Non c’è ragione di soccombere al conforto complesso della disperazione, un rifugio nel lugubre che ci consegna alla sconfitta. Ma sottolineare i ripetuti fallimenti della sinistra è un rimedio inevitabile, data la sua storia di esaltazioni e cazzate, ed evidenziare quanto siano spaventosi e terribili questi giorni, anche se vi possiamo anche scorgere una speranza. Adottare l’approccio liberale e vedere come deviazioni Boris Johnson, Jair Bolsonaro, Narendra Modi, Rodrigo Duterte, Donald Trump, Silvio Berlusconi e i loro epigoni, il violento e intricato «cospirazionismo», l’ascesa dell’alt right, la crescente volubilità del razzismo e del fascismo, significa estrapolarli dal sistema di cui sono espressione. Trump se n’è andato, ma il trumpismo è ancora forte.
Nonostante tutto ciò, vista la recente sconfitta e lo smacco dei movimenti
di sinistra nel Regno Unito e negli Stati uniti, causa di profonda depressione
e demoralizzazione, questa è stata anche una fase di insurrezioni senza
precedenti nelle città americane (e altrove). La storia e il presente sono
oggetto di contesa.
Il capitalismo non può esistere senza una punizione implacabile nei
confronti di coloro che trasgrediscono i suoi divieti spesso meschini e
spietati, e di coloro la cui punizione è funzionale alla sua sopravvivenza,
indipendentemente dalla «trasgressione» immaginaria. Dispiega sempre più la
repressione burocratica, ma anche un sadismo appositamente congegnato,
sfacciato, sopra le righe. Ci sono innumerevoli orribili esempi di
riabilitazione e celebrazione della crudeltà, nella sfera carceraria, nella
politica e nella cultura. Spettacoli come questo non sono nuovi, ma non sempre
sono stati così «sfacciati», come dice Philip Mirowski, «fatti sembrare non
eccezionali» – non sono solo una distrazione ma fanno parte di «tecniche di
disciplinamento ottimizzate proprio per rafforzare il neoliberismo».
Questo genere di sadismi sociali è sempre stato contrastato e combattuto, e
ufficialmente sconfessato – in particolare «in casa», meno dove sono stati praticati
contro soggetti del dominio coloniale – da strutture che si descrivono come
razionali e giuste, persino misericordiose. Ma tutto ciò sta cambiando.
Questo sistema prospera incoraggiando forme di sadismo, disperazione e
impotenza. In più, vengono insufflate forme di «felicità» fittizia e
autoritaria, di «godimento» grigio e obbligatorio della vita, di spietata
insistenza sull’allegria, come scrive Barbara Ehrenreich nel suo libro Smile or Die. Tale positività
obbligatoria non è l’opposto di quelle miserie, ne è elemento co-costitutivo.
Questo bullismo è una versione di quello che Lauren Berlant chiama «ottimismo crudele», anche a sinistra:
nessuna ragionevole speranza guadagnata, ma un’insistenza intimidatoria sulla
necessità del pensiero positivo, a costo non solo dell’autonomia emotiva ma
dell’inevitabile crollo quando il mondo non è all’altezza di tali vincoli.
In un sistema sociale di crudeltà di massa, che celebra solo i «piaceri»
miserabili, mercificati e, in ultima analisi, impoverenti, è perfettamente
comprensibile che la sinistra sia ansiosa di sottolineare un diverso tipo e
profondità di emozione positiva, di trovare una potenziale opposizione radicale
in esplosioni di gioia socialmente destabilizzanti, come versione opposta al
sadismo. Per vedere nell’amore un evento sconvolgente e riconfigurante, una
motivazione rivoluzionaria chiave.
Dopo tutto, l’etica alla base del socialismo, dice Terry Eagleton nel suo
meraviglioso Perché Marx aveva ragione, risolve una
contraddizione del liberalismo «in cui la tua libertà può fiorire solo a spese
della mia», poiché «[solo] attraverso gli altri possiamo finalmente entrare
dentro noi stessi», che «significa un arricchimento della libertà individuale,
non una sua diminuzione. È difficile pensare a un’etica migliore. A livello
personale, è nota come amore».
