Davvero non c’è alternativa? - Ugo Carlone
«Da una
situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile». Abbiamo
appena fatto spoiler, perché così finisce il
libro di Mark Fisher, Realismo capitalista, scritto nel 2009
e tradotto da Nero nel gennaio di
quest’anno. Ma abbiamo rivelato il finale perché la paura è che, leggendo
questa recensione, dopo qualche riga ve ne andiate di corsa a fare qualcosa di
più allegro, presi da qualche forma di angoscia e di impotenza. No, restate
fino in fondo, se ci riuscite, perché dopo aver parlato di quanto il sistema
sia malato e di come troppe cose passino sopra le nostre teste senza che
possiamo fare nulla, troverete anche indicazioni molto utili sul da farsi.
Di Mark
Fisher avevamo abbondantemente citato un suo articolo qui.
Figura eccentrica ma di spicco nel panorama culturale britannico, si
è purtroppo suicidato nel gennaio del 2017, perso nei meandri
della sua (fervidissima) mente. La casa
editrice Nero, che ha parecchi altri progetti interessanti, ha
deciso di tradurre quello che probabilmente è il suo libro più
rappresentativo, un pamphletdensissimo
e molto, ma molto interessante. Va detto un grazie a Valerio
Mattioli per la traduzione: scritta ottimamente, chiara,
scorrevole e comprensibile. E i contenuti del testo, sebbene tutt’altro che
criptici, non sono certo dei più agevoli. Merito al merito, dunque.
Cos’è il
realismo capitalista
Cosa intende
Fisher per realismo capitalista? Nella prefazione al libro, Mattioli ricorda
il mantra la cui recitazione ha preso avvio negli
anni ottanta: quel There
Is No Alternative (Non c’è alternativa, noto anche con l’acronimo TINA) al
capitalismo, pronosticato dalla Thatcher e «introiettato non solo dalle forze
politiche che pure a suo tempo occupavano il campo avverso a quello del
conservatorismo neoliberale, ma dallo stesso inconscio collettivo». Con il
risultato che, oggi, sembra «più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo,
con ricadute drammatiche sia nel campo sociale che in quello psichico». La
consapevolezza, cioè, di un’impossibilità di null’altro che non sia il sistemo
economico in cui viviamo (e di cui siamo in parte vittime), la sensazione
diffusa, nelle parole di Fisher, «che non solo il capitalismo sia l’unico
sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche
solo immaginarne un’alternativa coerente». Qualcosa che agisce davvero molto in
profondità, perché si tratta di «un’atmosfera
che pervade e condiziona» e «che agisce come una specie di barriera
invisibile che limita il pensiero quanto l’azione». Il che genera,
inevitabilmente, un «profondo e pervasivo senso di esautoramento, di sterilità
culturale e politica», anche in chi si batte per contrastarlo.
Fisher nota
che «per la maggior parte delle persone sotto i venti anni l’assenza di
alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo
semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile». Richiamando le analisi
di Fredric
Jameson, lo studioso inglese pensa che il capitalismo si sia proprio
sedimentato nel nostro inconscio e «abbia colonizzato i sogni delle persone»,
al punto, che, oggi, è «un dato di fatto talmente accettato da non meritare più
alcuna discussione». Questo è il sistema, e non ce ne sono altri, né migliori,
né peggiori. È così, punto e basta. Fine della
discussione.
Il realismo
capitalista è entrato talmente dentro i gangli del sistema sociale che «ha
imposto con successo una specie di ‘ontologia imprenditoriale’ per la quale è
semplicemente ovvio che tutto, dalla
salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda». Il che
comporta una dose elevatissima di incertezza e indefinitezza, visto il mondo (liquido,
direbbe Bauman) in cui viviamo: «un tempo ‘essere realistici’
significava forse fare i conti con una realtà percepita come solida e
inamovibile»; il realismo capitalista, invece, «comporta che ci sottoponiamo a
una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando
vuole», che somiglia «alle infinite opzioni di un documento digitale, dove
nessuna decisione è definitiva, le revisioni sono sempre possibili, e ogni
attimo pregresso può essere richiamato in qualsiasi momento». Siamo poco più di
un file, insomma.
