18 aprile 2018
“Posso venire con voi?”, ci ha
chiesto il ragazzo, con gli occhi imploranti. Fino a quel momento, era rimasto
seduto tra di noi, con la faccia gelida e amareggiata, ma ora improvvisamente
scatta verso la vita. Avevamo appena detto a suo padre che stavamo pensando di
andare dalla loro casa al campo rifugiati di Al-Amari vicino a Ramallah, per
incontrarci con la madre del ragazzo.
Tre settimane fa, la mattina presto,
le truppe della Polizia di Frontiera sono arrivate alla casa della famiglia
Abid nel quartiere Isawiyah di Gerusalemme Est, hanno svegliato gli occupanti e
portato la madre, Ibtisam, e il padre, Vasim, ad una stazione di polizia.
Poche ore più tardi, la polizia ha portato Ibtisam ad uno dei checkpoint che
separano Gerusalemme dalla Cisgiordania e l’hanno espulsa verso i territori.
Ciò segnava la fine di almeno 17
anni durante i quali Ibtisam ha vissuto a Gerusalemme Est in una casa insieme a
Vasim, nato a Gerusalemme, e i loro tre figli, Naye , 14 anni, Mohammed, 13, ed
Emira, 12. Suo marito e i figli hanno tutti numeri di carta di identità
israeliani, essendo nati a Gerusalemme ( i bambini sono registrati sulla carta
di identità blu del loro padre), e risiedono legalmente in Israele, ma
Israele non ha mai consentito di accordare ad Ibtisam lo status di residenza,
perché era nata in Cisgiordania. Dopo numerosi tentativi dal servizio di
sicurezza dello Shin Bet di reclutare suo marito come informatore, le autorità
hanno deciso di deportare la moglie e madre in Cisgiordania, lasciando suo
marito e tre figli disorientati e in una perdita totale. Questa settimana i due
ragazzi non sono andati a scuola, perché la loro madre non ha potuto svegliarli
come al solito. Anche Emira, che è nel campo rifugiati con sua madre, ha perso
la scuola, perché la sua scuola è ad Isawiyah.
Isawiyah sembrava come una zona di
guerra quando l’abbiamo visitato lunedì. Dozzine di truppe della Polizia di
Frontiera, blindate da capo a piedi e armate e accompagnate da cani, hanno
invaso il quartiere e camminato a grandi passi attraverso i vicoli con la loro
tipica aria autoritaria. Alcuni indossavano abiti con tasche riempite di
dozzine di granate lacrimogene; sembravano come attentatori suicidi con cinture
esplosive sulla strada di perpetrare un attacco. I cani appesantivano l’aura di
terrore proiettata dai loro padroni.
L’atmosfera nel quartiere di
Gerusalemme Est era tesa e altamente carica. Non abituati a tali segnali, anche
noi ci siamo spaventati, insieme ai locali, che tuttavia andavano come di
routine per i loro affari. Era chiaro che il più piccolo errore avrebbe potuto
innescare una deflagrazione. Dei giovani di tanto in tanto gridavano alle
truppe. La polizia ci ha abbaiato quando ci siamo spinti con la macchina ad un
lato per un momento, per chiedere a qualcuno un indirizzo. Le truppe erano
apparentemente sulla strada per la locale scuola superiore, per quale scopo non
era chiaro. Con loro c’era una fotografa della polizia in abbigliamento civile,
sebbene indossasse un casco, e alcuni altri individui non in uniforme con i caschi.
In mezzo al tumulto, la famiglia
Abid vive al terzo piano di un edificio residenziale. La loro casa ha un senso
kitsch, con luci rosse e blu che brillano nel soggiorno. Il frigorifero è vuoto
– mamma non è andata in giro a fare la spesa.
Vasim ha 40 anni, muscoloso, tatuato
e disoccupato. Ha passato cinque anni in una prigione israeliana per “offese
alla sicurezza”, come le chiamano. Ha sposato Ibtisam, che ha 37 anni, nel
2001. Sono cugini che si sono innamorati quando lei lo ha visitato in carcere.
Lei aveva vissuto qui, in questo appartamento di Isawiyah, dal loro matrimonio.
