Arrivammo al palazzo
occupato di Via
di Vannina con il camper di Medici per i Diritti Umani (MEDU)
per la prima volta all’inizio dello scorso ottobre. Ci trovammo davanti uno
stabile fatiscente, imbarbarito dall’abbandono e dalla sporcizia. Era stato sgomberato a giugno,
all’inizio della rovente estate di sfratti forzati e violenze urbane contro i
migranti, per essere poi rioccupato qualche settimana dopo. Ci venne il
sospetto che fosse utile andare, per vedere quale fosse la situazione. Nessuno si occupava in quel momento
degli abitanti di Via di Vannina.
Sapevamo che si trattava di persone indurite, disilluse da un “tempo
sospeso” in Italia impietosamente lungo. Situazioni umane molto diverse da quelle dei transitanti
appena approdati sulle nostre coste, ancora carichi di speranza, che
incontriamo ogni settimana al Maslax, dietro la stazione Tiburtina.
Ricordo che ci accolse con sorpresa e cordialità Fuad, un ragazzone del Gambia,
mentre a torso nudo provava a lavarsi a un ridicolo rivolo d’acqua che scorreva
per terra, spargendo fanghiglia tutt’intorno. Nessuno ci aspettava, sul calar
della sera. Pochi minuti di scambi per presentarci, far sapere chi siamo e
perché siamo lì. Intorno a noi, Indifferenti, topi indaffarati a scorrazzare
per il cortile che circonda la vecchia struttura industriale. Un tempo sede di
dignità di lavoro. Oggi, rudere
abbrutito di marginalità e di vergogna, per le circa 150 persone che ci vivono:
africani venuti dalla Nigeria, dal Ghana, dal Gambia, dalla Guinea.
Kamal è in Italia da 26 anni, non ha più il permesso di
soggiorno per via di vecchie storie di spaccio, vive presso la sede
dell’organizzazione per cui fa volontariato come mediatore, ma viene a Via di
Vannina tutti i giorni a dare una mano, “questi
sono miei fratelli”, e poi vuole espiare una vita che gli ha preso la
mano. Mohammed Ibrahim è un pittore, ha
lasciato la Nigeria per motivi politici molti anni fa. Si è
ritagliato un piccolo spazio in fondo all’edificio, la sua autorevolezza è
fatta di poche dense parole rivolte ai più giovani. Poi c’è Christiana, una delle poche donne
visibili, che cucina nell’unico angolo dello stabile adibito a soggiorno, illuminato
dal generatore. Le visite mediche nel camper ci hanno fatto sapere di lei, nei
mesi successivi, che ha quattro figli
dati in adozione, e che ne aspetta un quinto.
L’impatto visivo ed
esperienziale è difficile da raccontare, anche dopo mesi di frequentazione di
quel luogo. Il primo flash fu un ricordo dei topi di Dacca, numerosi, spaventosamente
intrusivi. Ecco che
cosa mi rammentava la desolazione di Via di Vannina. Mai avrei immaginato di ritrovarli in
simile compagine a Roma, a pochi chilometri di distanza da casa mia. “Guardate
dove viviamo: vi sembra un posto per esseri umani?”, fece subito Fuad, alle
prese con le sue abluzioni, mentre altri abitanti si approssimavano alla nostra
conversazione, incuriositi da questo piccolo premuroso gruppo di bianchi che
arrivavano senza minacce.
