…bombardare. E molto altro che il giornalismo con l’elmetto in testa non vede, non vede e proprio non vede. Oppure capisce al contrario.
articoli, video, immagini di Stefano Orsi, Giuseppe Masala, Daniele Archibugi, John Mearsheimer, Fabio Alberti, Francesco Vignarca, Marinella Mondaini, Demostenes Floros, Fabio Marcelli, Franco Cardini, Gianandrea Gaiani, Manlio Dinucci, Francesco Masala, Domenico Gallo, Davide Malacaria, Oskar Lafontaine, Alessandro Marescotti, Sergio Cararo, Pino Arlacchi, Pepe Escobar, Daniela Calzolaio, Maria Ancona, Guido Viale, Banksy e altre/i
Il catechismo geopolitico – Francesco Masala
La dottrina Monroe dichiara la protezione unilaterale degli Stati Uniti sull’intero emisfero occidentale.
Un esempio della dottrina Monroe:
…Nella prima importante applicazione della Dottrina Monroe, le forze statunitensi si ammassarono nel 1867 sul fiume Rio Grande per sostenere le richieste degli Stati Uniti che la Francia abbandonasse il suo regime fantoccio in Messico, guidato dal principe degli Asburgo, Massimiliano. La Francia alla fine obbedì, segnando una vittoria significativa per la diplomazia coercitiva degli Stati Uniti…(da qui)
Ma la dottrina Monroe non si può più adottare, la sta già usando la Russia
Provate a sostituire qualche parola e potrete leggere:
…le forze russe si ammassarono nel 2022 ai confini dell’Ucraina per sostenere le richieste della Russia che la Nato (e quindi gli Usa) abbandonasse il suo regime fantoccio in Ucraina, guidato da Zelensky. La Nato non rispose…
Neanche la dottrina Truman si può applicare visto che Russia non è un paese comunista, “in base alla dottrina Truman, gli Stati Uniti hanno promesso di inviare denaro, equipaggiamento o forza militare a paesi minacciati e che resistevano al comunismo.”
Neppure la dottrina Carter si può applicare, visto che la Russia non minaccia la libera circolazione del petrolio mediorientale (da qui)
La dottrina geopolitica degli Usa e dell’Occidente (i paesi della Libertà) è la seguente:
facciamo come cazzo ci pare!
La ripresa del pacifismo politico – Fabio Alberti
Nell’epoca della guerra mondiale a pezzi le politiche per il disarmo e la nonviolenza sono destinate a fallire se non si modifica la postura occidentale nelle relazioni internazionali. Prima che l’appartenenza ad alleanze militari si tratta di mettere in discussione esplicitamente la dottrina della supremazia strategica incorporata nella Nato360. Una dottrina che, oltre che immorale, alimenta necessariamente il riarmo e la guerra.
A questa va contrapposta la proposta dello sviluppo condiviso e della cooperazione globale di fronte alle sfide comuni dell’umanità. Per questo le politiche per la pace per essere efficaci devono mettere la centro la critica della politica estera italiana ed europea. A fianco del pacifismo strumentale e del pacifismo etico, va rilanciato il pacifismo politico. La parola d’ordine della neutralità attiva lanciata dalla Rete Italiana Pace e Disarmo è fondamentale e sarebbe un grave errore lasciarla cadere.
Nel suo celebre saggio del 1966 sull’era atomica[1] Norberto Bobbio identificava tre principali filoni del movimento pacifista[2]. Per usare le sue parole: “…il primo strumentale, ovvero la pace attraverso il disarmo, il secondo istituzionale, ovvero la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace attraverso l’educazione morale…”.
Nel primo filone Bobbio propone di inserire le correnti teoriche e pratiche che concentrano la propria azione sui mezzi (gli strumenti) della guerra distinguendo poi gli sforzi per distruggere le armi o almeno per ridurne al minimo la quantità e la pericolosità e quelli con lo scopo di sostituire i mezzi violenti con mezzi non-violenti. Si tratta oggi delle tante campagne e organizzazioni impegnate, anche a livello internazionale, per il disarmo e per la difesa non armata.
