Chiarissimo Professore, Signor Ministro Valditara,
Mi permetta d’indirizzarLe una lettera, com’Ella ha appena fatto con le e gli studenti della scuola
italiana. Non c’è bisogno che io faccia presente a Lei la ragione per cui
scrivo «le e gli studenti»: Le chiedo tuttavia di rammentarla alla presidente
di quel consiglio dei ministri che Ella illustra con la sua statura
scientifica. La Presidente Giorgia Meloni non pare aver tenuto in conto che «presidente», come «studente», è
un participio presente sostantivato, ed è dunque declinabile nel genere. Si
tratta senz’altro di una svista passeggera, non certamente di una precisa affermazione politica: sono sicuro che Ella convincerà la
Presidente Meloni a non stravolgere la grammatica della lingua patria. Quella
stessa lingua patria (anzi, Lingua Patria) per il cui autarchico impiego strenuamente si batte il Vicepresidente della Camera Fabio
Rampelli, ma che vilmente si oppone alle ardite esegesi dell’Onorevole Andrea
Del Mastro, secondo cui il nome «carico» ha lo stesso significato nelle espressioni «carico residuo» e
«carico e scarico».
Non mi diffondo oltre nei preamboli, e vengo al contenuto della sua
autorevole epistola. Da politico di lungo corso e da esperto studioso
delle antiquitates quale Ella è, ha congegnato il suo messaggio con consumata
abilità retorica. Su un piatto della bilancia ha posto la complessità del
fenomeno comunista, «uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, che nei
diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti»: «minimizzarne
o banalizzarne l’immenso impatto storico», Ella scrive, «sarebbe un grave
errore intellettuale». Studiare questa «straordinaria complessità», nelle Sue
parole, è stato e sarà compito degli storici. Come non concordare, specie in un
momento in cui della complessità più d’uno sospetta?
Sull’altro piatto ha posto il giudizio «civile e culturale», sempre per
usare le Sue parole, a cui il crollo del Muro di Berlino ha condannato il
comunismo in Europa. Ella ha riassunto questo giudizio con astuzia, in modo da
mettere all’angolo chi voglia controbatterlo: la realizzazione concreta del
comunismo, ha scritto, «comporta ovunque annientamento delle libertà
individuali, persecuzioni, povertà, morte». «Perché infatti l’utopia si
realizzi», aggiunge, «occorre che un potere assoluto sia esercitato senza
alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia
subordinato all’obiettivo rivoluzionario». «Prendono così forma regimi
tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le
più alte che il genere umano sia riuscito a toccare». Senza dubbio non è
malizioso quel comparativo assoluto «fra le più alte», quel pudico tacere sulle
altre più alte vette d’efferatezza con cui il comunismo rivaleggia. «Non era
l’occasione adatta», mi dirà. Ne convengo. Eppure un’occasione adatta ci
sarebbe stata, giusto una decina di giorni addietro. Nessuna
missiva però il Suo Ministero ha inviato alle ragazze e ai ragazzi, in quella
data, quasi come a dire: Non si parla mai dei crimini del
comunismo.
Ad ogni modo questo silenzio, certamente involontario, non depone contro di
Lei: l’efferatezza d’un regime non ne rende meno efferato un altro. E ad
appellare una condanna formulata in termini tanto generali quanto quella che
traspare dalle Sue parole, si finirebbe respinti dal giudice della storia
(anzi, della Storia): «allora giustifichi Stalin e Pol Pot!», ci si
replicherebbe a muso duro. Si tratterebbe però di una replica piuttosto
capziosa, Ella ammetterà. Certo l’altezza della sua scienza non si abbasserebbe
a una polemica tanto triviale, pena il tradire la consegna della complessità di
cui la Sua lettera è messaggera.
Ella ovviamente ricorda il luogo del 18 brumaio (citato
non per caso all’inizio di un libro recente di Enzo Traverso) in cui Marx
scrive:
Le rivoluzioni proletarie […] criticano continuamente sé stesse;
interrompono a ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già
sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo
spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie
dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché
questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di
fronte a esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità
dei loro propri scopi.
Chiarissimo Professore, la sua sensibilità filologica è nota e apprezzata.