Ma chi ha
avuto in mente tutto ciò? Chi è che ha dato questi comandi, chi ha stabilito
che il mondo dovesse girare in questo modo? Certo, il Capitale, con la C maiuscola. Ma, in concreto, chi
è il Capitale? A dire il vero, nel libro di Fisher non si
trova una risposta articolata a questa domanda, che, anzi, non viene neanche
posta. Il realismo capitalista è considerato un dato di fatto e lo studioso si
limita ad evidenziare che il
Capitale è un’entità ubiqua, planetaria, senza centro; e, riprendendo Nick
Land, «un sistema vago, flessibile e infinatamente duttile». Qualche
parola in più su questo ce la saremmo aspettata, anche se il libro, in fin dei
conti, è un pamphlet, con i suoi pregi e difetti. Tra i quali ci sono
senz’altro la snellezza e l’acume, ma anche, in alcuni casi, l’impossibilità di
poter approfondire in maniera adeguata.
Precorporazione
e anticapitalismo di sistema
Molto
interessante è il concetto di precorporazione,
che può sembrare ostico ed ha a che fare con le esperienze di chi cerca di
controbattere ai meccanismi dominanti. Fisher ce lo fa capire richiamando la
durissima esperienza di Kurt Cobain (esempi e riferimenti alla musica e ai film
sono numerosissimi, nel libro), che «con la sua straziante inedia, con la sua
rabbia senza scopo» sembrò «l’esausta voce dell’avvilimento che attanagliava la
generazione venuta dopo la fine della storia, la stessa generazione cui ogni
singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e svenduta prima ancora
di compiersi». Il leader dei Nirvana «sapeva di essere soltanto un altro
ingranaggio dello spettacolo», che «su MTV niente funziona meglio che la
protesta contro MTV», che «ogni suo gesto era un cliché già scritto» e che
«persino questa consapevolezza era essa stessa un cliché». Un vicolo cieco in cui
«persino il successo equivale a un fallimento, perché avere successo significa
soltanto che sei la carne di cui si nutre il sistema». Diciamocelo: nessuno ha
mai avuto il dubbio che, protestando, manifestando, occupando, urlando, si
faccia solo il gioco del mainstream?
Richiamando Slavoj Žižek, Fisher a questo proposito
parla di «anticapitalismo ‘di sistema’». In questo senso, il realismo
capitalista riesce persino a contemplare una certa dose di anticapitalismo
(«quante volte nei film di Hollywood il cattivo di turno altri non è che
qualche cattivissima corporation?»). Un
po’ duro da digerire, ma vero. Ecco allora che, ad oggi, per Fisher, non
abbiamo a che fare con l’incorporazione da parte del Capitale di «materiali che
prima sembravano godere di un potenziale sovversivo», ma con una precorporazione, cioè con «la programmazione e la modellazione preventiva, da
parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle
speranze». Ad esempio, le culture alternative o indipendenti, che «replicano senza sosta i vecchi gesti
di ribellione e contestazione come se fosse la prima volta», «non denotano
qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili interni
al mainstream». Insomma, una contestazione che non solo
non scalfisce nulla di ciò contro cui si scaglia, ma è addirittura funzionale
al sistema, essendone il suo complemento o un suo ingrediente. Basta pensare,
purtroppo, a Cobain.
I call
center!
L’analisi di
Fisher strappa perfino qualche risata (amara) quando ci regala una perfetta
descrizione delle disavventure che tutti noi viviamo nel chiamare un call center. Cioè nell’esperienza «che più si avvicina a
metterci in diretto contatto con l’assenza di centro del capitalismo».