Nel terzo filone Bobbio inseriva le filosofie politiche e religiose che concentrano la propria attenzione sul cambiamento morale e culturale, insistendo sulle culture collettive e sulle pulsioni individuali. Vanno inserite in questo filone le politiche normalmente raccolte nella definizione di Educazione alla pace e alla non-violenza e di costruzione della cultura di pace, a cui molte risorse vengono dedicate dalle religioni e da tanti collettivi es associazioni.
Poi c’è, intermedia tra i due filoni sin qui indicati, la corrente che Bobbio definisce “Istituzionale” o “giuridica”, nella quale egli raccoglieva ritengono si debba affidare la prevenzione della guerra alla politica, con la costruzione di trattati e istituzioni internazionali atte ad impedirla (pacifismo giuridico). Si parla qui del pensiero e delle pratiche politiche che affondano le radici nel “Progetto per una pace perpetua” di Kant o che alla fine dell’800 ha posto le basi teoriche per la nascita della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi.[3]
Si tratta di quello che definirei il “pacifismo politico” perché affida alla politica ed in particolare alla politica estera e ai rapporti negoziali tra gli Stati, il compito di costruire le condizioni politiche affinché le armi non vengano costruite ed utilizzate, nel mentre che si sviluppi una cultura umana che renda la guerra un tabù e la metta “fuori dalla storia”. In questo ambito il ruolo del movimento per la pace è esiziale.
Il vasto e multiforme movimento per la pace italiano, riunito nella Rete Italiana Pace e Disarmo e in altre reti e coordinamenti comprende un insieme di organizzazioni, persone, forze politiche che coprono l’intero arco delle correnti pacifiste individuate a suo tempo da Bobbio.
Nella Rete e nel più generale movimento per la pace convivono bene gruppi che si concentrano sulla contestazione delle alleanze militari con coloro che lavorano sulla formazione alla nonviolenza, coordinamenti che si battono per il disarmo atomico con associazioni che dedicano il proprio tempo ad interventi di educazione nelle scuole.
Un universo che batte su tutti i tasti del pensiero pacifista, anche se non sempre con un riconoscimento reciproco dell’altrui indispensabilità e con limitata consapevolezza dell’interconnessione esistente tra le diverse dimensioni. È questa una ricchezza che andrebbe reciprocamente maggiormente riconosciuta dalle diverse anime del pacifismo Ma sappiamo che la strada dell’unità nella diversità è difficile.
Volendo fare una rapidissima disamina dei risultati conseguiti dai movimenti per la pace nel secolo e mezzo che ci divide dalla nascita del pacifismo come movimento politico, che possiamo far risalire convenzionalmente al primo congresso mondiale dei “Friends of Peace” di Londra nel 1843, possiamo misurare contemporaneamente successi e insuccessi.
Sul piano morale e del pensiero sono stati conseguiti importanti risultati. Oggi deliri come “guerra igiene del modo” non possono più essere nemmeno pronunciati, mentre gli Stati sono costretti ad aggettivare la guerra nei modi più fantasiosi per giustificarla di fronte alla opinione pubblica (guerra umanitaria, difesa preventiva, operazione militare speciale, ecc.).
La guerra è stata definita “flagello dell’umanità”, dalla Carta dell’Onu che l’ha messa, almeno giuridicamente, fuorilegge. La Chiesa cattolica ha, di fatto, ritrattato la teoria della guerra giusta che datava da Tommaso d’Aquino. Se pensiamo che il secolo scorso usciva da un periodo di 300 anni di guerre intraeuropee e coloniali e dal riconoscimento vestfaliano del “diritto alla guerra” in capo ad ogni Stato, l’avanzamento è certamente notevole.
Questo è certamente il risultato dell’incessante lavoro degli uomini e delle donne di pace, ma nasce anche dall’impressione che nelle menti e nell’esperienza di milioni di uomini e di donne hanno fatto la Prima e la Seconda guerra mondiale, con l’inclusione nel perimetro della guerra e del terrore dell’intera popolazione civile. Insomma, questi risultati sono costati cento milioni di morti.