In questo senso, l’amare, con uno specifico indirizzo politico, ha ispirato
i radicali per un secolo. Nel seminale Largo all’Eros alato!, la grande
rivoluzionaria Alexandra Kollontai ha descritto l’amore come «un’emozione
profondamente sociale», ha insistito sul fatto che «per un sistema sociale da
costruire sulla solidarietà e sulla cooperazione è essenziale che le persone
siano capaci di amare», e ha incoraggiato l’educazione a tal fine. Come non
considerare, per citare il titolo di un affascinante e provocatorio libro
recente, «il comunismo
dell’amore?». Attratti dal suo claim secondo cui
«ciò che viene chiamato ‘amore’ dai migliori pensatori che si sono avvicinati
all’argomento è il cuore pulsante del comunismo?».
Prendiamo l’amore sul serio, con ogni mezzo. Ma dobbiamo prendere sul serio
anche i nostri nemici e imparare da loro. In quella che è un’epoca di grande
odio. Quali elementi del Manifesto del Partito comunista mettono
a fuoco questa barbarie?
Nel 1989, Donald Trump ha suggerito che «forse l’odio è ciò di cui abbiamo
bisogno se vogliamo fare qualcosa». Il suo odio era allora, e rimane, un feroce
dispiegamento di rancore razzista di classe: una richiesta per l’omicidio
giudiziario dei Central Park Five, adolescenti neri falsamente accusati di
stupro.
Il contenuto concreto di questo odio è tutto ciò contro cui dovremmo
opporci. Ma qual è il modo migliore per contrastare l’odio? Un odio del genere
non è forse degno di odio?
Trump è scaltro. Il suo odio ha sicuramente ottenuto qualcosa, anche se non
fosse il suo obiettivo iniziale. Forse, ispirato negativamente, il nostro
stesso odio dovrebbe fare qualcos’altro, e con urgenza. Qualcosa di molto
diverso. L’odio nei confronti di questo odio sistemico.
L’odio nei confronti del potere è giusto
Il filosofo e sacerdote anglicano Steven Shakespeare avverte che
concentrarsi sull’odio come qualcosa di diverso da una forza da respingere è
«territorio irto» e «pericoloso». Come potrebbe essere altrimenti? L’odio, dopo
tutto, è un’emozione che può mandare in cortocircuito il pensiero e l’analisi,
può sfociare nella violenza, e non necessariamente con forme di discernimento.
Ma, debitamente attento, Shakespeare punta esattamente l’obiettivo da cui
ci mette in guardia, precisamente per «discernere maggiormente l’odio, da dove
viene, dove dovrebbe essere diretto e come viene catturato per gli scopi degli
altri». Sottolinea in un punto chiave che quell’odio «non presuppone alcuna
verità o armonia fondante, ma… sa di essere contro l’altro dominante» è «parte
costitutiva della singolarità di ogni essere creato». Il concetto, quindi, di
fronte alla storia umana, è che l’odio, in particolare da parte degli oppressi,
è inevitabile.
Questo non vuol dire che sia inevitabile che tutte le persone, anche tutte
le persone oppresse, sperimentino l’odio. È per affermare che l’odio, non
essendo né contingente né estraneo all’anima umana, sarà provato da alcuni,
probabilmente da molti. Che, in particolare nei contesti di società che mettono
le persone l’una contro l’altra individualmente e in massa, l’odio esisterà
certamente. La gente odierà. Come molti di noi hanno sperimentato di persona.
L’odio fa parte dell’umanità. Non c’è alcuna garanzia della direzione di
tale inevitabile odio, ovviamente. Può essere interiorizzato, nel mortale odio
per noi stessi che, sotto il capitalismo, è così diffuso. Così spesso sostenuto
dal sistema stesso. Chi, schiacciato dal capitalismo, non sente, nelle parole
conclusive della poesia di Rae Armantrout Hate, che «il mercato ti
odia/ anche più/ di quanto tu odi te stesso»?
