se hai amato la trilogia di Stieg Larsson(*), questo è il libro che fa per te.
Jan Stocklassa, un giornalista che cercava
di capire i misteri della morte di Olof Palme, per caso arriva all’archivio di
Stieg Larsson, morto a 50 anni.
anche Stieg Larsson ha
cercato per anni di fare luce su quel mistero, su quel misterioso omicidio
politico, senza rivendicazioni e senza soluzione.
il libro, che si legge
come un romanzo, mette insieme le ipotesi di Stieg e Jan, e va avanti nelle
indagini, fino ad arrivare a delle ipotesi molto convincenti.
viene
sottolineata spesso, giustamente, l’inadeguatezza e l’incapacità della polizia
svedese, che non è quella del commissario Wallander (lo
straordinario personaggio creato da Henning Mankell) e degli altri poliziotti
nati dalla penna di ottimi scrittori svedesi.
il fatto che polizia e
magistratura svedese siano spesso inadeguate è forse il motivo per cui gli
svedesi devono scrivere e leggere dei romanzi per riuscire a trovare un po’ di
giustizia.
come in Italia succede
spesso (penso al caso Mattei, ma non solo), per la Magistratura svedese
l’assassinio politico di Olof Palme resta ufficialmente irrisolto, con sommo
godimento dei mandanti.
per ottenere giustizia
e verità dobbiamo leggere romanzi, inchieste giornalistiche e vedere qualche
film.
A me è
piaciuto molto, e leggerò gli altri due!
Stieg Larsson -La ragazza che giocava con il fuoco
non riesco a
trovare un motivo per rimpiangere di averlo letto.
se volete farvi del bene Stieg Larsson vi aspetta.
intanto, scusate, inizio il terzo.
La regina dei castelli di carta - Larsson Stieg
Potrei dire
come finisce, ma mi trattengo.
Alla fine 2300 pagine che non deludono.
Dai, provateci, non ve ne pentirete!
Lisbeth e Mikael saranno dei nuovi amici (altro che Facebook!).
Il segreto più grande di Stieg Larsson è rimasto chiuso per un decennio in venti scatole abbandonate in un deposito. Nel 2004, la morte improvvisa del geniale autore svedese ha interrotto anche quella che doveva essere l'inchiesta della sua vita. Perché prima di essere un grande narratore, Larsson è stato un giornalista, un investigatore che aveva scelto i movimenti di estrema destra come cuore delle proprie ricerche e che – dalla sera dell'omicidio del primo ministro svedese Olof Palme, il 28 febbraio 1986 – iniziò a intuire un micidiale teorema di connessioni. «Uno dei delitti più sconvolgenti di cui io abbia mai avuto l'ingrato compito di occuparmi» arrivò a dichiarare. Oggi il giornalista Jan Stocklassa, grazie al permesso esclusivo di aprire i venti scatoloni sigillati, riporta in vita l'ultima indagine di Larsson, un puzzle di affascinante complessità, il vero ultimo giallo dell'autore. L'omicidio di Olof Palme fu un evento di portata internazionale; l'uomo che sfidò a viso aperto l'apartheid del Sudafrica fu ucciso mentre rientrava a casa con la moglie dal cinema. Stoccolma, la capitale della civilissima Svezia, si tinse di rosso e il nero della matrice politica del delitto impregnò le sue strade. Un intrigo che rimane alle fondamenta della trilogia «Millennium».
Stieg Larsson (1954-2004)era un giornalista esperto a livello mondiale di movimenti di estrema destra,
collaboratore di diverse testate e dell’agenzia di stampa TT, corrispondente
dall’Inghilterra, consulente del ministero di Giustizia, inviato per l’OSCE, ha
lavorato anche come consulente di Scotland Yard. Nel 1995, dopo l’omicidio di
cinque ragazzi a Stoccolma per mano di estremisti di destra, fondò la rivista
EXPO, con intenti antirazzisti.
Stieg Larsson riteneva di avere una missione: sempre impegnato in prima linea
contro razzismo, antisemitismo, fascismo, movimenti nazionalisti,
discriminazioni, abusi sulle donne, si identificava totalmente con il proprio
lavoro.