Più ambigui sono i risultati sul terreno del disarmo…
Stay behind, l’Ucraina e 5 domande – Guido Viale
L’operazione Stay behind era – forse è ancora – un’iniziativa segreta della Nato, controllata operativamente dai servizi segreti degli Usa. Serviva a preparare una resistenza, da “dietro” il fronte, in caso di un’occupazione dell’Italia da parte dell’Unione Sovietica. In realtà, in caso di una vittoria elettorale dei comunisti. Per prevenirla o, nel caso, affrontarla, veniva addestrata una folta schiera di combattenti anticomunisti, venivano predisposti depositi segreti di armi, ma soprattutto, con il consenso degli Stati maggiori delle forze armate, venivano stretti rapporti con tutte le organizzazioni fasciste presenti in Italia, indotte o incoraggiate a perpetrare tutte le stragi che hanno costellato la storia del paese tra la fine degli anni ’60 e quella degli ’80. Non “per sport”, ma per preparare, attraverso varie emanazioni – Anello, Rosa dei Venti, Mar, Decima Mas, ecc. – dei colpi di Stato come quelli in Grecia e in Turchia, per allineare l’Italia agli altri Stati fascisti dell’Europa, compresi Spagna e Portogallo, ben inseriti nella cosiddetta difesa del “mondo libero”.
Non ci sono riusciti perché la resistenza popolare era – allora – troppo forte, ma quel lavoro dietro le quinte ha segnato la storia d’Italia da allora in poi. Beh! Vi dice niente?
È quello che è stato fatto in Ucraina, Paese non Nato, ma prenotato a diventarlo, tra il 2004 e il 2014, armando e addestrando gruppi e milizie naziste che hanno avuto un ruolo decisivo nella vicenda di Euromaidan: metà manifestazione di insofferenza popolare – soprattutto di giovani – per il regime, metà colpo di Stato. Confermatosi tale non con le successive elezioni, che pure avevano mandato al governo il capo e padrone di una di quelle milizie, ma certo con l’impegno da questi profuso nel tenere alte tensione e persecuzione della componente russofona della popolazione, in particolare quella insediata nelle ricche e ancora industrializzate regioni dell’est. Queste sono state spinte a rivendicare la propria autonomia prima in termini politici, poi imbracciando le armi con proprie milizie, infine chiedendo o accettando il sostegno dei militari russi. Intanto in tutto il paese si svolgevano ormai da tempo “esercitazioni” sempre più massicce della Nato, a cui le forze sempre più armate dell’Ucraina erano state di fatto integrate.
La vittoria elettorale ottenuta da Zelensky con la promessa di porre fine a quella guerra non era bastata a invertire la rotta: evidentemente i condizionamenti per proseguirla erano troppo forti. Fino a che non si
è arrivati alla secessione – o all’occupazione – della Crimea e poi, otto anni e 14.000 morti dopo, alla tentata invasione prima e alla sistematica distruzione poi dell’intero Paese da parte delle forze armate russe.
Qui il comunismo non c’entra più, perché la Russia è da tempo uno Stato capitalista, in gran parte forgiato dall’influenza che gli Stati Uniti hanno esercitato su di esso sotto il governo di Eltsin. Il confronto è tra la Nato e la Federazione Russa: l’aggressore è quest’ultima, ma il regista dell’intera vicenda è la Nato.
Dopo otto mesi e oltre 200mila morti sul campo è difficile pensare a una vittoria di uno dei due eserciti alle condizioni che i loro governi pongono. È più probabile che l’inverno favorisca il consolidamento di una situazione di stallo affidata alle “lunghe gittate”, in cui alle incursioni sul campo degli uni corrisponda un bombardamento degli altri, mandando avanti la strage e la distruzione del Paese. L’esito sarà deciso dagli Stati Uniti (non dalla Nato), perché senza le loro armi l’esercito ucraino non può combattere un solo giorno in più, per lo meno nelle forme in cui lo fa adesso. Le scorte di armi e munizioni degli Stati Uniti stanno esaurendosi, ma iI bottino per loro è già sostanzioso: Svezia e Finlandia annesse alla Nato, Ucraina in procinto di esserlo, Georgia e altre repubbliche di nuovo in bilico. Le forniture di gas dalla Russia, quand’anche volessero riprendere, interrotte per sempre dalla distruzione del gasdotto senza che chi l’ha subita osi fiatare; l’economia tedesca e dell’Unione alle corde e l’Europa intera coinvolta in una guerra destinata a non finire e ad accrescerne la dipendenza dagli Usa, condizione ideale perché l’espansione della Nato riprenda non appena se ne presenterà una nuova occasione. La disgregazione dell’impero russo e il rovesciamento di Putin auspicati inizialmente da Biden rimandati, ma certo non sospesi.
