E’ trascorso poco più di un mese dalla più cocente
sconfitta della sinistra dalla nascita della Repubblica. La sensazione, però, è
che non si abbia sufficiente consapevolezza delle sue dimensioni e sopratutto
delle implicazioni che essa comporta. Il 4 marzo ad essere sconfitto non è
stato solo il PD ma l’intera sinistra. In Sardegna, poi, la debacle assume
significati e proporzioni ancora più allarmanti, visto che da quasi cinque anni
la regione è guidata dal PD. Tutto lascia pensare che, tra un anno, si
interromperà la storica alternanza che ha visto il rigido susseguirsi di giunte
di destra e di sinistra e verosimilmente la Regione sarà governata dal
M5S. E’ sconcertante, di fronte a tutto questo, l’afasia del PD: l’assenza di
un briciolo di autocritica, di uno straccio di analisi, di proposta. L’immagine
è quella di un partito che da molto tempo ha smesso di fare politica, avulso
dalla realtà che lo circonda, lontano dai bisogni della parte più debole
e fragile della società sarda. Impegnato nell’ennesima disputa tra i diversi
capi corrente che da anni si contendono la spartizione del potere in Sardegna,
e che oggi si addossano vicendevolmente la responsabilità della sconfitta: un
gruppo di notabili che si azzuffano sulla tolda del Titanic. Non sta meglio la
sinistra “alla sinistra del PD”. Un alleanza elettorale che è riuscita a
mettere insieme tutto il peggio della vecchia sinistra e ad occultare il nuovo
che in questi anni è cresciuto all’interno dei movimenti: quello che voleva
essere il nuovo è stato percepito come vecchio e ininfluente. Ricostruire la
sinistra significa prima di tutto riaffermare le ragioni stesse che stanno alla
base della esistenza di una moderna sinistra di governo: lotta alle
disuguaglianze, giustizia sociale, la piena affermazione di diritti
costituzionalmente garantiti ma troppo spesso negati (diritto al lavoro, alla
salute, alla istruzione, tutela dell’ambiente e del paesaggio). Ricostruirla in
Sardegna significa avere la capacità di dare risposte concrete ad alcune
questioni che attanagliano la realtà sarda. Cinque anni di governo “renziano” e
altrettanti di giunta regionale di centro-sinistra e, pare, forse,
indipendentista, hanno lasciato una eredità pesante. La Sardegna è oggi
un’isola di vecchi, di disoccupati, con un basso livello di istruzione e di
conoscenza. Un alto tasso di invecchiamento, il più alto tra le regioni
italiane e tra i più alti tra quelle europee; un basso indice di natalità; una
disoccupazione del 17 per cento, un giovane su due è senza lavoro; un basso
numero di laureati ed un alto indice di abbandono scolastico. Un territorio
interessato da un processo di spopolamento che sta trasformando la “Sardegna di
dentro” in una landa desolata. Un modello di sviluppo che si trascina da
sessanta anni sostanzialmente immodificato: una industrializzazione imperniata
sull’uso di combustibili fossili (petrolio e carbone), sulla licenza di
inquinare, su un odioso ricatto che ha contrapposto diritto al lavoro e diritto
alla salute, sul consumo e la rapina del territorio. La giunta regionale, in
questi anni, si è posta in una condizione di sostanziale continuità con quel
progetto di sviluppo. Si riparla di centrali a carbone, si insiste con gli
inceneritori, il petrolio, ora il metano. Si persiste con la volontà di
cementificare il suolo, in particolare le coste. Il disegno di legge
urbanistica è paradigmatico: si offre la possibilità di incrementare le
volumetrie degli alberghi nella fascia dei trecento metri e si consente ai
grandi gruppi imprenditoriali (vedi Qatar) di costruire nuove strutture
ricettive non consentite, oggi, dal Piano Paesistico Regionale. Ampie porzioni
di territorio sono interessate da un inquinamento che ha avvelenato l’acqua,
l’aria e il suolo, e dove gli uomini e le donne muoiono di più a causa
dell’alta incidenza delle patologie tumorali e autoimmuni, e i bambini
presentano gravi modificazioni del DNA. Tutto questo a fronte di una
organizzazione sanitaria tanto costosa quanto inefficiente, aggravata da
una “riforma” irrazionale e cervellotica, finalizzata esclusivamente a tagliare
la spesa sanitaria e con essa la qualità e l’esistenza stessa dei servizi
sanitari ai cittadini: degrado dei presidi ospedalieri (ad iniziare dal
Brotzu), lunghe liste d’attesa per esami diagnostici fondamentali. In una
regione dove viene negato ad una parte importante di cittadini il diritto alla
salute: i giovani e gli anziani rinunciano a curarsi perché non possono pagarsi
il ticket. Vi è poi la questione istituzionale. Si pone la necessità di
ripensare il Patto Costituzionale che lega la Sardegna allo Stato italiano.
Sono in tanti a pensare che l’Autonomia Speciale sia oramai una scatola vuota,
un simulacro privo di poteri. L’Autonomia è diventata uno strumento inadeguato
rispetto ai bisogni di autogoverno che si agitano all’interno della società
sarda. Quel Patto è stato disatteso e disconosciuto per primo da uno dei
contraenti, lo Stato italiano, ma grandi sono le responsabilità della classe
politica dirigente sarda che non è stata capace di utilizzare appieno le
potenzialità dello Statuto. Sarebbe sbagliato continuare nella stanca
riproposizione di questa Autonomia. Bisogna avere il coraggio di intraprendere
strade nuove ed inesplorate, aprire un confronto con quei movimenti che
da anni, con coerenza e serietà, si battono per l’autodeterminazione e
l’autogoverno. Sono queste solo alcune delle domande a cui deve saper dare una
risposta una moderna sinistra di governo. Nella consapevolezza che solo un
progetto politico capace di rispondere ai bisogni primari dei cittadini – in
particolare gli emarginati, i più deboli e fragili, gli ultimi e gli scarti di
questa società – potrà consentire alla sinistra di continuare ad avere un ruolo
nel Paese e in Sardegna. Il 4 marzo è avvenuta una mutazione epocale: o la
sinistra sarà capace di leggere e di interpretare questo cambiamento oppure
niente sarà più come prima. Ad iniziare dalla sinistra.
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