In linea di massima, quando ci comportiamo come consumatori, ci troviamo di
fronte a due realtà distinte e separate: «da una parte, quella in cui i servizi
ci vengono prestati senza intoppi di sorta; dall’altra, una realtà
completamente diversa: il folle labirinto kafkiano dei call center, un mondo
privo di memoria in cui i meccanismi di causa ed effetto si legano tra loro in
maniera misteriosa e imprescrutabile, dove è già un miracolo se qualcosa si
muove e dove ogni speranza di riapprodare dall’altra parte, quella dove le cose
filano lisce e senza strappi, prende e se ne va in fumo».
Il call center
è l’esempio lampante del «fallimento neoliberale nell’essere all’altezza delle
sue stesse campagne (auto)promozionali», anche se «nemmeno le nostre
generalizzate disavventure con gli operatori telefonici riescono a mettere in
crisi l’idea che il capitalismo sia un sistema per sua natura efficiente». Di
più: «l’esperienza del call center è un distillato della fenomenologia politica
tardo capitalista: la noia e la frustrazione accentuate da campagne
promozionali allegramente pompate; la continua ripetizione degli stessi tediosi
dettagli da dare in pasto a operatori poco qualificati e male informati;
l’irritazione montante ma condannata a restare impotente perché priva di un
oggetto concreto, visto che – come chi si rivolge a un call center impara in fretta
– nessuno sa niente e nessuno può nulla». La rabbia sale, ma può «tuttalpiù
limitarsi allo sfogo, all’attacco a vuoto, all’aggressione nei confronti di un
tuo simile, vittima anch’egli del sistema ma nei confronti del quale non è
possibile alcuna comunanza solidale». E se la rabbia non ha oggetto, non può
avere neanche effetto. «È nell’esperienza di un sistema tanto impersonale,
indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a
guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale».
Che fare:
nel metodo
Tuttavia. C’è un tuttavia, cui Fisher fa
seguire qualche indicazione sul che fare. L’autore, ottimisticamente (ma il
libro è del 2009), pensa che con la Grande Crisi sia andata in frantumi
«l’intelaiatura che aveva funzionato da copertura ideologica per
l’accumulazione capitalista sin dagli anni settanta». Il salvataggio con soldi
pubblici delle banche ha sostanzialmente screditato il neoliberismo, che però
non è certo scomparso (ovviamente), visto che i suoi presupposti continuano a
dominare la politica economica. Ma non è più quell’ingrediente «di un progetto
ideologico mosso dalla fiducia per le proprie prospettive future», quanto
piuttosto «una specie di ripiego inerziale, di morto che cammina». Noi non
saremmo così sicuri di questo, ma può ben darsi. In ogni caso, ed è la pars costruens del libro, qualcosa si può fare, su
due binari.
Il primo
binario è quello della contronarrazione (Fisher non usa questo
termine). La «critica morale» al capitalismo, quella che enfatizza le modalità
con cui produce sofferenza, non è utile e non farebbe, che rinforzare il
capitalismo: povertà, fame e guerre potrebbero essere «presentati come aspetti
inevitabili della realtà, mentre il desiderio di eliminare tanta sofferenza
potrebbe facilmente essere derubricato a ingenuo utopismo». L’unico modo per contrastare il
capitalismo è «mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente e
indifendibile: insomma, ribadire che di ‘realista’ il capitalismo non ha
nulla». E bisogna far questo, appunto, contronarrando:
richiamando Brecht, Foucault e Badiou, Fisher scrive che «ogni politica di
emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’’ordine naturale’,
deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile
altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo
finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano». Un lavoro
difficile, ma c’è spazio per farlo, c’è spazio per l’emersione di un nuovo
anticapitalismo, «non più costretto», però, «dai vecchi linguaggi e dalle
vecchie tradizioni». Bisogna uscire dall’«attaccamento romantico alla politica
del fallimento, al comodo ruolo di minoranza sconfitta», perché «la crisi è
un’opportunità: ma va trattata come una straordinaria sfida speculativa, come
lo stimolo per un rinnovamento che non sia un ritorno». Tra l’altro, sempre tra
le cose da fare di metodo, bisogna ripensare le
tattiche di lotta: nel caso della scuola, ad esempio, ambito a cui Fisher si
riferisce spessissimo nel testo, funzionano ancora gli scioperi degli
insegnanti e il blocco degli scrutini? Non sarà il caso di inventarsi
qualcos’altro?
