Chi sa cosa sono
i Prin? I Prin sono i “Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale”.
Ossia quelle
proposte di ricerca scientifica in tutti i settori e sotto-settori dello scibile,
che il Miur (il ministero dell’Università e della Ricerca scientifica)
s’impegna a finanziare dietro accurato esame da parte di apposite commissioni,
ovviamente anche loro disciplinatamente selezionate in base alle diverse
competenze scientifiche. Si rivolgono ai ricercatori impegnati ai diversi
livelli nelle università italiane.
Sono cioè una
cosa estremamente importante. È chiaro che senza i Prin la ricerca scientifica
universitaria sarebbe pressoché agonizzante. Per giunta, quest’anno l’investimento
è particolarmente rilevante (penso): 391 milioni di euro.
Benissimo. Ora,
il punto sul quale vorrei attirare l’attenzione è il seguente. All’articolo 4
del bando sono elencate le modalità di «presentazione della domanda». E cosa
troviamo, per la prima volta nella storia dei Prin? Troviamo che «la domanda è
redatta in lingua inglese»; e che, soltanto se il proponente decide di farlo,
«può essere fornita anche una ulteriore ( ulteriore!) versione in
lingua italiana». E cioè: l’immensa mole della ricerca scientifica
universitaria italiana, per esprimersi ed essere riconosciuta nelle sua
validità, deve esprimersi, per farsi riconoscere, in lingua inglese. Solo se lo
si desidera — è una specificazione chiaramente di secondo ordine e piano —, può
tentare di spiegarsi anche nella ormai antiquata e inappropriata lingua
italiana. E cioè: l’interesse nazionale dei Prin deve essere «rilevante»: e
però, nonostante l’altisonante autocertificazione, la nazione non entra più,
nei modi che le sono propri, nella definizione della richiesta.
Potrebbero
verificarsi casi di questo genere (e probabilmente si sono verificati). Se
fossi ancora in servizio quest’anno, avrei presentato una domanda così
formulata: «I intend to carry out research on Dante’s usage of the tercet in the Comedy as
a contribution to our knowledge of the early Italian language».
Ovviamente è un
caso estremo, che porta alla risibilità più totale la richiesta del Miur. Ma
non vorrei fare distinzioni fra settore scientifico e settore scientifico né
fra materia e materia. Perché mai i matematici, i fisici, gli ingegneri, i
medici, i giuristi, non dovrebbero formulare le loro richieste nella lingua che
è loro propria, e cioè appunto, nazionale, come hanno sempre fatto? Ipotesi: si
vuol rendere la cosa più semplice ai commissari che magari potrebbero non
conoscere una parola d’italiano (anche questo può accadere)? Allora la formula
più corretta sarebbe: «La domanda è redatta in italiano» (veramente non ci
sarebbe bisogno di dirlo), e: «A scelta del proponente in una delle lingue
straniere che hanno maggiori attinenze con argomenti e obiettivi della ricerca»
(che so, il giapponese, se la ricerca riguardasse laStoria di
Genji della Signora Murasaki, o in francese, se riguardasse Madame
Bovary di Flaubert). Sullo sfondo — a parte le domande di ricerca —, c’è
una questione immensa, che in chiusura possiamo solo sfiorare. È presente
a livello globale, ma in Italia, come sempre qui da noi accade, in forma più
virulenta, ed è la seguente. Una lingua è uno strumento d’informazione, — serve
a sapere quanto più si può; ma è anche uno strumento di comunicazione, —
serve a trasmettere quanto più si può. Ma è anche uno strumento identitario,
anzi lo strumento identitario più possente che esista. Ossia: uno è la lingua
che parla. Se non la parla, non la legge e non la scrive più, l’identità va a
farsi benedire. E, naturalmente, se, come penso, il fenomeno va
generalizzandosi, è evidente che il rischio è ancora maggiore. Se la
prospettiva è questa, tanto varrebbe essere conseguenti fino in fondo. E cioè:
si potrebbe decidere e richiedere che dall’anno prossimo non solo le domande di
ricerca, ma anche i risultati, che in seguito ai finanziamenti erogati ne
possono scaturire, siano in inglese. Perché no? In un paese come l’Italia dove la
conoscenza delle lingue straniere fa pena, la ricerca scientifica “nazionale”
farebbe invece un balzo in avanti, immergendosi di colpo, senza più
intermediazioni antiquate, nell’universo della comunicazione scientifica
universale. Un altro brandello d’identità sarà strappato, almeno potremo
rinunciare, per regolamento, alla scomoda e inutile stesura del riassuntino
nella lingua degli avi, e cioè il pereunte italiano.
da qui
Nessun commento:
Posta un commento