Bersaglio di gruppi neonazisti, visse per anni protetto dalla polizia,
costretto a tenere segreta la propria abitazione e a modificare quotidianamente
i suoi tragitti.
Un autore che la critica svedese ha acclamato come una rivelazione, una voce
veramente nuova, fuori dal coro, capace di rilanciare il genere rivelandone le
nuove potenzialità, per doverlo subito piangere, perché morto improvvisamente
per un attacco cardiaco, nel novembre 2004, poco prima dell’uscita in libreria
del primo episodio della trilogia che aveva appena concluso.
Stieg Larsson, morendo, ha portato con sé molti segreti.
Amava il poliziesco anglosassone. A un giornale confidò: «Più che fare
propaganda o tentare di fare letteratura classica, un poliziesco deve in primo
luogo intrattenere il lettore. La narrativa di genere è tra le forme più
popolari d’intrattenimento. E solo catturando completamente l’attenzione e la
fiducia del lettore posso usarla per trasmettere un messaggio, ed è quello che
voglio fare, naturalmente.»
StiegLarssoncover.jpgLa televisione svedese SVT e la compagnia di produzione Yellow
Bird (di cui è socio anche Henning Mankell) stanno lavorando a una serie
televisiva tratta dai tre romanzi della Millennium Trilogy, oltre che a un film
per il grande schermo ispirato al primo episodio della serie, Uomini che odiano
le donne (in uscita italiana per i tipi Marsilio). La Millennium Trilogy di
Stieg Larsson è una trilogia poliziesca dalla singolare storia editoriale: ha
venduto 150.000 copie in meno di un mese dall’uscita e solo in patria ha ormai
raggiunto 1.800.000 copie, facendo di Larsson l’autore di thriller attualmente
più venduto in Svezia.
Clamoroso caso editoriale internazionale, tradotto in 20 paesi, Larsson ha già
venduto tre milioni e mezzo di copie dei suoi romanzi in Europa: in Francia
Uomini che odiano le donne, uscito in sordina, grazie a un inarrestabile
passaparola ha raggiunto le 60.000 copie vendute; in Germania è stato il
tascabile più venduto dell’anno; in Danimarca il terzo volume della trilogia,
con 110.000 copie, è il libro con la più alta prima tiratura del paese dopo la
Bibbia.
L'autointervista
che segue è stata redatta poco prima della morte dell'autore.
La fondazione
Expo
Expo è una fondazione per la ricerca con uno
scopo molto semplice: difendere la democrazia e la libertà di parola contro i
movimenti razzisti, antisemiti, di estrema destra e totalitari.
Expo è libera da legami con partiti politici.
Nel lavoro della fondazione sono impegnate persone di estrazione molto diversa,
dai giovani moderati agli ex comunisti.
Chi lavora a Expo deve lasciare il proprio
bagaglio politico fuori dalla porta.
Il lavoro alla rivista Expo e le minacce
Abbiamo iniziato nel 1995 quando sette persone
furono assassinate da un gruppo di neonazisti. All’inizio, in redazione c’erano
alcuni ragazzi che per due anni hanno lavorato fino allo sfinimento. Io stavo
su anche la notte cercando di mandare avanti le cose.
Non abbiamo avuto alcun sostegno e nel 1998 la
rivista fu sospesa. Allora tre-cinque di noi erano ancora nel direttivo e
abbiamo ricevuto l’incarico di ristrutturare l’attività e saldare i debiti. Ci
siamo riorganizzati con un nuovo direttivo nel 2001.
Mi è capitato di ricevere minacce. Ma capita a
tutti quelli che scrivono di questi movimenti.
Le minacce arrivano subito. Anche per i testi
più “innocenti”. Se le minacce aumentano, telefoniamo alla polizia. Per
esempio, qualcuno ha sparato alla finestra dell’ufficio di Kurdo Baksi, la
tipografia è stata danneggiata da un gruppo di vandali e qualcuno ha assalito
uno dei distributori di Expo. Ma siamo stati costretti a telefonare alla
polizia soltanto in tre occasioni.