Che fare:
nel merito
C’è poi un
secondo binario, di merito. Serve, per Fisher, nientemeno che un nuovo terreno politico, visto che
«non esiste niente che sia innatamente politico» e che «la politicizzazione
richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una
messa-in-palio». Cosa significa? Che occorre
trovare nuovi temi di lotta, nuovi bisogni da esprimere e «politicizzare»,
nuove situazioni di difficoltà personali e collettive a cui dare un’espressione
prettamente politica. Nel libro qualche suggerimento c’è.
Innanzitutto,
bisogna partire dalla considerazione che «se il neoliberismo ha trionfato
assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una
nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo
ha generato, ma che è incapace di soddisfare». Bella sfida, che per Fisher può
cominciare, ad esempio, con la lotta alla burocrazia, alla cui intensificazione
sotto il neoliberismo l’autore dedica parecchie pagine. Potrebbe sembrare un
mistero, ma nell’era del neoliberismo (presunto e sedicente antistatalista) si
è assistito ad un aumento della burocratizzazione in tantissimi aspetti della
vita. Certo, di tipo nuovo, e fatta di «obiettivi», «target», «missione»,
«risultati», e di dati e informazioni forniti spessissimo dai lavoratori
dipendenti in prima persona. Con diverse conseguenze: che il controllo
centralizzato resta «supremo»; che, come afferma Richard
Sennett, l’appiattimento delle gerarchie piramidali ha determinato,
in realtà, una maggiore sorveglianza dei lavoratori; che, oggi, i piani alti
hanno un quadro onnicomprensivo dell’organizzazione che dirigono, perché
l’accesso ai dati (nel frattempo proliferati) è maggiore rispetto a prima; che,
oltretutto, i dati e le burocrazie sono finalizzati alla misurazione delle
prestazioni (soprattutto aziendali, ma non solo), anche se nel concreto non c’è
un raffronto diretto tra prestazioni e risultati effettivi, ma tra una rappresentazione (debitamente quantificata) delle
prestazioni stesse e i risultati (il che genera un cortocircuito: «il lavoro
viene predisposto alla produzione e alla manipolazione proprio di quelle
rappresentazioni, anziché attrezzato per gli obiettivi ufficiali del lavoro
vero e proprio»). Insomma, la lotta a questo tipo di burocrazia può costituire
un primo terreno politico per chi vuole contrastare la cultura capitalista.
Un secondo e
fecondo ambito, ed è forse la parte più promettente del libro, può essere
quello dalla politicizzazione
della sofferenza mentale. Non vi spaventate: non stiamo parlando
dei matti, ma di quei tanti, troppi problemi che tanti,
troppi di noi vivono quotidianamente sulla loro pelle e che generano disturbi
emotivi e affettivi. Dei quali, come abbiamo già scritto, molto spesso non
siamo responsabili. Fisher richiama gli studi di Oliver
James, che ha correlato i casi di sofferenza mentale con lo sviluppo
del paradigma neoliberista, e afferma perentoriamente: «anziché scaricare sugli
individui la risoluzione dei loro problemi psicologici» e «accettare la
generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi
trent’anni», dovremmo chiederci com’è stata possibile questa «piaga della
malattia mentale», che denota come, in realtà, «il capitalismo sia innatamente
disfunzionale». Il fatto è che «l’ontologia oggi dominante nega alla malattia
mentale ogni possibile origine di natura sociale», preferendo diffondere una
sua chimico-biologizzazione. Cioè: ci
viene detto che non stiamo male di testa per colpa delle conseguenze dei
meccanismi socio-economici (che non dipendono dalle nostre volontà), ma per
altre cause, magari tutte e solo nostre (ne avevamo
parlato qui);
per cui, occorre medicalizzare il disagio e ricorrere a psicologi e farmaci (qui un
nostro articolo su “Lo psicofarmaco normale”). Questa evidente depoliticizzazione ha
un duplice vantaggio per la cultura capitalista: rinforza la spinta verso una
«individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo
cervello)» e crea un fiorente mercato per le multinazionali farmaceutiche. In
realtà, molti (non tutti, certo) «sono semplicemente crollati sotto la
terrificante instabilità della condizione postfordista», che ha generato
povertà, precarietà, incertezza: tutti ingredienti che i nostri cervelli,
umanamente, faticano a gestire. Per Fisher, allora, occorre interrogarsi sulle
cause reali e strutturali di questo tipo di sofferenza. Serve «ripoliticizzare la malattia mentale»,
«prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una
condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale»: la «disaffezione»
dovuta ai disordini affettivi «può e deve essere indirizzata altrove, verso
fuori, verso la sua vera causa: il Capitale». Un tema molto potente, non c’è
dubbio.