L’odio può essere esternalizzato, senza alcuna giustizia: spesso è stato
rivolto contro chi meno lo meritava. Ma, sebbene sia diventato un cliché, la
massima preferita di Marx è molto pertinente qui: Nihil humani a me
alienum puto, niente di umano mi è estraneo. Non è produttivo patologizzare
l’odio di per sé, non da ultimo quando è naturale che sorga, figuriamoci
renderlo motivo di vergogna.
Sophie Lewis pone il punto con la consueta chiarezza tagliente. «L’odio non è quasi
mai considerato appropriato, sano o necessario nella società
liberal-democratica. Per conservatori, liberali e socialisti allo stesso modo,
l’odio in quanto tale è la cosa da rifiutare, sradicare, sconfiggere e
scacciare dall’anima. Eppure l’ideologia anti-odio non sembra implicare l’individuazione
delle sue cause profonde e dei punti di produzione, né affronta l’inevitabilità
o la richiesta – la necessità – dell’odio in una società di classe». Sollevare
questo problema, non solo dell’esistenza dell’odio ma, almeno per alcuni, della
sua potenziale stretta necessità è, per dirla con Kenneth Surin, ciò che sta
alla base de «l’utilizzo di un odio deliberato come categoria razionale».
Non ci si dovrebbe mai fidare dell’odio, né trattarlo come sicuro, né
celebrarlo fine a sé stesso. Ma, inevitabilmente, non va ignorato. Né è
automaticamente immeritato. Né, forse, possiamo farne a meno, non se vogliamo
rimanere umani, in un’epoca odiosa che patologizza l’odio radicale e incoraggia
la fatica dell’indignazione. E nemmeno l’odio consapevole è necessariamente un
nemico della liberazione. Potrebbe essere il suo alleato.
Nel 1837, l’appartenenza al gruppo di sinistra radicale del grande
socialista pre-marxista Auguste Blanqui, noto come Stagioni,
assunse come centrale tale odio socialmente informato. Contro il degrado della
tradizione rivoluzionaria, per la libertà, gli accoliti giuravano: «In nome
della Repubblica, giuro odio eterno a tutti i re, agli aristocratici e a tutti
gli oppressori dell’umanità».
Nel 1889, il poeta radicale australiano Francis Adams scrisse di aver
distrutto la sua salute nel perseguimento della lotta della classe operaia a
Londra. «Sembrava un fallimento – scriveva – Ma non ho mai disperato, né ho
visto motivo di disperare. C’era una splendida base di odio lì. Con l’odio, tutto
è possibile».
Nel 1957 Dorothy Counts pose fine alla segregazione in una scuola nella
Carolina del Nord. A proposito della fotografia che la ritrae mentre passa davanti alla feroce
folla beffarda di manifestanti, James Baldwin ha scritto che «[mi] ha reso
furioso. Mi ha riempito sia di odio che di pietà». Quest’ultima era riferita a
Counts; la prima per quello che vedeva nei volti dei suoi aggressori. Sarebbe
una devozione stupefacente e presuntuosa suggerire che un odio come questo
fosse sconveniente o che non fosse funzionale all’emancipazione.
Fondamentalmente, come ha scritto Francis Adams, ogni cosa è possibile con
l’odio, non solo le cose buone. Ecco dove sta il pericolo. Ma alcune cose sono
sicuramente positive, in termini, ad esempio, di vigore attivista. Anche
infuriarsi, certo, ma infuriarsi contro qualcosa, volendo che sia sradicato.
Era in parte in questo odio che pensava potesse esserci forza. L’assenza di una
massa critica di odio può ostacolare la resistenza: Walter Benjamin, nel suo
straordinario, profetico, controverso saggio del 1940, Tesi
di filosofia della storia, ha preso in considerazione la
socialdemocrazia in opposizione al socialismo militante, per il suo focus sul
futuro e sulla classe operaia come «redentrice», indebolendo attivamente quella
classe e distogliendo i suoi occhi dalle iniquità del passato e del presente,
per «dimenticare sia il suo odio che il suo spirito di sacrificio».
