Crimine di solidarietà: può apparire una contraddizione in termini ma
l’espressione restituisce il senso di un campo conflittuale che vede, da un
lato, cittadini e cittadine europei che si mobilitano in sostegno dei migranti
in transito essere messi sotto accusa e, dall’altro, il rilancio diffuso delle
stesse pratiche e reti di solidarietà nei territori di frontiera e in molti
centri urbani.
Mentre si assiste alla illegalizzazione preventiva dei richiedenti asilo
in Europa e alla moltiplicazione di politiche di contenimento sulla sponda sud
e est del Mediterraneo, le infrastrutture autonome create a sostegno dei
migranti in transito non solo danno vita a una logistica della resistenza alle
politiche securitarie di controllo delle frontiere, ma sono in grado di
produrre fratture più o meno temporanee o permanenti nello spazio militarizzato
della “Fortezza Europa”.
Lo spazio-frontiera italo-francese
Il contesto euro-mediterraneo è segnato da un’escalation sia della
criminalizzazione della solidarietà che degli episodi di razzismo istituzionale
e di strada. Gli interventi arbitrari delle forze di polizia e delle guardie di
frontiera si moltiplicano in nome della lotta congiunta al terrorismo e alle
migrazioni “irregolari”. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente al primo
posto per l’intensità della scossa diplomatica che ha prodotto nel contesto
europeo, è la vicenda dell’irruzione armata di cinque agenti della dogana
francese nei locali della stazione ferroviaria di Bardonecchia per effettuare
un test delle urine a un nigeriano che viaggiava regolarmente da Parigi verso
Napoli con un permesso di soggiorno in Italia. Il cittadino è stato fermato
sulla base di un racial profiling (identificazione razziale) che
di fatto regola le pratiche di controllo sui treni che attraversano i confini
nazionali. Quello avvenuto a Bardonecchia è un attacco che va situato
all’interno della serie di atti di intimidazione contro chi si sta mobilitando
in sostegno dei migranti bloccati o respinti alle frontiere.
Dal 24 marzo migranti e attivisti hanno occupato i locali sottostanti la
chiesa di Claviere per opporsi al registro dell’emergenza, dichiarando che a
causare le morti al confine franco-italiano non sono le condizioni meteo, ma è
l’esistenza stessa del confine e il suo attuale funzionamento. In quest’ottica,
costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione”
delle “crisi” dei flussi migratori e, al contrario, significa aprire spazi
comuni di lotta e di permanenza attraverso le pratiche di un movimento
eterogeneo che comprende gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides sans Frontieres.
Il caso che più di altri ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica
è stato quello di Cedric Herrou, contadino francese della Val Roia, accusato
nel 2016 di aver aiutato a superare la frontiera italiana e aver offerto
ospitalità a un gruppo di migranti. Insieme a lui, decine di cittadine e
cittadini sono stati (o sono tutt’ora) sotto processo con accuse simili. In
alcune località, come Calais, il formarsi di infrastrutture autonome di
solidarietà e sostegno materiale ha fatto venire alla luce contrasti fino ad
allora rimasti sotto traccia tra i diversi livelli istituzionali:
amministrazioni locali contro magistratura, governo nazionale contro procure.
Alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei
diritti negli spazi di emergenza umanitaria si risponde dunque con la
moltiplicazione delle iniziative spontanee e organizzate, individuali e
collettive, di solidarietà attiva.
L’Unione Europea, la Turchia e la repressione del diritto di fuga
L’istituzionalizzazione della criminalizzazione delle pratiche di
solidarietà non si limita allo spazio dell’Unione Europea. Nel 2015 le autorità
turche non fornirono neanche spiegazioni ufficiali a giustificazione della
custodia cautelare e dell’espulsione di due cittadine europee che, insieme ad
altri volontari e a organizzazioni non governative, dimostrarono solidarietà e
fornirono sostegno logistico a migranti e rifugiati nel tentativo di sfondare
la frontiera con la Grecia rivendicando il diritto a usufruire di canali sicuri
e legali. All’espulsione seguì il linciaggio mediatico da parte dei media
filo-governativi che accusò le attiviste di spionaggio internazionale.
L’esternalizzazione delle frontiere europee è già operativa e i patti di
collaborazione di fatto reprimono il diritto alla fuga. Da un lato, il
processo di Karthoum mira a cooptare i Paesi africani nella politica di
controllo delle migrazioni. Dall’altro, l’accordo con la Turchia muove
dall’assunto che la Turchia sia “un paese sicuro”. Secondo le limitazioni
geografiche della Convenzione sui rifugiati del 1951, la Turchia non
riconosce lo status di rifugiato a nessun cittadino che non sia europeo, compresi
i rifugiati siriani che possono solo beneficiare di un regime di protezione
temporanea. I respingimenti avvengono non solo dalla Grecia verso la Turchia
ma, ancor peggio, dalla Turchia verso la Siria. Mentre il reinsediamento di
siriani politicamente fedeli a Erdoğan cambia l’assetto demografico dei
territori occupati nella regione di Afrin, le guardie di frontiera turche
sparano indistintamente sui civili siriani dal 2015, anno della chiusura
ufficiale del confine. Gli ulteriori abusi includono detenzione, percosse e
rifiuto di assistenza medica.
