Qui l'articolo introduttivo della serie: Why Africa?
Ho
scritto On the Postcolony (Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2005)
principalmente di notte. Era l’inizio degli anni ’90, quando l’ombra cupa
dell’Afro-Marxismo cominciava a dileguarsi. Sembrava, a quel punto, che gli
studi sull’Africa dovessero rimanere intrappolati in un drammatico stallo
analitico. Erano molti gli studiosi che mettevano in circolazione mappe del
presente sempre più inutili, proprio nel momento in cui nuovi drammi si stavano
profilando.
Mentre la
crisi delle scienze sociali si aggravava, in campi disparati come il design, la
narrativa, la moda, la pittura, la danza e nell’ambito dell’estetica in
generale emergevano tendenze innovative, persino un nuovo modo di pensare. In
tutte quelle discipline fondate sull’immaginazione si andava sviluppando una
sorta di riconciliazione tra la cosiddetta identità africana e una certa idea
di mondanità, se non proprio di cosmopolitismo.
Ma una
biografia di On the Postcolony non sarebbe completa senza un
riferimento diretto alla musica africana. Ho scoperto la musica congolese alla
fine degli anni ’80; epoca di programmi di aggiustamento strutturale, guerre
predatorie, crudeltà e stupidità presentate come capacità di governare, colpi
di stato militari e rivoluzioni sociali continuamente rinviate. La sublime
emotività dell’immaginazione musicale congolese mi ha insegnato quanto fosse
indispensabile pensare attraverso la fisicità dei sensi, scrivere attraverso la
musicalità della propria carne.
Attraverso
questa musica non solo potevo sentire muoversi l’energia, potevo anche cogliere
la verità del monito di W.E.B. du Bois: “La vita non sono semplicemente i
fatti”. La musica ha la capacità di coniugare l’anima e la materia. E davvero
in Africa la musica è stata sempre la celebrazione dell’impossibilità di
sradicare la vita, all’interno di una lunga storia di negazione della vita. È
il genere che storicamente ha espresso, nella maniera più tenace, il nostro
furioso desiderio non solo di esistere, ma di provare gioia nell’esistere:
quello che potremmo chiamare l’esercizio, la pratica della gioia prima della
morte.
Il romanzo
africano è l’altro elemento biografico diretto di questo libro. Dai tardi anni
’80 in poi la migliore narrativa africana celebrava già la fine del progetto
nazionalista e delle pretese dei governanti africani post coloniali di assumere
il ruolo del Padre. Allo stesso tempo, il romanzo ci avvertiva dell’emergere di
forze nuove, insolite, che non potevamo del tutto cogliere né comprendere
attraverso i linguaggi concettuali dominanti di allora (sviluppo, relazioni tra
stato e società, società civile).
Ho iniziato
a leggere l’opera dello scrittore congolese Sony Labou Tansi alla fine degli
anni ’80. In La Vie et demie, L’État honteux, Les
Sept solitudes de Lorsa Lopez[1] o La
Parenthèse de sang, la sperimentazione veniva sempre prima dell’ontologia.
Si costruivano ponti inaspettati tra astrazione e concretezza, ragione,
emozione e affettività, coscienza, inconscio e onirico. Arte e pensiero
prendevano vita e risuonavano l’uno nell’altra.
L’idea di
Tansi di un accordo costantemente rinviato per permettere di introdurre nuove
domande nel discorso rivelava il bisogno di espandere il dizionario per dare
spazio a un ripensare, un reinventare: per permettere alla differenza di
diventare produttiva. La contingenza, l’incertezza e l’effimero sembravano
offrire un vasto serbatoio di libertà e improvvisazione creativa (free play).
Ho trovato la stessa abilità nel cogliere l’intangibile in L’ivrogne
dans la brousse di Amos Tutuola (Il bevitore di vino di palma,
Feltrinelli, Milano 1961, orig. The Palme-wine Drinkard) e in Le
Devoir de violence di Yambo Ouologuem (Dovere di violenza, il
Saggiatore, Milano 1970).
Fu a quel
punto che decisi di scrivere un libro in cui dare spazio alle risonanze e alle
interferenze tra modi diversi di pensare senza che uno di questi prevalesse
sugli altri. Il modo migliore per farlo era chiedersi quale forma avrebbe
potuto assumere una critica politica ed estetica del Padre nell’Africa
dell’ultimo quarto del XX secolo e come, a causa delle sue potenti risonanze –
e, mi auguravo, della sua unicità esplicativa – una critica del Padre (la
“cosa” e i suoi doppi) ci avrebbe permesso di scrivere una storia alternativa
del nostro presente.
Di On
the Postcolony si può dire, perciò, che è il tentativo di svelare che
cosa si nasconda dietro la maschera del Padre. Quale forma assume il Padre dopo
la fine del colonialismo in senso stretto? Che aspetto ha il suo viso? Quali
sono i suoi contorni? Che cosa viene messo in scena per mezzo del Padre, e a
quali apparenze dà luogo?