Via di Vannina è una
traversa della Via Tiburtina, in zona Tor Cervara, alla periferia est della
capitale. Una strada scalcagnata di buche e polvere, o di buche e fango, a
seconda della stagione. Una Roma sconosciuta ai più. Fatta di capannoni e fabbriche abbandonate, rifugio
anch’esse per centinaia di uomini e donne invisibili che vivono prospicenti al
traffico, e si aggirano per le strade, affaccendati dalla burocrazia migratoria
e da una quotidianità di espedienti. Le
grandi occupazioni che l’amministrazione della capitale non vuole vedere, o che
gestisce solo a colpi di sgomberi senza alternative. Le conosce tutte
Mulugheta, l’insostituibile mediatore culturale di MEDU. E poi centri di
accoglienza, accanto ai centri per le scommesse con le insegne luminose in
italiano, arabo, e chi più ne ha più ne metta. La
globalizzazione, in fondo, è anche questo. Sconcertante degrado urbano, uomini
e topi contigui al mercato dell’azzardo, cumuli di sporcizia e plastica
addossati alle baracche improvvisate, sempre più simili a quelle degli slums
africani che ho visitato a Nairobi o Luanda. Prodotto tangibile
(e prossimo, ormai) di un’economia globale violenta e di “una guerra mondiale a
pezzi” che agita il pianeta, salvo che noi occidentali solo da qualche tempo
abbiamo cominciato a intuirne gli effetti di disuguaglianza.
Da allora, non
abbiamo mai interrotto le nostre visite settimanali a questa piccola comunità
di solitudini, esempio cittadino dell’umanità di scarto su cui si è costruita
l’industria della paura. Gente fuoriuscita dall’accoglienza, con molti
anni di presenza in Europa. Ma anche soprattutto persone titolari del permesso
di soggiorno per richiesta asilo, protezione internazionale o per motivi
umanitari, finite qui perché prive di una residenza alternativa a Roma. A furia di incontri sul camper, e
accompagnamenti alle Asl, abbiamo imparato a conoscerle, a familiarizzare con
loro. A condividere, almeno per qualche ora alla settimana, le loro vite
fagocitate da norme umilianti, fatte apposta per mutilare ogni capacità di
aspirazione e dirottare verso una sopravvivenza non sempre nobile.
Sono stati loro a raccontarcelo, sin dal primo
incontro, senza pretese o coperture.We
are wild animals,
siamo animali selvaggi, che si aggirano nel buio della emarginazione: le
parole di Harry si sono inchiodate nella mia testa e non son più andate via,
così come non sono più riuscita a liberarmi dalla presa del suo sguardo
conficcato nel mio, a fendere ogni pretesa di buonismo, le nostre migliori
intenzioni. “Se volete darci una mano veramente, toglieteci di qui, da questi
topi che passano sopra i nostri corpi ogni notte, mentre dormiamo”. Difficile,
ancora oggi, replicare alle sue obiezioni, mentre cerchiamo di navigare in
qualche modo, come società civile, nel flusso di un sistema di accoglienza
kafkiano che produce danni irreparabili. Fuggito
anche lui dalla Nigeria per non essere ammazzato, Harry era un piccolo
imprenditore nel suo paese. Da sette anni si trova in Italia: una prigione, una
gabbia maledetta, “un paese che non abbiamo scelto e dove ognuno pensa al
proprio interesse, ma che invece avrebbe bisogno di noi, perché siamo
professionisti, vogliamo lavorare in questa Europa di cui si dice un gran bene
in Africa”, dice con un ghigno di visibile amarezza. Harry ha tentato
più volte di cercar fortuna in altri paesi europei, salvo che le autorità lo
hanno poi sempre ricacciato in Italia. Ha una visione lucida e impietosa della
situazione, rimpiange di essere partito e se ne tornerebbe a casa sua, se solo
avesse i soldi per un biglietto aereo. “Molto
meglio se restavo in Nigeria: mi avrebbero ammazzato, ma almeno la mia vita
avrebbe avuto un senso, rispetto alla morte in trappola che vivo qui”.
