Lo scorso 5 gennaio papa Francesco ha pronunciato un discorso ai
maestri cattolici. Con l’occasione, ha riannodato i fili di una dottrina
educativa che in questi anni va enunciando, ed ha aggiunto al disegno un
importante elemento.
È degno di nota che gli interventi di Bergoglio su scuola ed educazione passino attraverso la forma del “discorso”, che sembra costituire un ordine del discorso che si colloca in uno spazio intermedio fra la semplice enunciazione di un parere e il pronunciamento ex cathedra delle encicliche: il discorso, spesso seguito da un dialogo, assume un valore esortativo che gli conferisce una forza non lontana da quella della lettera pastorale, e allude nella sua stessa struttura a un destinatario che ne viene coinvolto. In tal modo, a dispetto del registro in apparenza colloquiale, il linguaggio di Bergoglio significa non solo per ciò che dice, ma anche per chi dice; e sembra essere consapevole che la verità di cui vuol farsi latore non è separabile dai suoi effetti. In effetti, l’elusione del campo trascendente, resa possibile dal parlare non ex cathedra, consente di focalizzare l’attenzione sul campo nel quale il linguaggio enuncia: campo costituito dagli educatori, dai maestri, dagli operatori della scuola – in una parola, dal mondo della scuola, nel quale lo stesso Bergoglio sembra volersi iscrivere nel momento in cui prende la parola.
È degno di nota che gli interventi di Bergoglio su scuola ed educazione passino attraverso la forma del “discorso”, che sembra costituire un ordine del discorso che si colloca in uno spazio intermedio fra la semplice enunciazione di un parere e il pronunciamento ex cathedra delle encicliche: il discorso, spesso seguito da un dialogo, assume un valore esortativo che gli conferisce una forza non lontana da quella della lettera pastorale, e allude nella sua stessa struttura a un destinatario che ne viene coinvolto. In tal modo, a dispetto del registro in apparenza colloquiale, il linguaggio di Bergoglio significa non solo per ciò che dice, ma anche per chi dice; e sembra essere consapevole che la verità di cui vuol farsi latore non è separabile dai suoi effetti. In effetti, l’elusione del campo trascendente, resa possibile dal parlare non ex cathedra, consente di focalizzare l’attenzione sul campo nel quale il linguaggio enuncia: campo costituito dagli educatori, dai maestri, dagli operatori della scuola – in una parola, dal mondo della scuola, nel quale lo stesso Bergoglio sembra volersi iscrivere nel momento in cui prende la parola.
Questo campo si viene a costituire attraverso una serie di enunciati
che, pur interni al cattolicesimo bergogliano, costituiscono dei ponti verso
altri ambiti del pensiero, non solo pedagogico, contemporaneo. Non si tratta,
com’è ovvio, di aderire o dissentire, ma di comprendere quali rotture
dell’ordine del discorso apporta la parola del papa argentino: sempre tenendo
presente che tale ordine è in primo luogo simbolico, prima ancora che
descrittivo o pratico. Nondimeno, ci sono importanti conseguenze anche sul
piano della più stretta attualità politica, perché l’attuale pontefice sembra
voler rompere con quell’ideologia tradizionalista che aveva permeato il
pensiero cattolico più reazionario, attorno alla quale si è agglutinato
l’attacco alla scuola da parte di un fronte composito che andava dalla CEI di
Camillo Ruini a CL e alla sua galassia di istituzioni scolastiche (dalla
Compagnia delle Opere alla Fondazione per la Sussidiarietà), passando
attraverso mosche cocchiere come Mastrocola e Galli della Loggia. Un fronte che
ha operato trasversalmente alle maggioranze e ai governi, portando a
compimento, riforma dopo riforma, un disegno di distruzione dell’istruzione e
della scuola.
Vele quindi la pena di riepilogare per sommi capi i temi fondamentali
del disegno educativo di Bergoglio, prima di vedere la novità del discorso del
5 gennaio.