Solo quando ha compiuto 25 anni ha potuto sottoporre una richiesta per la
residenza. La sua domanda è stata respinta per “ragioni di sicurezza”, senza
una spiegazione, certamente. Oltre al fatto che suo marito ha scontato una
pena, alcuni dei lontani parenti di Ibtisam sono attivisti di Hamas. Nel corso
della petizione all’Alta Corte di Giustizia nel 2015, i numeri delle carte di
identità israeliani erano stati concessi ai tre figli – ma non ad Ibtisam.
Finché i bambini non hanno ricevuto i numeri, non avevano assicurazione medica;
il loro padre chiedeva ai suoi dottori di fare le prescrizioni per loro a suo
nome. La vita a Gerusalemme unificata.
La vita andava avanti. Ibtisam ha
vissuto nella sua casa illegalmente per 17 anni, mai lasciando Isawiyah tranne
che per partecipare alle preghiere del venerdì, alla moschea Al-Aqsa nella
Città Vecchia di Gerusalemme quando i tempi erano tranquilli. Ogni tre mesi
presentava una richiesta per visitare Gerusalemme, e di solito riceveva un
permesso per starvi una settimana. Allora andava ad Al-Amari per vedere sua
madre e la sua famiglia, cui era vietato visitare Gerusalemme, e poi tornava a
casa usando il permesso temporaneo. Il ciclo è andato avanti per anni.
È stato anni fa, quando Vasim era in
prigione, che lo Shin Bet tentò di recrutarlo, ma egli rifiutò l’offerta, ci
dice. Fu convocato parecchie volte per parlare ad agenti dell’organizzazione,
che gli offrivano una carta di identità per Ibtisam in cambio della sua
cooperazione.
Più o meno un mese fa, la Polizia di
Frontiera è tornata alla casa degli Abid nel mezzo della notte ed ha arrestato
Nayef, il figlio maggiore, sospettato di lancio di pietre. Di nuovo Vasim è
stato convocato dallo Shin Bet alla stazione di polizia sulla via Salah-e-Din,
attraverso la strada dalle mura della Città Vecchia, dove un agente gli ha
detto che in cambio della sua cooperazione suo figlio sarebbe stato rilasciato
ed Ibtisam avrebbe ottenuto una carta di identità. Ha rifiutato; Nayef è stato
rilasciato dopo 10 giorni di detenzione al Russian Compound della polizia nel
centro di Gerusalemme.
Il 28 marzo, la Polizia di Frontiera
si è mostrata di nuovo, questa volta alle 6 del mattino. In una maniera
relativamente educata, hanno ordinato ai genitori di accompagnarli. Per circa
cinque ore i due sono stati tenuti in una stanza alla stazione di polizia, ma
non è stato loro permesso di parlarsi l’uno con l’altra. Quando Vasim è stato
portato dentro per l’interrogatorio, l’interrogatore gli ha detto, “Hai
rifiutato di lavorare con noi, e pertanto, per la legge, dobbiamo espellere tua
moglie, che è qui illegalmente”. È stato rilasciato alle 4 del mattino, ed è
andato a casa. Non aveva idea di dove fosse Ibtisam. Solo più tardi quella sera
ha saputo che era stata espulsa ed era andata a casa di sua madre.
Ben abituato alla vita sotto
occupazione, il 13enne Mohammed si affretta a prendere il suo certificato di
nascita plastificato. È pericoloso per lui lasciare la casa senza: esso dice
che era nato a Gerusalemme, cosa che gli permette libertà di movimento. Dato
che non ha ancora 16 anni, non ha per ora una sua carta di identità. Lo
portiamo con noi al campo Al-Amari, attraverso il notorio checkpoint
Qalandiyah. Il viaggio prende più di un’ora per la lunga attesa per passare il
checkpoint.
