Un estratto dal libro “Genova Macaia” (ed.Laterza), di
Simone Pieranni, in cui l’autore
racconta le testimonianze raccolte nelle aule di tribunale di quanto accaduto
nei giorni del G8 nel carcere di Bolzaneto
Sulla caserma ho affrontato
in tribunale gli sguardi degli imputati, di tutti gli imputati, compresi gli sguardi dei
«colleghi». Lo sguardo poco rassicurante di chi sa che certe cose non verranno
dimenticate. E ho sentito e letto di tutto. E poi dovevo scriverne. Vivevo a
Milano, fino alla mia partenza per la Cina, e facevo il pendolare al contrario:
tutte le mattine alle 7.10 prendevo il treno. Alle 8.50 arrivavo a Genova, alla
stazione Principe. Scendevo, tempo di immettermi in via Balbi e la prima
focaccia arrivava secca sullo stomaco. Focaccia con le cipolle e cappuccino, se
si pensava di avere tempo perché l’udienza iniziava più tardi.
Dopo il G8, quando mi è
capitato di dire «sono di Bolzaneto», ho sempre visto un impercettibile movimento delle
labbra e degli occhi nel mio interlocutore. È un lampo nell’animo, un ricordo
tagliente; che uno sia stato a Genova o meno in quei giorni del 2001, Bolzaneto
è quella roba lì: una ferita comune, un’offesa comune. E il problema, da
genovese, è che è l’ennesima. Bolzaneto è diventata cosa? È diventata la
«posizione del cigno», è diventata il triage del dottor Toccafondi, le dita
spaccate di una ferita alla mano, un salame sui genitali, «vi stupriamo come in
Bosnia», «un due tre Pinochet». È il ministro della Giustizia che non vede
nulla, niente, tutto a posto! È l’assessore alla sicurezza del sindaco Marino,
che nel 2001 è magistrato addetto a Bolzaneto, che non vede nulla, niente,
tutto a posto! Ma, oltre alle vittime, c’è un cazzo di infame. Un infermiere.
Infermiere penitenziario. Un genovese. Che racconta un’altra storia. In quelle
aule di tribunale si fa presto a far diventare la minaccia di uno stupro un
titolo di giornale. Sono capaci tutti.
All’epoca ci guardavamo
sconvolti: mesi di lavoro e di testimonianze, e una dose di cinismo che cominciava a riempire di
tacche il cuore, ma quando uscivano fuori le atrocità commesse dentro la
caserma di Bolzaneto, era troppo anche per noi. Io sognavo manganelli e pietre
che volavano, rincorse, sbuffi dei poliziotti e carabinieri, sentivo l’aria
passarmi accanto rapida, mentre dormivo. L’odore di benzina e gli elicotteri lì
sopra. Ancora oggi alcune persone si terrorizzano a sentire gli elicotteri.
Ancora oggi alcune persone si terrorizzano a sentire nominare la caserma di
Genova Bolzaneto. È una storia, del resto, che sembra non finire mai. Un
ragazzo che ha dieci anni meno di me mi ha detto: «Genova per me è un incubo:
qualunque cosa si faccia, Genova incombe». La pesantezza delle sconfitte. A
Bolzaneto fu rappresentata in modo plastico. È il 6 maggio 2005. Il giudice per
l’udienza preliminare di Genova rinvia a giudizio 45 imputati appartenenti alle
forze dell’ordine in servizio a Bolzaneto fra il 19 e il 21 luglio 2001, formulando a loro carico ben 120 distinti
capi d’imputazione: avere ingiustificatamente e ripetutamente percosso, o
avere consentito che altri percuotessero, con calci, pugni e schiaffi e
talvolta colpi di manganello alla testa, al volto, alla schiena, ai reni, allo
stomaco, ai testicoli, nonché attingendole con gas asfissianti e urticanti, le
perso- ne arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto, cagionando a vari
arrestati malori e/o lesioni personali e, in un caso, una
lesione grave (cagionata da un agente di polizia che divaricò con forza due
dita di una mano di un arrestato, provocando- gli così una ferita lacerocontusa
guarita in 50 giorni); avere costretto, o non impedito che
altri costringessero, le persone arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto
a «rimanere per numerose ore in piedi all’interno delle celle,
con il viso rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure
dietro la schiena, o sedute per terra ma con la faccia rivolta verso il
muro, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate […],
senza poter mutare tale posizione», e a subire «percosse calci pugni insulti e
minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la
suddetta posizione nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo,
del tutto vano, di cercare posizioni meno disagevoli»; avere minacciato, o
comunque non impedito che altri minacciassero, di infliggere violenze
sessuali o lesioni fisiche a numerosi arrestati, in un caso simulando
addirittura un’esecuzione sommaria; avere costretto, o
non impedito che altri costringessero, le persone arrestate che dovevano essere
accompagnate ai bagni a «camminare con la testa abbassata all’altezza
delle ginocchia e le mani sulla testa», mentre altro personale
appartenente alle forze dell’ordine presente nei locali le derideva, ingiuriava
e percuoteva; avere mantenuto, o avere consentito che altri mantenessero, le
persone arrestate senza rifornimenti di cibo, bevande e generi
necessari alla cura e alla pulizia personale in quantità adeguata
in rap- porto alla lunga durata del periodo di permanenza presso la struttura;
avere costretto, o comunque non impedito che altri
costringessero, taluni degli arrestati a ripetere frasi fasciste o comunque
contrarie alle loro convinzioni politiche, o comunque «ad ascoltare
espressioni e motivi di ispirazione fascista contrariamente alla loro fede
politica» (quali inni e slogan fascisti); avere costretto, o
comunque non impedito che altri costringessero, a compiere movimenti
innaturali aventi lo scopo di umiliarli; avere costretto, o
avere consentito che altri costringessero, un’arrestata a subire il taglio
di tre ciocche di capelli; avere pesantemente offeso, o non avere
impedito che altri offendessero, l’onore delle persone arrestate a mezzo di
«insulti riferiti alle loro opinioni politiche (quali ‘zecche
comuniste’, ‘bastardi comunisti’, ‘comunisti di merda’, […], ‘Che Guevara
figlio di puttana’, ‘bombaroli’, ‘popolo di Seattle fate schifo’ e altre di
analogo tenore), alla loro sfera e libertà sessuale e alle loro
credenze religiose e condizione sociale (quali ‘ebrei di merda’,
‘frocio di merda’ e altre di analogo tenore)»; avere costretto, o
avere consentito che altri costringessero a mezzo di percosse o altre violenze,
taluni degli arrestati a firmare i verbali relativi all’arresto con-
tro la loro volontà; avere danneggiato o sottratto, o
consentito che altri danneggiassero o sottraessero oggetti
personali alle persone arrestate; non avere consentito alle
persone arrestate di avvisare familiari e parenti del loro arresto, e
agli arrestati di nazionalità stranieri di avvertire l’ambasciata o il
consola- to del paese di appartenenza, attestando anzi falsamente sui
verbali relativi all’arresto – o consentendo che altri attestassero falsamente
sui verbali medesimi – la volontaria rinuncia degli arrestati a tali facoltà.
Simone Pieranni
da DinamoPress
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