Non le dispiacerà perciò se, invece della Sua lettera, le ragazze e i ragazzi
vorranno prendere sul serio il testo marxiano, magari approfittando della guida
di uno studioso che lo conosce profondamente e ne sa spiegare con chiarezza la
complessità, come Marcello Musto.
Prima di scrivere la Sua epistola, Ella ovviamente si è misurata con la
migliore letteratura sulla Rivoluzione d’ottobre e sulle altre rivoluzioni
comuniste, da Trotsky a China Mieville, da Arno Mayer al già citato Enzo Traverso. E quindi sa che
questi e tanti altri lavori prendono in carico anche i fallimenti del processo
rivoluzionario, i rovesciamenti della rivoluzione nel suo contrario, con una
coscienza critica (che talora è un’autocoscienza) ben più acuta del finalismo a
poco prezzo di una frase come questa Sua, Signor Ministro: «[il comunismo]
nasce come una grande utopia. […] Ma là dove prevale si converte
inevitabilmente in un incubo altrettanto grande». Proprio perché la Sua lettera
è composta con l’abilità di un consumato oratore politico, ogni parola ha il
suo peso. In quel «inevitabilmente» si condensa il giudizio che Ella dà del
comunismo, non è vero? Come spiegare allora che i socialismi reali, lo ha ricordato ancora di recente Gianluca Falanga
(autore tutt’altro che tenero verso la Rivoluzione bolscevica), hanno
indirizzato una buona parte del loro sforzo repressivo contro il nemico
interno? Non sarà forse che, a dispetto di ogni teleologia a posteriori, il
progetto totalitario non è affatto l’unico esito possibile del comunismo, tanto
da essere combattuto – anche a costo della vita – da migliaia di comuniste e di
comunisti?
Proprio perché ogni parola della Sua lettera ha il suo peso, non deve
soprattutto passare inosservata quest’altra sentenza: «Il crollo del Muro di
Berlino segna il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria. E non può
che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia». Qui, con uno
slittamento solo all’apparenza impercettibile, la Sua condanna eccede il
bersaglio del comunismo: mira alla rivoluzione in sé. Un caro amico, che ai
Suoi occhi avrà di certo il difetto di essere comunista, ha subito indicato esattamente in Furet e Nolte la
matrice storiografica del Suo pensiero: «matrice» è del resto un termine caro alla Presidente del Consiglio dei
Ministri che Ella illustra con la sua statura scientifica.
Mi dirà, forse: «io parlavo della rivoluzione comunista, non della
rivoluzione tout court: il contesto è chiaro». Ma Ella è un
consumato oratore politico, e sa bene che una frase sentenziosa si staglia
dal cotesto per configgersi
nella memoria del lettore.
Anzi, a voler leggere meglio, non c’è nessuno slittamento di senso tra il
resto della lettera e questa sentenza. Dalla prima all’ultima parola,
Chiarissimo Professore e Signor Ministro, è chiaro che il suo idolo polemico
sia la rivoluzione più ancora del comunismo. È chiaro da ciò: che nella Sua
lettura del Novecento come scontro tra regimi di opposte ideologie gli unici
attori sulla scena sono i poteri statuali: del tutto assente è la massa, tanto
nel suo autodeterminarsi quanto nel rapporto che intrattiene con il potere. La
massa è parte dell’ontologia della rivoluzione, per citare
ancora Enzo Traverso. Disconoscere la massa come soggetto della storia, dunque,
significa negare la possibilità della rivoluzione.
In definitiva, Ministro Valditara, questa Sua lettera non è poi il buon
pezzo di oratoria politica che appariva all’inizio. Non riesce ad andare oltre
un esercizio epidittico sulla superiorità della democrazia liberale al
comunismo: esercizio anche modestamente eseguito, se l’unico luogo comune messo
a partito è quello della liberaldemocrazia come male minore. Davvero ben poco,
al cospetto della complessità che ci aveva promesso. Un consumato oratore
politico come Lei avrebbe dovuto conseguire risultati più meritevoli,
all’altezza del nome del Suo Ministero.
Le porgo i miei più cordiali saluti, con deferenza, osservanza e speranza.
Speranza che il movimento reale darà di nuovo ragione al Moro di Treviri e
torto a Lei, e che le ragazze e i ragazzi a cui Ella si rivolge opporranno alla
sua lettera la fin de non recevoir.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico
del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista
e critico musicale.
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