La nuova-vecchia casa di Ibtisam è
in un vicolo appena largo abbastanza per camminarci. Mohammed corre davanti a
noi per salutarla. Si erano incontrati anche il giorno prima; la squadra di calcio
di Mohammed aveva giocato una partita nella vicina Ramallah, e sua madre aveva
colto l’opportunità di vedere lui e suo fratello, che erano venuti insieme. I
bambini hanno pianto vedendola e non volevano tornare indietro a Gerusalemme
quando il tempo è finito.
Ibtisam ci saluta in jeans e un
tradizionale copricapo e, insolitamente, agita le mani. Sta contando i giorni
da quando è qui – questo è il 19° giorno dalla sua espulsione.
Ci dice che la polizia le ha chiesto
se era di Hamas o Fatah. “Io non sono di Fatah e non sono di Hamas”, ha
risposto, “Io sono una regolare donna palestinese”. L’hanno informata che stava
vivendo illegalmente a Gerusalemme, e lei ha detto loro, “Voi siete da
biasimare per questo, non io. Io ho vissuto qui per 17 anni. I miei figli e mio
marito sono qui. Devo vivere con la mia famiglia”.
Dopo una mezz’ora di domande, ad
Ibtisam sono state prese le impronte digitali e le hanno fatto firmare un
documento che dichiarava che prometteva di non ritornare alla sua casa e a
Gerusalemme. È stata portata via in una macchina della polizia che lungo la
strada è passata per l’entrata ad Isawiyah; la polizia non le ha permesso di
prendere i vestiti o altri oggetti dalla sua casa. È stata condotta al
checkpoint A-Za’im, vicino all’insediamento di Ma’aleh Adumim fuori
Gerusalemme, e lasciata al suo destino.
Suo suocero, Nayef Abid, che ha una
carta di identità israeliana, la stava aspettando al checkpoint. Era andato
alla stazione di polizia quella mattina per cercare di scoprire dove fossero
suo figlio e sua nuora, e gli era stato detto che Ibtisam sarebbe stata espulsa
ad A-Za’im nel pomeriggio. L’ha portata a casa di sua madre, Nawal Barash, 58
anni, che era rimasta vedova pochi anni fa. Poi Nayef è andato ad Isawiyah per
prendere dei vestiti e oggetti personali per Ibtisam, e le ha portato anche sua
figlia Emira.
La situazione in cui i suoi due
figli non vanno a scuola e la loro sorella non può frequentare le lezioni non può
continuare, ci dice Ibtisam: Emira deve tornare ad Isawiyah. Muoversi da un
campo rifugiati è fuori questione per la famiglia, In quanto perderebbero il
loro status di residenza e i numeri delle carte di identità, che assicurano una
relativa libertà e benefici di welfare sociale. In nessuna circostanza i
bambini perderanno i loro diritti a Gerusalemme, dicono i genitori. Questo è un
limbo crudele.
Sabine Hadad, direttrice dell’ala
del portavoce e dell’informazione dell’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione
( un ramo del ministero degli interni) ha offerto una breve, laconica replica
ad una interrogazione di Haaretz questa settimana: “La richiesta dei familiari
per l’unificazione della famiglia è stata rigettata già nel 2014 per ragioni di
sicurezza”.
Vasim ha visitato sua moglie solo
una volta da quando è stata espulsa. È difficile per lui avere a che fare con
il checkpoint Qalandiyah, dice. Ciò che è illegale, dichiara, è dividere una
famiglia dopo 17 anni.
“Sono di Gerusalemme”, dice. “Sono
nato qui. La mia famiglia e i miei amici sono qui. I miei figli sono nati qui.
La scuola dei miei bambini è qui. La loro clinica HMO è qui. La mia vita intera
esiste qui. È come un pesce nell’acqua: se lo togli dall’acqua, morirà”.
Nel frattempo, Ibtisam telefona ai
suoi figli ogni giorno, ma non sempre li raggiunge: è connessa ad un provider
israeliano e la ricezione nel campo rifugiati è scarsa.
da qui
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