1. La ricerca del bene come coraggio del sapere e della verità: Sapere aude, diceva Kant; parrhesia e ypomoné, dice
Bergoglio. E Foucault non direbbe cosa diversa da ambedue. La libertà rende
liberi: liberi in primo luogo per affrontare la vita con coraggio e pazienza;
ma anche, con gli altri e per gli altri. È in questi termini che viene
(ri)declinato il concetto di “magnanimità” nel discorso alle scuole dei gesuiti
del 7 giugno 2013.
2. La comprensione della realtà fondata sulla “testa ben fatta”,
seguendo l’affermazione di Montaigne riattualizzata da Morin, che ha costituito
una vera e propria linea discriminante rispetto ai cultori della “testa ben
piena”: «è questo il segreto, imparare ad imparare!». Bergoglio fa di più: nel
discorso al mondo della scuola del 10 maggio 2014 (e nel videomessaggio su don
Milani del 19 aprile 2017), riconduce questo principio a don Milani,
collocandosi accanto a chi oggi difende e rivendica la lezione di Barbiana –
penso a La lettera sovversiva di Vanessa Roghi, ai
curatori del Meridiano don Milani, alla sessione dedicata alla Lettera a una professoressa nel recente Festival di Impunita.
La testa ben fatta, per don Milani, è quella che possiede la lingua e conosce
il significato delle parole come fondamento preliminare per una vera
uguaglianza sociale che rompa con la scuola di classe: vale ricordarlo nel
momento in cui è in corso un nuovo, sguaiato attacco a don Milani (e a Tullio
de Mauro: quanto coraggio hanno avuto questi professori e intellettuali,
nell’attendere la morte di de Mauro per poterlo impunemente attaccare!).
3. L’apertura alla realtà
attraverso la pluralità degli approcci, degli “ingredienti”: «Ecco perché ci
sono tante discipline! Perché lo sviluppo è frutto di diversi elementi che
agiscono insieme e stimolano l’intelligenza, la coscienza, l’affettività, il
corpo, eccetera». E qui è palese la vicinanza alla teoria delle intelligenze multiple,
contro la quale si scagliano i sostenitori di una scuola che riduce allo
stretto indispensabile le materie, limitando l’istruzione a ciò che può essere
ridotto a quantità numerabile e valutabile, e infine speso sul mercato del
lavoro. Come se la scuola fosse un apprendistato, una fucina di futuri
lavoratori più o meno ottusi e disciplinati: in ogni caso, per richiamare
ancora don Milani, non in grado di intendere il linguaggio dei contratti di
lavoro.
4. La scuola come luogo degli incontri: «Un altro motivo è che la
scuola è un luogo di incontro. Perché tutti noi siamo in cammino, avviando un
processo, avviando una strada. […] La scuola non è un parcheggio. È un luogo di
incontro nel cammino. Si incontrano i compagni; si incontrano gli insegnanti;
si incontra il personale assistente. I genitori incontrano i professori; il
preside incontra le famiglie, eccetera. […] E noi oggi abbiamo bisogno di
questa cultura dell’incontro». Per dirla col linguaggio di Judith Butler (L’alleanza dei corpi): luogo di alleanze delle
persone, di interconnessione dei corpi dei diversi soggetti lì radunati. E il
carattere poroso della comunità scolastica, intersezione casuale e provvisoria
di un insieme di altre comunità – dunque non «comunità ben definita»
contrassegnata da «confini determinati», nel quale si parla una pluralità di
linguaggi, rende ancor più evidente l’utilità di concatenare il «luogo
d’incontro nel cammino» con la politica della strada di Butler: le alleanze dei
corpi si fanno a partire dai luoghi nei quali i corpi agiscono. Il mantra
reazionario, gerarchizzante e disciplinante «l’insegnante spiega, l’alunno
studia, l’alunno ripete, l’insegnante valuta» di Mastrocola non potrebbe essere
più lontano: né potrebbero essere più alieni quegli estimatori di Mastrocola –
a partire da Matteo Renzi – che le attribuiva il merito di mettere «in discussione modelli
come don Milani o Gianni Rodari» [sic].
