Pubblichiamo
l’intervento del filosofo camerunense Achille Mbembe sull’ondata di violenza
contro i migranti che si sta verificando in Sudafrica. Grazie all’autore e al
sito Africa is a country per aver permesso la
pubblicazione italiana di questo testo.
La
traduzione è a cura di Lorenzo Alunni.
“Afrofobia”? “Xenofobia”? “Razzismo del nero verso il
nero”? Se qualcuno di “più scuro” come te può attaccare uno “straniero” con il
pretesto del suo essere troppo scuro, non si tratta della forma per eccellenza
dell’odio contro se stessi? È di certo così! Ieri ho chiesto a un tassista:
«Perché hanno bisogno di uccidere così tutti quegli “stranieri”?» La sua
risposta: «Perché ai tempi dell’Apartheid il fuoco era l’unica arma in mano a
noi neri. Non avevamo né munizioni né pistole né niente del genere. Con il
fuoco potevamo preparare bombe incendiarie e lanciarle contro il nemico da una
distanza di sicurezza». Oggi quella distanza non serve più. Per uccidere
“quegli stranieri” ci serve solo di essere più vicini possibile ai loro corpi,
per poi darli alle fiamme o squarciarli, e ogni colpo apre una tremenda ferita
che non si potrà mai rimarginare. Oppure, se mai si rimarginerà, dovrà lasciare
su “quegli stranieri” una cicatrice che non sparirà mai.
Durante l’ultima ondata di violenza contro “quegli
stranieri” mi trovavo in Sudafrica. Da allora, le metastasi di questo cancro si
sono diffuse dappertutto. La caccia allo “straniero” attualmente in corso è il
prodotto di una complessa catena di complicità, alcune delle quali esplicite e
altre tacite. Il governo sudafricano ha recentemente assunto una posizione
severa nei confronti dell’immigrazione. Alcune nuove e draconiane misure sono
diventate legge. Poche settimane fa ho partecipato a una
riunione del personale “straniero” alla Wits University. Si è susseguita
un’orrenda storia dopo l’altra. Permessi di lavoro non rinnovati, visti
rifiutati ai familiari, bambini lasciati in una situazione sospesa a scuola.
Una situazione kafkiana che si sta allargando anche a studenti “stranieri” che
sono entrati legalmente nel Paese, che hanno regolarmente rinnovato il visto
per tutto questo tempo, ma che si trovano ora in una situazione d’incertezza
legale, impossibilitati a portare avanti le procedure burocratiche e ad avere
accesso al denaro a cui hanno diritto e che gli è stato dato da alcune
Fondazioni. Con le sue nuove regole anti-immigrazione, il governo è impegnato in
un’operazione di trasformazione dei migranti prima regolari in migranti
irregolari.
La concatenazione di complicità si spinge oltre. Gli
affari sudafricani si stanno espandendo in tutto il continente, riproducendo in
quei luoghi le peggiori fra le forme di razzismo tollerate in Sudafrica durante
l’Apartheid. Mentre i grandi affari si stanno “de-nazionalizzando” e “africanizzando”,
il Sudafrica nero più povero e parti della classe media vengono spinti
socialmente verso qualcosa che potremmo chiamare “nazional-sciovinismo”. Il
nazional-sciovinismo sta risollevando la sua orribile testa in praticamente
tutti gli angoli della società sudafricana. Il fatto però è che il
nazional-sciovinismo ha il costante bisogno di capri espiatori. Si
comincia con coloro che non sono nostri parenti. Ma si passa poi molto
velocemente a una lotta fratricida. Il nazional-sciovinismo non si ferma a
“quegli stranieri”. Ha nel suo Dna il trasformarsi in drammatico gesto
d’inversione.
Durante l’ultima “stagione di caccia” ero qui in
Sudafrica. Stavolta, la differenza è l’insorgere di alcuni elementi di una
“ideologia”. C’è ora la sembianza di un discorso che mira alla giustificazione
delle atrocità, il massacro strisciante – perché di questo si tratta in realtà.