Harry ha sfidato brutalmente il senso del nostro
agire. Sapeva che la nostra assistenza non gli avrebbe cambiato la vita;
semmai, avrebbe legittimato la nostra pratica serale di volontari, che comunque
torniamo sempre alle nostre “tiepide case”. E forse, a distanza di mesi, devo
dargli ragione. Poche sere fa, il 22
marzo scorso, il difficile riparo di Via di Vannina è stato sgomberato un’altra
volta dalle forze dell’ordine, con un procedimento richiesto dal proprietario
dell’immobile, che ne ha subito ripreso possesso montando rotoli di filo
spinato intorno all’edificio. Le modalità dello
sgombero hanno ripetuto un copione visto già troppe volte: tutti fuori in
strada senza altre prospettive di alloggio, nonostante la direttiva emanata
nell’agosto 2017 dal Ministro Minniti, che dopo la orribile vicenda di Piazza
indipendenza invitava i prefetti a “sospendere gli sgomberi in assenza di
soluzioni alternative”. Le
persone occupanti dell’edificio sono state portate in Questura per le procedure
di identificazione, ricondotte poi più tardi a Via di Vannina per il recupero
degli effetti personali, che nel frattempo erano stati disseminati fuori dallo stabile,
lungo la via, senza il minimo rispetto. La sala operativa sociale,
presente per un tempo assai limitato durante le fasi dello sgombero, ha trovato
un posto di accoglienza solo per un uomo e una donna in particolare stato di
vulnerabilità. Il Municipio competente ha dichiarato di non essere stato
informato anticipatamente dello sgombero. E
del resto, questa giunta è un interlocutore
inesistente.Vite nude: senza cibo, senza luogo dove andare, senza una adeguata
assistenza sociale – anche MEDU e le altre organizzazioni impegnate a Via di
Vannina si sono trovate impreparate ad affrontare lo sgombero non annunciato –
mentre la nuova ondata del Burian avvolgeva Roma in una nuova morsa di
freddo. Quando il Camper di MEDU è arrivato a
Via di Vannina la sera dello sgombero, la polizia continuava a presidiare la
zona, intorno all’edificio stavano una trentina di ragazzi che aspettavano,
all’addiaccio. Aspettavano di recuperare le loro cose. Aspettavano una
residenza, un documento, un pasto caldo. Che cosa ne sia di loro, oggi,
difficile dirlo. Li immaginiamo in altri edifici occupati. Il
timore è che molti di loro siano finiti a Penicillina, la ex fabbrica lungo via
Tiburtina che ospita uno dei più grandi ghetti della capitale. Un luogo di
condizioni estreme. Quasi un destino senza ritorno, come racconta il rapporto
di Medici Senza Frontiere Fuori Campo.
Un abissale paradosso,
questa storia dell’emigrazione. Un capovolgimento di ogni prospettiva residua
di civiltà, mentre il paese non fa altro che concentrarsi sugli esiti del
risultato elettorale e le scommesse per l’avvio della nuova legislatura. Siamo alle prese con le guerre sui corpi dei migranti
in mare, da abbandonare – secondo la magistratura – alla violenza degli
scafisti regolarizzati come Guardia Costiera libica dall’esborso di milioni di
euro (delle nostre tasse). Se ci si azzarda a metterli in salvo, come hanno
fatto gli operatori di Open Arms nel rispetto delle ancestrali leggi del
soccorso in mare, ci si ritrova la nave sequestrata e un’accusa per favoreggiamento
dell’immigrazione e associazione a delinquere. Rischiando fino a 15 anni di
galera. Lo stesso capita se si soccorre una donna migrante in travaglio a
Briançon, come è successo alla guida Benoit Ducos, indagata dalla magistratura
transalpina: rischia fino a 5 anni di carcere. E poi non c’è più lei, la
nigeriana di 31 anni incinta, molto malata, respinta due giorni fa sulle
montagne dai francesi, alla frontiera. Ricoverata in un ospedale di Torino, è
morta dopo aver partorito un figlio neonato di 700 grammi.
“La crisi dei rifugiati non
riguarda i rifugiati” ha scritto in un editoriale di qualche settimana fa
l’artista cinese Ai Wei Wei su The Guardian: “la priorità che noi attribuiamo
ai guadagni finanziari, a sfavore delle lotte delle persone per rispondere alle
necessità della loro vita, è la causa di questa crisi”. Ed è questo il punto. Il tema
siamo noi. Il centro della questione è la nostra dignità di europei: pesa i 700
grammi del bambino vulnerato dalla morte della madre, a causa della nostra
ferocia. Pesa 700 grammi la nostra attitudine all’imbarbarimento, la
normalizzazione della violenza, la rinuncia a tutti i principi di civiltà che
consideriamo indispensabili per le nostre vite. Pensiamoci.
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