Parafrasando
Deleuze, quel che avevo trovato era una specie di “culo del capro espiatorio”
che viveva “colpito da maledizione” (Millepiani, Castelvecchi, Roma
1997, p. 191) e stava di fronte alla faccia del dio pagano, morte occultata
nell’oscurità ma anche oscurità manifesta e maleodorante nella piena luce del
giorno. On the Postcolony guarda dunque in quali maniere
questo Fallo che ha le sembianze di un culo di capro rappresenta se stesso e
come si rifrange nella coscienza di coloro che vivono sotto il suo incantesimo.
Ossia, in breve, qual è il significato della vita vissuta sotto il suo segno e
come risultato del suo potere (de)generativo.
Questo modo
di pensare e di scrivere deriva in gran parte dai miei studi specifici sulla
tradizione intellettuale francese del secondo dopoguerra (rappresentata, per
esempio, da Bataille, Merleau-Ponty, Foucault, Blanchot, Deleuze). Ma, come ho
già detto, si radica anche nella lettura del romanzo francofono africano e
nell’ascolto della musica africana della fine del XX secolo.
Entrambe
queste tradizioni mi hanno insegnato che pensare è sperimentare. Pensare è
anche recuperare e salvare il potere figurativo dell’allegoria applicata ai
domini specifici dell’esperienza umana, dei quali è la forma di espressione
adeguata, o il linguaggio concettuale, che serve a esprimere questa esperienza
soltanto. Pensare, infine, è imbarcarsi in un viaggio della mente, e scrivere è
una forma di godimento. È per questo che in On the Postcolony volevo
sperimentare la sensazione che si produce quando la mente è disposta a lasciar
andare le cose in direzioni imprevedibili, correndo il rischio di trovarsi
faccia a faccia con desideri e paure inesprimibili e di risvegliare le forze
soprannaturali dei nostri inferi.
Questa è
forse la ragione per cui chi ha letto On the Postcolony senza
una disposizione d’animo filosofica lo ha definito pessimistico. Vengo da una
tradizione nella quale “pensare” (penser) equivale a “pesare” (peser)
e a “esporre”. Pensare criticamente significa lavorare sulle linee di confine
tra opposti, percepire il tocco caotico dei nostri sensi, trasferire nel
linguaggio le logiche costitutive del nostro mondo.
La critica è
testimonianza, ma è anche un vigilare, un interrogarsi e un anticipare senza
fine. Una critica seria ci richiede innanzitutto di dimorare nel caos della
notte, precisamente allo scopo di aprirci meglio un varco nella luce
abbagliante del giorno.
Riconosciamo
un momento di pessimismo quando gli strati del passato e il mondo del presente
cadono nel vuoto; si tratta di questo, un luogo che non è un luogo.
Riconosciamo un momento di pessimismo quando banalizziamo l’esperienza umana o
suscitiamo un’empatia o un disprezzo mal riposti, quando, incapaci di liberare
il linguaggio, soccombiamo alla semplice materialità dell’esistente.
Entriamo in
una “oscura notte del linguaggio” quando il suo potere di esprimere
simbolicamente all’improvviso viene menomato, e invece di rivelare quel che si
nasconde nell’ovvietà e quel che giace sotto la superficie, oltre la maschera,
il linguaggio gira su se stesso nascondendo ciò che dovrebbe mostrare.
Dall’arte,
la letteratura, la musica e la danza ho imparato che esiste un’esperienza
sensoriale delle nostre vite che comprende forme, tinte e trame innumerevoli,
innominate e innominabili, di cui la “conoscenza oggettiva” non è riuscita ad
appropriarsi. Il linguaggio di queste forme di espressione comunica il modo in
cui le persone comuni ridono e piangono, lavorano, giocano, pregano,
benedicono, amano e maledicono, creano uno spazio in cui esistere e camminare,
cadere e morire.
La
letteratura, e la musica in particolare, sono anche pratiche di dissacrazione e
profanazione. Ognuna a suo modo implica un gioco paradossale e a volte
rischioso con i limiti – quelli determinati dall’ordine politico o morale e
quelli che modellano il linguaggio e lo stile, il pensiero e il significato.
La forza quieta
delle pratiche artistiche africane va cercata nel modo in cui vedono ogni
momento o istante dell’esistenza umana come interamente fortuiti e allo stesso
tempo assolutamente singolari. Nella migliore tradizione dell’arte, la musica e
la letteratura africane, ogni momento dell’esistenza umana è fatto di punti di
intensità che non sono mai stabili. In On the Postcolony non
c’è nulla che assomigli a una storia lineare. L’Africa non sarà mai un dato.
Ma
affrontare il passato e interrogare il futuro ci aiuta a riflettere
criticamente sul presente. Il presente inteso come questo spazio vulnerabile,
questo punto d’accesso precario ed elusivo attraverso il quale, se tutto va
bene, una vita radicalmente differente potrebbe fare la sua comparsa. Non c’è
futuro senza speranza: la speranza che potremo convertire questa vita terrena
radicalmente differente in una possibilità sociale concreta, una trasformazione
sistemica nella logica del nostro essere-in-comune e essere-nel-mondo come
esseri umani.
(Traduzione
di Caterina Grimaldi)
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