Un florilegio di massacri, anzi. I discorsi giustificatori cominciano con i
soliti stereotipi: sono più scuri di noi, ci rubano il lavoro, non ci
rispettano, sono usati da bianchi che preferiscono sfruttare loro piuttosto che
dare lavoro a noi, quindi evitando quello che serve per un’azione
affermativa. Ma il discorso sta diventando sempre più aggressivo. Può essere riassunto
così: il Sudafrica non ha nessun debito morale con l’Africa. Si
vuol parlare degli anni dell’esilio? No, c’erano meno di 30.000 sudafricani in
esilio (mi è stato offerto questo dato con forza, ma non ho idea da dove
provenga), ed erano sparsi in tutto il mondo: quattromila in Ghana, tremila in
Etiopia, alcuni in Zambia, e molti di più in Russia ed Europa dell’Est! E
allora non accetteremo di subire un ricatto morale da parte di “quegli
stranieri”.
Bene,
proviamo allora a porre qualche domanda difficile. Perché il Sudafrica sta diventando un luogo di
morte per africani non sudafricani (ai quali dobbiamo aggiungere bengalesi,
pachistani, e poi chissà chi altri)? Perché questo Paese ha storicamente
rappresentato un “circolo di morte” per qualsiasi cosa e qualsiasi persona “africana”?
Quando diciamo “Sudafrica”, cosa sta a significare la parte “-Africa”? Un’idea
o solamente una circostanza geografica? Dovremmo forse cominciare a
quantificare cosa è stato sacrificato da Angola, Mozambico, Zimbabwe, Namibia,
Tanzania e altri per le lotte di liberazione? Quanti soldi ha dato il
Liberation Commitee of the Organizazion of African Unity (Oua) ai movimenti di
liberazione? Quanti dollari ha pagato lo Stato della Nigeria per la lotta
sudafricana? Se dovessimo mettere un prezzo alle distruzioni inflitte dal
regime di Apartheid sull’economia e le infrastrutture dei Paesi che facevano
parte dell’organizzazione Frontline States, a quanto ammonterebbe? E una volta
che questo prezzo fosse stato quantificato, dovremmo mandare il conto al
governo dell’Anc (African National Congress) che ha ereditato lo Stato del
Sudafrica e chiedergli di restituire quanto è stato speso in nome dei neri
oppressi in Sudafrica durante tutti questi anni? Non saremmo in diritto di
aggiungere a tutti questi danni e perdite il numero di persone uccise dagli
eserciti dell’Apartheid i quali si vendicavano contro i nostri combattenti che
si trovavano con i combattenti Sudafricani, il numero di persone mutilate, la
lunga catena di miseria e indigenza sofferta in nome della nostra solidarietà
con il Sudafrica? Se i Sudafricani neri non vogliono sentir parlare di debito morale,
allora forse è ora di essere d’accordo con loro, di portargli il conto e di
chiedere riparazioni economiche.
Stiamo tutti vedendo l’assurdità di questa logica gretta
che sta trasformando questo Paese nell’ennesimo luogo di morte per le persone
più nere, “quegli stranieri”. Ma non sarebbe assurdo, visto che il governo del
Sudafrica non può o non vuole proteggere dall’ira della propria gente chi si
trova qui legalmente, fare appello a un’autorità più alta. Il Sudafrica ha
firmato praticamente tutte le convenzioni internazionali, compresa la
convenzione che stabilisce l’esistenza del Tribunale penale internazionale
dell’Aia. Alcuni degli istigatori dell’attuale “stagione di caccia” sono noti.
Alcuni di loro hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche che incitano
all’odio. C’è modo di pensare di denunciarli all’Aia? L’impunità genera impunità e
atrocità. È la via più breve per il genocidio. Se questi
perpetratori non possono essere denunciati dal governo del Sudafrica, per avere
a che fare con loro non è ora di rivolgersi a una giurisdizione più alta?
Concludo con qualche parola a proposito di “stranieri” e
“migranti”. Nessun africano è straniero in africa! Nessun africano è migrante in
Africa! L’Africa è il posto a cui apparteniamo tutti noi, a dispetto della
stupidità dei nostri confini. Nessun nazional-sciovinismo
può cancellare tutto ciò. Nessuna espulsione può farlo, siano quante siano.
Invece che spargere sangue nero su niente poco di meno che Pixley ka Seme
Avenue (!) [Pixley ka Isaka Seme fu il fondatore e presidente
dell’African National Congress, e il primo avvocato nero in Sudafrica, ndt],
dovremmo essere tutti sicuri di aver ricostruito questo continente e portato a
termine una lunga e dolorosa storia che, per troppo tempo, ha fatto sì che
essere neri – non importa dove o quando – sia una responsabilità.
Nessun commento:
Posta un commento