5. Il contesto globale nel quale va collocata l’azione educativa,
sovradeterminato oggi dalla riduzione della persona umana a merce, a cosa, dove
si punisce lo spreco del mattone, ma non la perdita della vita del muratore.
D’altronde, già nel 2005 Bergoglio aveva rigettato la “libertà negativa” del
liberalismo (neo– o classico): «Come si può desiderare una società nella quale
l’altro è un potenziale nemico fino a quando non mi dimostra che di me non gli
interessa?». Ed è degno di rilievo che lo stesso rispetto per l’ambiente perde
valore, diventa moda o stile schizofrenico, se non coniuga la difesa
dell’ambiente con la difesa dei diritti degli esseri umani nel loro bios (l’anziano, il lavoratore, ecc.).
L’educazione ecologica non è uno slogan, ma la sperimentazione di uno «stile di
comportamento».
6. Infine, l’apertura verso l’altro, quel «visitatore indiscreto che
cammina per le nostre città, nei nostri quartieri, viaggiando sui nostri
autobus, bussando alle nostre porte». L’omelia di Natale del 24 dicembre scorso
disegna una società futura da conquistare, e concepisce il migrante non solo
come vittima bisognosa di soccorso, ma anche come colui/colei che viene a
turbare, anche nella forma del conflitto, le nostre abitudini per costringerci
«a dare spazio a una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di
sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in
questa terra non ha un posto».
Commentando questa omelia, Lanfranco Caminiti ha scritto di getto, il giorno dopo (sulla sua pagina facebook), parole di cui credo di poter condividere anche le virgole:
Commentando questa omelia, Lanfranco Caminiti ha scritto di getto, il giorno dopo (sulla sua pagina facebook), parole di cui credo di poter condividere anche le virgole:
Papa Francesco ha fatto un discorso bellissimo sulle orme dei
tanti passi nel mondo costretti a lasciare le loro terre e i loro cari,
ricordando come tra i primi migranti ci fossero proprio Giuseppe e Maria, e
Gesù che dà a tutti i noi un documento di cittadinanza, perché nessuno debba
sentire che in questa terra non ha un posto. Lo so, lo so, qui si predica agli
uccelli, è un umanitarismo del piffero, e io sono un inveterato mangiapreti
(insomma, col prete del paesello dove vivo ho un bel rapporto, lui è sempre in
prima fila per le lotte del territorio). Però, che devo dire, so’ proprio
diventato vecchio e rinco, a me queste parole vanno dritte al cuore, e non me
ne vergogno. Che nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto – è
il programma politico più bello che ho sentito: sembra il dottor Martin Luther
King.
La novità del discorso del 5 gennaio è il riconoscimento della
rottura del patto educativo fra scuola, famiglia e Stato: la rottura di
un’alleanza che va assunta come problema, rispetto alla quale non ci sono
soluzioni già date o “naturali”. Qui vale citare per intero le parole di
Bergoglio:
Io sono convinto che il patto educativo è rotto; è rotto il patto
educativo tra scuola, famiglia e Stato; è rotto, dobbiamo riprenderlo. Tutti
sappiamo che questa alleanza è da tempo in crisi, e in certi casi del tutto
rotta. Una volta c’era molto rinforzo reciproco tra gli stimoli dati dagli
insegnanti e quelli dai genitori. Oggi la situazione è cambiata, ma non
possiamo essere nostalgici del passato. Bisogna prendere atto dei mutamenti che
hanno riguardato sia la famiglia sia la scuola, e rinnovare l’impegno per una
costruttiva collaborazione – ossia, ricostruire l’alleanza e il patto educativo
– per il bene dei bambini e dei ragazzi. E dal momento che questa sinergia non
avviene più in modo “naturale”, bisogna favorirla in modo progettuale, anche
con l’apporto di esperti in campo pedagogico. Ma prima ancora bisogna favorire
una nuova “complicità” – sono cosciente dell’uso di questa parola –, una nuova
complicità tra insegnanti e genitori. Anzitutto rinunciando a pensarsi come
fronti contrapposti, colpevolizzandosi a vicenda, ma al contrario mettendosi
nei panni gli uni degli altri, comprendendo le oggettive difficoltà che gli uni
e gli altri oggi incontrano nell’educazione, e così creando una maggiore
solidarietà: complicità solidale.