Inoltre, l’odio può aiutare non solo con la forza, ma anche con il rigore
intellettuale e di analisi. Le astrazioni del capitale possono generare la loro
logica apparentemente implacabile, contro la quale uno sguardo opposto
coinvolto emotivamente, un odioso sguardo contrario, potrebbe rivelarsi
necessario non solo eticamente ma epistemologicamente.
«Ciò che non funzionerà mai è la fredda logica della ragione – scrive Mario
Tronti in Operai e capitale – Quando non è
mossa dall’odio di classe». Perché «la conoscenza è connessa alla lotta. Chi ha
vero odio ha veramente compreso». Tronti si spinge fino a descrivere un
antinomismo radicale, cioè l’opposizione a «l’intero mondo della società
borghese, così come il mortale odio di classe contro di essa» come «la forma
più semplice della scienza operaia di Marx». Anche nei primi scritti politici
di Marx, dal 1848 al 1849, per quanto sbagliati in vari particolari, Tronti
trova «una lucidità nel prevedere lo sviluppo futuro quale solo l’odio di
classe potrebbe fornire».
Odio di classe. Odio da parte di una forza sociale, di una forza sociale
opposta, di quell’«altro dominante» individuato da Steven Shakespeare.
Quest’odio è giusto, indicato e necessario: «non un odio personale, psicologico
o patologico, ma un odio strutturale radicale per ciò che il mondo è
diventato».
L’odio e il Manifesto
Tale odio strutturale radicale, schierato con cura, potrebbe persino dare
una forma produttiva alle modalità più proteiformi di odio che sono anche
inevitabili e pericolose. «La fusione proposta qui dell’odio con una logica
strategica è essenziale se l’odio non deve trasformarsi in rabbia o in un
apocalisse senza cervello». L’odio sorgerà e, sebbene la vergogna non debba
attaccarsi a esso, deve essere diretto con urgenza. «L’odio radicale –
nella descrizione di Mike Neary – è il concetto critico su cui si
basa la negatività assoluta», ciò su cui quella rottura antinomica «si basa».
Cosa c’entra tutto questo con il Manifesto? Anche un marxologo
così sottile e alla ricerca dell’odio come Tronti si concentra e trova il suo
materiale in altri scritti di Marx. Ma quei testi vengono proprio dopo il Manifesto,
e possono essere visti in parte come risposte a esso e ai suoi fallimenti,
fallimenti delle sue profezie, delle sue speranze. L’odio di classe espresso da
quegli scritti successivi non emerge dal nulla.
Nella retorica del Manifesto, Haig Bosmajian vede «non solo
tentativi di suscitare rabbia […] ma di […] suscitare odio rivolto non solo
contro un individuo, ma anche contro una classe». Citando Aristotele per il
quale la rabbia provoca un desiderio di vendetta, «l’odio desidera che il suo
oggetto non esista», per Bosmajian in Marx «l’obiettivo era quello di condurre
i suoi ascoltatori in quella condizione in cui avrebbero desiderato che la
borghesia fosse sradicata».
Questo è ambiguo: il punto per Marx ed Engels non è lo «sradicamento» degli
individui, ma della borghesia come classe, vale a dire del capitalismo.
Suggerire che il testo evochi «odio» per gli individui borghesi significa
travisarne l’ambivalenza, così come la sua attenzione al sistema di classe del
capitalismo. Andare oltre e affermare, come fa Leo Kuper, che la «completa
disumanizzazione della borghesia» ha «rilevanza» per il problema del genocidio,
implicando una teleologia dell’«inevitabile estinzione violenta di una classe
di persone disumanizzate» è assurdo.
