Sei anni fa ero sul
confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini
di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi.
Sei anni fa ero là.
Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le
manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di
cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità
era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro:
se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla
barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle
gambe dei “principali sobillatori”.
Questo ordine, che non
ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e
sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti,
all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che
cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi
sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco
contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia
compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.
Cosa sarebbe successo
se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di
Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della
Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può
probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16
manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.
Sono certo che se
fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato.
Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso
posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la
vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno
sbarbatello diciottenne.
Ma qualunque soldato
che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al
suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione
migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli
stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa
che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che
ci deve essere un’altra soluzione.
Uno dei miei amici ha
ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che
porta sulle proprie spalle questa morte. L’unica differenza tra me e il mio
amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti
piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto
il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante
il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre
mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.
Ogni anno è nuovo, e
sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e
comandanti con la memoria corta.
I soldati hanno un
privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una
piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità
di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a
Hebron, Ramallah e Nablus.
Il soldato picchia
alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai
manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per
qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.
Gli abitanti di Gaza e
della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno
sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il
peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è
permanente.
Shai
Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for
Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme
non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato
pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in
ebraico].
(traduzione di Amedeo Rossi)
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