La lotta
alla nuova burocratizzazione e la politicizzazione della sofferenza mentale ci
sembrano i due nuovi terreni politici indicati con più argomentazione e
approfondimento nel libro di Fisher. Qua e là, l’autore si riferisce anche ad
altri ambiti, ad esempio citando, solo en passant a
dire il vero, la questione
ambientale e dei nuovi stili di vita compatibili con una pianeta sano.
Con più forza, invece, Fisher pone la «questione
dello Stato»: l’ideologia neoliberale, nonostante si sia sempre
scagliata contro tutto ciò che è pubblico (welfare in primis), «è proprio sullo Stato che ha
surrettiziamente contato». Valga un esempio su tutti: la crisi del 2008 e il
salvataggio con soldi pubblici delle banche. Qui dovremmo richiamare la teoria
dell’ordoliberismo,
quello per cui chi pensa che debba essere il libero mercato a dispiegarsi senza
limiti e che l’intervento statale debba limitarsi il più possibile, si appoggia
in realtà ad uno Stato molto forte su parecchi ambiti importanti: dall’ordine
pubblico alla definizione di norme che regolino in maniera pesante proprio il
libero mercato. Una contraddizione solo apparente, che liquidiamo (il discorso
sarebbe molto lungo) con un esempio: se lo Stato (primo intervento forte)
permette di trivellare il mare per far estrarre energie naturali a grandi
imprese e ci sono manifestazioni e blocchi di vario tipo, ecco che lo stesso
Stato (secondo intervento forte) invia le forze dell’ordine per tutelare
proprio e solo le imprese, stabilendo le condizioni in cui il Capitale può
agire indisturbato. Per Fisher, allora, sono, sì, finiti i tempi in cui la
massima ambizione era l’edificazione di uno Stato che provvedeva a tutto; però,
«tenersi a debita distanza dallo Stato» non vuol dire «né abbandonare lo Stato,
né ritirarsi in quello spazio privato degli affetti e delle differenze» che,
come abbiamo in parte visto e come nota Žižek, «è complementare al dominio
dello Stato neoliberale». L’obiettivo non è trovare dei rifugi in cui il Capitale
(e lo Stato che cura i suoi interessi) non disturbi e in cui sfogare lo spirito
libertario e anti-sistema; no, bisogna fare di più:puntare
alla «subordinazione dello Stato alla volontà generale, ravvivando – e
modernizzando – l’idea di uno spazio pubblico che non sia riducibile a una
somma di individui e ai loro relativi interessi». Subordinazione dello Stato alla volontà generale:
splendido!
E allora,
sul campo, ragazzi: in mezzo a tutto e tutti, sporcandosi
le mani, parlando, dialogando e non autoconfinandosi in riserve indiane.
Belline quanto vuoi, e tanto autogratificanti; ma non in grado di spostare e
cambiare quello che non va e, addirittura, se considerate fruttuose, passibili
di venire precorporate dal Capitale. Una
bella fregatura.
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