Da un lato, questo serve semplicemente a dispiegare la panacea liberale
secondo cui Stalin è l’esito inevitabile e l’approdo del marxismo, e quindi non
è particolarmente interessante o sorprendente. Si dovrebbe, ovviamente,
riconoscere che ci sono coloro che hanno usato argomenti come quelli del Manifesto per
commettere atti spaventosi. Tuttavia, descrivere questo terrore immaginario
come inflitto sulla base della colpa attribuita alle persone «per quello che
sono, piuttosto che per quello che fanno» è precisamente sbagliato. Nel Manifesto,
nel marxismo in generale, la relazione tra le classi non è per definizione
sulla base di identità statiche, date, ma di relazioni, che includono cose
fatte. E lo «sradicamento» necessario è di quelle relazioni, non di persone
specifiche.
Il Manifesto è chiaro: «Essere un capitalista significa
avere non solo una posizione puramente personale, ma anche sociale nella
produzione». E non per essenza di sé, come attesta la descrizione del Manifesto a
proposito del rinnegamento di classe tra alcuni borghesi, ma in virtù
dell’assunzione di «posizioni che riflettono tendenze, una tendenza alla
concentrazione del capitale e una tendenza alla dipendenza e
all’immiserimento», nelle glosse di Jodi Dean – vale a dire, perpetuando
attivamente queste strutture e dinamiche. È proprio l’urgente necessità di
rottura nel Manifesto che esprime quale odio radicale
contenga.
Ma in ogni caso, infatti, nonostante tutto il loro magnifico sproloquio
contro il sistema, Marx ed Engels furono troppo generosi nel loro elogio alla
sua trasformazione e alle sue proprietà energetiche, e alla stessa borghesia,
oltre che circa le probabilità del suo crollo. Il Manifesto è
una chiamata alle armi, ma contiene anche tracce reali di un senso di
inevitabile collasso che spingono contro quella spinta a sradicare il sistema.
Il Manifesto vuole essere un «canto del cigno» del sistema, ma
è anche un «inno alla gloria della modernità capitalista». «Mai, ripeto, e in
particolare da nessun difensore moderno della civiltà borghese è stato scritto
nulla di simile, mai è stato scritto un resoconto a nome della classe
imprenditoriale da una comprensione così profonda e così ampia di ciò che è il
suo raggiungimento e di ciò che significa per l’umanità». Se questa,
dell’economista conservatore Joseph Schumpeter, è un’esagerazione, non lo è di molto.
Il Manifesto, nonostante tutto il suo fuoco, la sua rabbia e la sua
indignazione, ammira il capitalismo, la società borghese e la borghesia. Ammira
troppo la classe borghese.
È significativo che Gareth Stedman Jones, biografo di Marx implacabilmente
disilluso, descriva il tono del passaggio più noto del Manifesto come
«sadismo giocoso». Si potrebbe contestare il sostantivo, ma non l’aggettivo. Ed
essere giocoso, giocare, implica un compagno di giochi. La stessa scintillante
e spavalda provocazione che rende il Manifesto così brillante
implica, nonostante tutto il suo antagonismo, qualcosa di ludico, che spinge il
testo contro ogni forma di odio.
Ciò non significa che il Manifesto sia privo di odio.
Ammira la borghesia, gioca rudemente con lei e senza dubbio la odia.
Naturalmente, l’odio per il sistema è evidente dappertutto. Ma nella sua forma
più combattiva, quanto odia la borghesia in quanto classe? La sezione più
antagonista è quella dei paragrafi da 2.15 a 2.67, in cui si rivolge
direttamente alla borghesia. Quel passaggio alla seconda persona individua
quale odio c’è, almeno inestricabile, nell’ammirazione. Il paragrafo 2.34 fa
intendere che sono pigri; per il 2.38 sono egoisti; dal 2.45 al 2.51 li accusa
di ipocrisia. Questo è tutto, per quanto riguarda gli attacchi diretti. La
sincera furia in questi passaggi prevale sulla messa in scena, sul piacere di
vincere una discussione, sulle cazzate retoriche.