- Ma se per ipotesi si raggiungesse la vittoria invocata da Zelensky – la riconquista sul campo delle regioni orientali, ormai Federazione Russa – se ne dovrebbe comunque trarre un bilancio: valeva la pena pagare con centinaia di migliaia di morti e di invalidi, con milioni di profughi, ieri in fuga, oggi invitati a lasciare l’Ucraina perché l’infrastruttura che permetteva loro di vivere è stata distrutta, con un Paese che si è indebitato per i prossimi decenni e con gli aiuti indispensabili alla ricostruzione, se mai ci saranno, certamente non così generosi come quelli per le armi?
- E il tutto per tornare alla situazione che c’era se si fossero rispettati – e preteso con una mediazione internazionale più efficace che venissero rispettati – gli accordi di Minsk II, riconoscendo alle regioni russofone una giusta autonomia, ma senza minacciare la Federazione Russa con la presenza della Nato alle porte di Sebastopoli? Ma non era quello, evidentemente, ciò che voleva chi stava dietro le quinte.
- E ancora: non ci si sarebbe forse stato bisogno dei 14mila morti della guerra al Donbass e della distruzione di quella regione se dopo Euromaidan – rivolta popolare o colpo di stato che fosse – non si fosse perseguitata la componente russofona della popolazione con il falso obiettivo nazionalistico – in realtà nazista – di “ucrainizzare” anche lingua e tradizioni di tutti?
- E ora?Se la situazione di stallo è destinata a protrarsi continueranno anche la distruzione delle infrastrutture dell’Ucraina ad opera dell’armata russa (quelle infrastrutture che ancora oggi sono alimentate dal gas russo…), le sofferenze e l’esodo della sua popolazione, il rancore di chi ha perso tutto, amici e parenti compresi, senza ottenere nulla in cambio.
- E tra un anno o due, o forse anche più, non ci si chiederà forse se non sarebbe stato meglio proporre un cessate il fuoco per cominciare a trattare sulle condizioni che avrebbero potuto rendere più accettabile il ritorno a una situazione basata sul rispetto di tutti in una reciproca autonomia?
“Pressione psicologica”. Così “Repubblica” descriveva nel 1999 i bombardamenti Nato contro le centrali elettriche della Serbia
“Bombe alla grafite e la Serbia è al buio”. Così titolava Repubblica il 3 maggio 1999 quando la Nato era impegnata a bombardare il paese balcanico. E questo il sottotitolo: “Il portavoce Nato ‘Uno strumento di pressione psicologica, possiamo spegnere l’interruttore ogni volta che lo vogliamo. Disagi a Belgrado: forni chiusi e mezzi di trasporto fermi.”
Su segnalazione di Fabio Falchi su Facebook, vi proponiamo alcuni stralci dell’articolo di Repubblica, principale megafono – allora e oggi – delle politiche belliche dell’Alleanza Atlantica, che vi fornisce l’idea di quanta ipocrisia ci sia nel racconto di oggi del quotidiano degli Elkann sugli attacchi russi alle infrastrutture energetiche ucraine.
“L’ultimo ritrovato della tecnologia bellica. Ma soprattutto un micidiale strumento di pressione psicologica sui serbi. Le bombe alla grafite lanciate per la prima volta la notte scorsa sulle centrali elettriche di Obrenovac e Nis – e che hanno tenuto per sei ore al buio buona parte della Serbia – hanno avviato una nuova strategia di guerra. Che consiste nel provocare continue interruzioni dell’energia elettrica, senza distruggere gli impianti che la producono”. PRESSIONE PSICOLOGICA, scrive Repubblica.
“La Nato insomma ha in mano la spina della corrente elettrica in Serbia. E può staccarla a suo piacimento. […] I tentativi di ripristinare le reti elettriche che i tecnici serbi hanno messo in atto durante la giornata sono stati vani. Ancora nel primo pomeriggio infatti numerose zone di Belgrado sono tornate nel totale black out”.
“La Nato ha garantito di aver avuto cura di risparmiare il bombardamento alla grafite di strutture di particolare importanza civile, come gli ospedali. Ma le fonti serbe hanno comunicato che neppure le strutture sanitarie sono state risparmiate.volta che vorrà farlo”.
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