Antonio Gramsci nel suo articolo “Socialismo e
Cultura”, comparso su “Il Grido del Popolo” il 29 Gennaio 1916
scriveva che «bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come
sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di
recipiente da riempire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi
che egli poi dovrà incasellare nel suo cervello come nelle colonne di un
dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo
esterno». Per il pensatore di Ales infatti ogni mutamento rivoluzionario è caratterizzato
«da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di
idee» da parte di persone che inizialmente perseguono il loro interesse e che
prendono coscienza del loro essere massa.
La socializzazione della cultura non è solo un fatto
di diffusione capillare di un quantitativo di sapere, quanto il socializzare
l’atto stesso dello studio: la cultura è relazione dialettica tra soggettività
diverse. Il problema cruciale è però che la cultura è sempre e comunque figlia
dei rapporti di potere della società nella quale si vive. Quindi il compito
dell’intellettuale è quello di incarnare lo spirito di scissione,
di acquisire la consapevolezza della storicità e della dialetticità della
realtà: insomma il suo compito sarà quello di destrutturare e delegittimare le
dinamiche della cultura dominante.
Incarnare lo spirito di scissione significa
essere militante: non è militante solo chi lotta nelle strade, nelle piazze,
davanti alle reti dei poligoni, ma anche chi lavora attivamente per la produzione
di sapere critico, avulso dalle logiche di mercato. Il portatore di sapere è
militante per definizione, è soggettività in lotta nei confronti di un sistema
che fa di tutto per annichilire ogni tentativo di rottura.
L’università in particolare è bombardata dal sistema:
la sua stessa struttura è caratterizzata da una riproposizione del processo di
riproduzione del capitale. Il C.F.U., come il capitale è lavoro accumulato:
certamente non è equivalente del lavoro in fabbrica, ma è la stessa dinamica
che si ripete nel microcosmo universitario. La laurea non è altro che un
prodotto acquistabile ad un certo prezzo stabilito in C.F.U.
La ricerca non versa in condizioni migliori rispetto
alla didattica: I dottorati considerati inutili vengono tagliati e in quelli
rimanenti la ricerca non è libera ma segue i criteri del mercato, mentre i
ricercatori, per sopravvivere, devono seguire la logica del “public or perish”
per poter andare avanti con il finanziamento privato come unica boccata d’aria,
senza badare a chi finanzia la ricerca.
In un contesto come questo, l’intellettuale, quale
produttore e portatore di sapere è militante per definizione: è necessario,
infatti, per capire e destrutturare le dinamiche di potere, dotarsi di
strumenti di analisi tali da comprendere il mondo grande e terribile che
ci circonda, trasformandolo. Non basta più portare avanti iniziative culturali
fine a sé stesse, siamo chiamati e chiamate alla mobilitazione: la cultura è
integralmente politica. Siamo chiamati e chiamate a creare un’alternativa
convincente alla narrazione dominante: un’alternativa autogestita.
La nascita di un centro studi risponde a queste
esigenze. Si tratta di aprirsi a nuove possibilità politiche, teoriche e
pratiche, da costruire collettivamente, in un momento in cui è fondamentale
riconquistare ogni centimetro che ci viene rubato dalla controparte, non solo
di spazio fisico, ma anche di spazio di azione teorica e pratica.
L’esigenza di creare un centro studi non viene solo da
elucubrazioni teoriche, ma da esigenze concrete. Ci si trova, sempre più
spesso, nei movimenti sociali ad essere tesi tra una prassi cieca, in quanto
non ha basi teoriche e una teoria del tutto vuota in quanto non ha finalità
emancipativa. Il lavoro del centro studi si propone di svelare e raggiungere
l’unione concreta di teoria e prassi, indissolubilmente legate tra di loro.
Abbiamo bisogno di riappropriarci della cultura che ci
circonda, abbiamo bisogno di utilizzare un approccio multidisciplinare e
trasversale alla realtà che ci circonda, attraversando le peculiarità e le
interconnessioni tra le scienze e la realtà: gli interessi di studio dovranno
infatti spaziare dalla filosofia, all’antropologia, alla storia, alla
sociologia, alla scienza politica, alle scienze naturali, alla metodologia e alle
tematiche della lotta sociale.
L’obiettivo che il Collettivo Universitario Autonomo
si sta proponendo è essenzialmente quello di creare un luogo, fisico e teorico
di produzione e socializzazione dei saperi che tenga conto delle trasformazioni
del mondo contemporaneo. Che sia non solo legato ai movimenti sociali che
caratterizzano Cagliari e l’intera Sardegna (dalla lotta contro le basi
militari, alla lotta per la casa, alle lotte contro la speculazione
energetica), ma che riesca a andare oltre attraversando tutti i campi dello
scibile.
Non si vuole proporre una brutta copia dell’università
e che risponda alle stesse esigenze elitarie della ricerca accademica, sebbene
su argomenti considerati “critici”. Ciò che distingue un centro studi
autogestito non è il contenuto degli studi, ma il metodo: dobbiamo imparare a
studiare collettivamente stimolando esperienze di con-ricerca e di gruppi di
studio, rispetto allo studio sempre più individualizzante della ricerca
universitaria.
Il progetto consta di tre principali parole
d’ordine: documentazione, formazione e produzione. Documentazione in
quanto ambiamo ad avere una cognizione storica e dialettica del passato: è in
corso, infatti, la creazione di una biblioteca che vanta già più di 2000 volumi
e di un archivio sui movimenti sociali in Sardegna dagli anni ’60 ad oggi.
Formazione ed auto-formazione sono la seconda parola d’ordine: abbiamo bisogno
di affilare le armi della critica attraverso la libera
ricerca, lo studio collettivo, seminari, conferenze, presentazioni di libri ed
eventi culturali. Produzione in quanto vorremmo fornire un costante apporto
culturale e teorico da far uscire dalle mura del centro studi: ambiamo alla
creazione di una rivista e magari, di una casa editrice.
Nel contesto sardo abbiamo molto da costruire. Ci sono
focolai di resistenza, politica e culturale, ovunque. Si tratta di
organizzarsi, di unire le forze per ingrandire le fila degli incompatibili con
le dinamiche del potere: abbiamo un mondo di possibilità, teoriche e pratiche
da costruire assieme. Proprio per questo vogliamo lanciare un appello a tutte e
tutti coloro che sentono la necessità di fare della cultura un campo aperto di
lotta politica: organizziamoci, «perché avremo bisogno di tutta la nostra
forza».
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