Ma il disprezzo diretto è maggiore che nei feroci attacchi a vari
oppositori di sinistra? Semmai, il vitupero palpabile contro, diciamo, i veri
socialisti, è maggiore, proprio perché non ha quell’ambivalenza di
atteggiamento che il Manifesto nutre nei confronti della
borghesia.
Per prendere in prestito una frase di Neary, in un altro contesto,
nel Manifesto del Partito Comunista la «negatività non è
abbastanza negativa». Non odia abbastanza. Contro gli occhi roteanti del cinico
saccente, dovremmo ribadire il nostro fastidio per quelle litanie di iniquità
che il capitalismo lancia. Che provochino in noi una risposta adeguata, umana,
il furore della solidarietà, il disgusto di una sofferenza così inutile.
Chi saremmo per non odiare questo sistema e i suoi partigiani? Se non lo
facciamo, l’odio di coloro che odiano per conto suo non diminuirà. «C’è una
splendida base di odio – e se non ne costruiamo qualcosa di positivo, gli
edifici che inevitabilmente emergeranno saranno davvero molto brutti». Dovremmo
provare odio oltre le parole e portarlo a sopportare. Questo è un sistema che,
più di qualunque altra cosa, merita un odio implacabile per le sue innumerevoli
e crescenti crudeltà.
La classe dirigente ha bisogno della classe operaia. Le sue fantasie di
liberarsene possono essere solo fantasie, perché come classe non ha potere
senza coloro che le stanno sotto. Ecco il più ampio disprezzo della classe
dirigente per la classe operaia (chavs), il disgusto di classe, il
sadismo sociale, il costante diritto della classe dominante, quel senso di
essere speciali dunque le regole non gli si applicano, lo squilibrato elogio
della crudeltà e della disuguaglianza. Per quanto tutto ciò sia vile, ciò non è
odio, certamente non odio aristotelico, perché il suo oggetto non può
assolutamente essere sradicato.
Per la classe operaia la situazione è diversa. L’eliminazione della
borghesia come classe è l’eliminazione del dominio borghese, del capitalismo,
dello sfruttamento, dello stivale sul collo dell’umanità. Ecco perché la classe
operaia non ha bisogno del sadismo, e nemmeno della vendetta, e perché non solo
può, ma deve, odiare. Deve odiare il suo nemico di classe e il capitalismo
stesso.
L’odio per le forze che opprimono
l’umanità
C’è un modello per un odio migliore in uno dei testi chiave da cui è nato
il Manifesto: si tratta de La situazione della classe
operaia in Inghilterra di Engels. L’odio, del tipo più
rigoroso di classe, ricorre e ricorre ripetutamente, attraversa quell’opera
sconvolgente e bruciante. Riconosce nella borghesia, da parte sua, «l’odio
verso le associazioni» della classe operaia, naturalmente: quelle associazioni
che la borghesia potrebbe certamente eliminare. Engels non solo non si sottrae
all’odio della classe operaia per i suoi oppressori, lo invoca a sua volta
ripetutamente.
Lo vede come necessario e centrale per la politica della classe operaia. I
lavoratori, per Engels, «vivranno come esseri umani, penseranno e sentiranno
come uomini [sic]» «solo sotto l’odio ardente verso i loro oppressori, e
verso quell’ordine di cose che li mette in questa posizione, che li degrada a
macchine». L’odio è necessario per la dignità, dunque per l’agire politico. Non
celebra l’odio tout court, fin troppo consapevole dei pericoli dell’«odio
portato al limite della disperazione» e che si manifesta in attacchi
individuali dei lavoratori contro i capitalisti. «L’odio di classe», al
contrario, è «l’unico incentivo morale mediante il quale il lavoratore può
essere avvicinato alla meta». Ciò è in diretta opposizione all’odio
individualizzato: «nella misura in cui il proletario assorbe elementi
socialisti e comunisti, la rivoluzione diminuirà il suo spargimento di sangue,
la vendetta e la ferocia. . . [Non] a nessun comunista viene in mente di
volersi vendicare degli individui».