In Turchia, ogni forma di dissenso politico – e di solidarietà ai
dissidenti – è ormai legalmente definita e ampiamente accettata come sostegno
al terrorismo. Le politiche migratorie costituiscono parte integrante del
processo di costruzione del consenso politico allo stato autoritario che
strumentalizza il sentimento di appartenenza nazionale. Alla soppressione dello
stato di diritto e alle violazioni dei diritti umani nella zona di confine
finora l’Europa ha reagito con blandi rimproveri non solo a causa degli
interessi economici nei settori dell’industria bellica, delle infrastrutture e
dell’energia ma anche della minaccia di Erdoğan di riaprire la frontiera con la
Grecia. La complicità dell’Unione Europea è comprovata dalla notizia di un
finanziamento pari a più di 80 milioni di euro che si aggiunge ai 6 miliardi
previsti dall’accordo ed è stato destinato all’acquisto di attrezzatura
militare per il pattugliamento della frontiera e del muro che sigilla parte del
confine con la Siria.
La politicizzazione dell’umanitario
La dinamica di reciproca generazione che si è venuta a creare tra la
criminalizzazione delle pratiche di solidarietà attiva e il rilancio dal basso
delle stesse pratiche autonome di solidarietà e sostegno materiale evidenzia
una “politicizzazione dell’umanitario” che offre ai movimenti e a tutte le
forze solidali transnazionali degli spazi di intervento per trasformare
l’ordine esistente che non vanno sprecati. Non si tratta, ovviamente, di riproporre
la semplificazione di un’indistinta sfera umanitaria contrapposta alle autorità
statali; al contrario, gli assi di collaborazione tra intervento statale e
securitario da una parte e misure umanitarie dall’altra non hanno mai cessato
di rafforzarsi a vicenda. Piuttosto, ciò che la criminalizzazione in corso
dimostra è la differenziazione interna all’universo di esperienze etichettate
comunemente come “umanitarie”. Non a caso, nel discorso pubblico, assistiamo a
un costante alternarsi nell’utilizzo dei termini “solidarietà” e “umanitario”.
A generare reazioni repressive da parte delle istituzioni non è l’intervento in
quanto tale bensì le modalità in cui questo avviene. A essere oggetto di
repressione sono l’accoglienza e il soccorso prestati al di fuori dei circuiti
ufficiali della gestione delle migrazioni, vale a dire le alleanze trasversali
– tra migranti e non – che scaturiscono da tali pratiche di solidarietà.
La recente vicenda del sequestro del vascello umanitario di Proactiva Open
Arms porta alla luce le contraddizioni della politica emergenziale messa in
campo a difesa della “Fortezza Europa”. Proactiva Open Arms fa parte della
minoranza di organizzazioni umanitarie che hanno deciso di aderire al “codice
di condotta” per il soccorso dei migranti. Adottato dal ministro Minniti nel
2017, il codice è stata la risposta governativa alle pressioni che forze
populistiche e nazionalistiche hanno esercitato al fine di irrigidire
ulteriormente il controllo delle frontiere. L’adesione al codice non ha però
consentito a Proactiva Open Arms di sottrarsi alla repressione delle autorità
giudiziarie italiane. Anzi, è stata utilizzata dalla Procura di Catania per
motivarne la criminalizzazione.
Ecosistemi della solidarietà: per una rete di città solidali
L’esperienza di Proactiva Open Arms dimostra come la disobbedienza alle
politiche di criminalizzazione della solidarietà sia oggi una scelta di fatto
obbligata a disposizione dei movimenti e delle variegate forze che si
mobilitano a sostegno dei migranti nel rivendicare il diritto di fuga e
attraversamento autonomo delle frontiere. Affinché tale disobbedienza non
rimanga isolata, ma acquisti valenza politica, è fondamentale rafforzare la
cooperazione all’interno del movimento. Nei giorni successivi al sequestro
della nave di Proactiva Open Arms, la sindaca di Barcellona Ada Colau ha
richiamato l’attenzione sul ruolo che le amministrazioni locali possono
svolgere, facendosi promotrici di reti di solidarietà e di contestazione alla
militarizzazione delle frontiere e alla politica della paura e dell’odio che
oggi incombe nella sfera pubblica europea.
In quanto spazi di accoglienza e rifugio, le città e le metropoli
rappresentano veri e propri avamposti, hub e nodi diffusi, del
movimento di resistenza alle politiche di repressione. Città e metropoli sono
infatti spazi in cui già oggi si osserva una moltitudine di esperienze e
mobilitazioni a difesa dei diritti umani, della democrazia e del bene comune.
La vitalità e diversità istituzionale di cui le città-metropoli dispongono sono
la testimonianza vivente del loro potenziale costituente: sindaci e
amministrazioni che resistono alle politiche europee di austerità, ma anche
consigli di quartiere e soprattutto uno strato diffuso di associazioni,
movimenti, gruppi spontanei e singoli cittadini solidali. La ricchezza e
varietà di tali “ecosistemi della solidarietà” offre un contributo essenziale
al movimento di accoglienza e sostegno logistico a migranti e rifugiati.
Il ruolo che le città e le metropoli svolgono già oggi nel movimento di
solidarietà con i migranti e per il diritto alla circolazione nello spazio
europeo e mediterraneo è decisivo a livello pratico, ma può diventarlo ancora
di più sul piano politico. Crediamo infatti che il potenziale politico e
istituzionale delle “città solidali” non sia ancora valorizzato nelle sue
effettive possibilità. Un più incisivo e consapevole sforzo di valorizzazione
di tale potenziale è in grado di generare nuovi spazi costituenti di democrazia
post-nazionale, mettendo in discussione l’indirizzo sovranista oggi dominante
nell’Unione Europea e nei paesi alleati nelle politiche di difesa e
fortificazione dei confini nazionali. È a partire dalle città e metropoli, ma
anche dai luoghi di frontiera come la Val di Susa, che è possibile lanciare una
sfida alla criminalizzazione della solidarietà cui oggi si assiste e, al tempo
stesso, dare avvio a un più ampio processo costituente capace di ridefinire
l’idea e l’esperienza stessa di Europa e di globalizzazione.
(per adesioni scrivere a: appelloeuronomade@gmail.com)
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