Ieri la parte più reazionaria del mondo cattolico (basti pensare al
libro-manifesto della CEI La sfida educativa del
2009, prefatto da Camillo Ruini) agitava lo stendardo di una “emergenza
educativa” letta come prodotto della modernità, invocando un ritorno al
“patrimonio di valori” della tradizione: «Ci vuole l’educazione e ci vogliono
maestri capaci di insegnare. Ma è difficile avere l’una e gli altri se non c’è
un patrimonio di valori e di saperi, diciamo pure una tradizione, ritenuta
degna di essere tramandata». In termini pratici, questo invocato ritorno alla
tradizione si è tradotto nell’attacco alla scuola pubblica, per abbassarne il
livello e favorire le lobby private di CL/Compagnia delle Opere. Oggi Bergoglio
non propone soluzioni calate dall’alto, né un facile e normalizzante ritorno a
un passato già pronto a fornire i vecchi, rassicuranti “valori”; ma propone una
nuova progettualità e una nuova, consapevole complicità fra
insegnanti e genitori che parte dal basso: a ben vedere, anche da un
ripensamento delle relazioni di prossimità e distanza esistenti fra i soggetti
(sempre parziali) del mondo della scuola, ai quali è richiesto il superamento
di reciproci confini, delimitazioni, linguaggi.
Pubblicando nel 2010 il mio La scuola è di tutti,
ho sottotitolato il titolo-slogan con: Ripensarla, costruirla,
difenderla. Nella consapevolezza che senza una rivoluzione della
scuola non si rivoluziona la società, ma anche che senza rivoluzionare la
società non si salva la scuola. Oggi ritrovo quei tre verbi, quelle tre
indicazioni di lotta, nella proposta educativa di papa Francesco. Voglio essere
chiaro: nel richiamo di Bergoglio alla lettera di don Milani a Pipetta del
1950, letta nel videomessaggio su don Milani, leggo la proposta di un cammino
comune, non di una proposta o richiesta conversione:
Il giorno – scriveva don Milani al comunista Pipetta – che avremo
sfondato insieme la cancellata di qualche parco, istallato la casa dei poveri
nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno ti
tradirò. Quel giorno io non resterò con te. Io tornerò nella tua casuccia
piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando
tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un
sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete” [= “Beati quelli che sono affamati
e assetati di giustizia, perché saranno saziati”, Mt. 5, 6].
Quando quel giorno verrà, si separeranno delle strade. Per ora, per
installare la casa del povero nella reggia del ricco che affama e asseta il
povero nel corpo e nello spirito – che sono una sola cosa –
sfondando le cancellate, i confini, i muri – soprattutto quelli, maledetti, che
sono nelle teste della gente che non ha futuro – io credo che Bergoglio, come
compagno di strada, vada accettato. Anche criticato, quando è giusto e com’è
giusto: ma le sue sfide e aperture non vanno lasciate cadere.
Grazie per aver riportato quest'interessante presa di posizione di papa Francesco.
RispondiEliminapapa Francesco è più avanti di tanti, temo non possa dire sempre quello che potrebbe o vorrebbe, ma è solo la mia opinione
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