
seguito numerosi casi, avere un reato specifico serve invece a fare chiarezza:
«Sarebbe un messaggio importante per le comunità, far capire che questa pratica
è sbagliata e che da noi non si può fare». Attualmente in Italia, dice, se ne
sottovaluta la gravità: «La lentezza dei procedimenti», spiega, «lascia le
ragazze in un limbo dolorosissimo. Senza contare che, se la loro sicurezza non
è a rischio, non vengono emesse misure cautelari nei confronti dei parenti e
quindi i tempi delle decisioni giudiziarie diventano ancora più lunghi». E non
avere una sentenza, per vittime combattute tra la fuga e il ritorno, mette a
rischio la vita. «Vogliono tutte salvare la madre o la sorella, ma devono prima
salvare loro stesse», chiude Miserocchi. «Se tornano non cambierà nulla, ma non
possiamo fermarle».
Che cosa fa lo Stato? Il dipartimento per le
Pari opportunità ha inserito il contrasto ai matrimoni forzati nelle linee
guida 2017-2020 del Piano d’azione contro la violenza sessuale e di genere. Ma
poi la legislatura è finita e di evoluzioni concrete ce ne sono state poche.
L’urgenza è quella di saper riconoscere i casi in cui l’unione combinata è un
maltrattamento e riuscire a strutturare un sistema di protezione non affidato,
come ora, solo a soluzioni “creative”. «Serve un lavoro di rete», spiega
Maria Concetta Storaci del Consiglio nazionale assistenti sociali. «Spesso sono
vittime invisibili. Se non frequentano la scuola, gli unici a poterle segnalare
sono i medici. Gli episodi sono destinati ad aumentare in una Italia in
evoluzione e a fronte di nuovi arrivi». Un primo passo sarebbe cominciare a
contare i casi: a Palermo è nato a dicembre scorso l’Osservatorio per spose
bambine e matrimoni forzati. È qualcosa, ma è solo l’inizio.
Fondamentale resta il dialogo con le comunità
etniche, dove la pratica di imporre un marito alle giovanissime è ancora
largamente accettata. Iqbal Singh, indiano da oltre dieci anni mediatore
culturale a Reggio Emilia, ha seguito molte ragazze che hanno deciso di
scappare. «Sono casi che spesso avvengono in contesti di fragilità. I padri
sono lavoratori sfruttati che vengono da famiglie in difficoltà, poi colpite
dalla crisi economica. Non hanno il tempo di pensare». La questione è
generazionale e le cose cominciano a cambiare: «I figli iniziano a mettere in
discussione il modello, ma con difficoltà. È come se vivessero in due mondi:
vanno a scuola in Italia, tornano a casa e sono in India o in Pakistan. Cercano
autonomia, anche economica, ma sono ancora dipendenti dalla loro comunità. Il
percorso è lungo».
Sabika Shah Povia, giornalista pakistana nata
in Italia e parte del movimento Italiani senza cittadinanza, la chiama
“generazione di transizione”: «Siamo divisi tra il desiderio di mantenere il
legame con la famiglia e quello di far parte della società italiana, i cui
valori spesso sono diametralmente opposti». Tra cui la diversa concezione del
matrimonio: «Non dobbiamo vederlo con la lente dell’Occidente. Da noi è
considerato un contratto, l’amore va in secondo piano. È la nostra cultura. I
genitori ti propongono una persona con cui credono tu possa avere affinità,
spesso scelta per comodità all’interno della famiglia, e molte l’accettano. Ci
sono pressioni, ma dipende dai contesti. Servirà ancora tempo perché cambi la
tradizione».
Intanto Jasmine, nel salotto della sua casa
rifugio, dice che dove la porterà il destino va bene.
Basta che sia in un posto dove può essere
libera.
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