Sarebbe certamente un socialismo primitivo e pio se non riuscisse almeno a
entrare in empatia con l’odio individualizzato, o semplicemente lo denunciasse
all’ingrosso come un fallimento etico. Ciò è particolarmente vero nella nostra
epoca moderna, dove il sadismo e «la pesca a strascico» sono diventati centrali
per il metodo politico, specialmente tra la classe dirigente. Ci vorrebbe una
quantità irragionevole di santità perché nessuno a sinistra provi odio per, ad
esempio, il fondatore degli hedge fund, l’amministratore delegato di
prodotti farmaceutici e il truffatore condannato Martin Shkreli, non solo a
causa dell’ostentato profitto che trae dalla miseria umana, ma dati i suoi
sforzi ripetuti, performativi e rigorosi proprio per essere odiato. E,
naturalmente, c’è Trump che inneggia alla razza, deride la disabilità e celebra
le aggressioni sessuali.
Il punto, tuttavia, è che arrendersi completamente e acriticamente a questo
tipo di sentimento contro gli individui significa incoraggiare la propria
degenerazione etica; dare implicitamente un lasciapassare a quelli della classe
dirigente più inclini a velare decorosamente la miseria di cui beneficiano; e
perdere la concentrazione sul sistema di cui queste figure controverse sono
sintomi. Il che significa rischiare di scagionarlo.
La storia del movimento rivoluzionario è, tra le altre cose, una storia di
radicali organizzati che tentano di frenare l’odio di classe individualizzato.
L’odio deve essere odio di classe, con «idee comuniste», proprio per ovviare
«all’amarezza del presente». Ma quell’odio di classe è incandescente e deve
risplendere, e solo «amando l’odio più ardente», nella vivida formulazione di
Engels, coloro che si trovano all’estremità della storia possono mantenere vivo
il rispetto di sé stessi. Qui sta la «purezza» di cui si è interrogato il
giornalista radicale Alexander Cockburn quando ha notoriamente chiesto ai suoi
stagisti: «Il tuo odio è puro?». Si tratta della declinazione politica
dell’תַּכְלִ֣ית שִׂנְאָ֣הַ, il taklit sinah, l’«odio estremo» o
«perfetto» dei Salmi per coloro che insorgono contro il Signore. Vale a dire
traducendo in escatologia politica, i nemici della giustizia. Salmo 139:22: «Li
odio di un odio perfetto».
Dobbiamo odiare più duramente del Manifesto, per il bene
dell’umanità. Tale odio di classe è costitutivo e inestricabile dalla
solidarietà, l’impulso per la libertà umana, per il pieno sviluppo dell’umano,
l’etica dell’emancipazione implicita in tutto il Manifesto e
oltre. Dovremmo odiare questo mondo, con e attraverso e oltre e anche più
del Manifesto. Dovremmo odiare questo sistema di crudeltà odioso,
di odio e di odio, che ci esaurisce, appassisce e ci uccide, che ostacola le
nostre cure, lo rende così combattuto, limitato e locale nella sua portata e
nei suoi effetti, dove avremmo la capacità di essere più grandi.
L’odio non è e non può essere l’unica o la principale spinta al
rinnovamento. Sarebbe profondamente pericoloso. Non dovremmo né celebrare né
fidarci del nostro odio. Ma non dobbiamo neppure negarlo. Non è nostro nemico e
non possiamo farne a meno. «A rischio di sembrare ridicolo – disse Che Guevara
– lasciatemi dire che il vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento
d’amore». È per amore che, leggendolo oggi, dobbiamo odiare di più e meglio di
quanto sapesse fare il Manifesto del Partito comunista.
*China Miéville vive a New York ed è uno scrittore, attivista, fumettista,
saggista e critico letterario britannico, noto per i suoi romanzi urban fantasy
e fantascientifici, in Italia pubblicati da Fanucci. Questo testo, pubblicato su JacobinMag, è una versione rivista di quello
comparso su A Spectre, Haunting: On the Communist Manifesto (Head of Zeus,
2022). La traduzione è a cura della redazione.
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