La Millennium Trilogy
Ho iniziato a scrivere nel 2001. All’inizio lo
facevo per divertimento.
Era una vecchia idea degli anni Novanta. Io e
Kenneth A dell’agenzia di stampa TT non avevamo molto da fare e così abbiamo
iniziato a scrivere un testo sui vecchi Gemelli Detective, una
serie per bambini degli anni Cinquanta. Era divertente e ci siamo detti che
avremmo dovuto scrivere che ora avevano quarantacinque anni e che stavano
affrontando il loro ultimo mistero. Così ebbe inizio la mia idea, ma subì dei
cambiamenti. Cominciai a pensare a Pippi Calzelunghe. Come
sarebbe stata oggi? Come sarebbe stata da adulta? Come l’avrebbero definita?
Sociopatica? Donna-bambina? Pippi ha un’altra visione della società. La trasformai
in Lisbeth Salander, venticinque anni, una ragazza completamente al di fuori
della società. Non conosce nessuno, non ha alcuna capacità di socializzare.
Poi pensai che ci volesse un contrappeso per
Lisbeth. E fu Mikael “Kalle” Blomkvist, un giornalista di quarantatré anni. Un
“fratello in gamba” che lavora alla propria rivista, Millennium.
L’azione si svolge intorno alla redazione della rivista. Ma anche intorno a
Lisbeth, che non vive una vita molto attiva.
Le persone coinvolte sono molte, di tutti i
tipi. Lavoro con tre gruppi distinti. Uno intorno a Millennium,
che ha sei dipendenti. I personaggi secondari non entrano in scena soltanto per
dire qualcosa. Agiscono e influenzano l’azione. Non è un universo chiuso.
Poi c’è il gruppo intorno alla Milton Security,
una società di sicurezza diretta da un croato.
E poi c’è il corpo di polizia, attori che
agiscono da soli.
Solo nel terzo romanzo tutti i pezzi del puzzle
trovano il loro posto e si capisce quello che è successo. Ma si tratta anche di
qualcos’altro. Nei romanzi gialli in genere non si vedono mai le conseguenze di
quello che è successo in una storia precedente. Nei miei romanzi sì.
Scrivere romanzi gialli
È tutta la vita che leggo romanzi gialli. Alla
TT scrivevo due colonne all’anno, una d’estate e una a Natale. Scrivevo sui
cinque migliori romanzi del momento. Fra i quali Sara Paretsky, Val McDermid,
Elisabeth George, Minette Walters. Strano, ma i romanzi che ho lanciato erano
quasi tutti scritti da donne.
So quello che mi irritava dei romanzi gialli.
Spesso i protagonisti non descrivono la società che li circonda.
Scrivo molto rapidamente. È facile scrivere
romanzi gialli. È più difficile scrivere un articolo di 5000 caratteri che deve
essere corretto al cento per cento. Non dobbiamo mai sbagliare a Expo,
perché in quel caso possiamo essere attaccati dalla stampa avversa.
Scrivere un romanzo giallo significa scrivere
qualcosa di divertente. Non è come scrivere propaganda o letteratura classica.
I romanzi gialli sono fra i più popolari mezzi di intrattenimento che esistono.
E se poi si cerca di inviare un messaggio... io lo faccio.
scrive Stieg Larsson, sull'omicidio di
Olof Palme
Lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore della
trilogia Millennium, tre settimane dopo l'omicidio di Olof
Palme, il premier socialdemocratico, spedì una lettera di sette pagine a Gerry
Gable, caporedattore di Searchlight, il
periodico britannico schierato contro il razzismo. Il testo è stato scovato
nell'archivio segreto di Larsson da Jan Stocklassa, ex diplomatico e scrittore,
che proprio da quelle carte è partito per la sua inchiesta, lunga otto anni,
dedicata al caso Palme. Larsson suggeriva di seguire le due piste che oggi –
come racconta Jan Stocklassa nel suo libro L'uomo che scherzava col fuoco,
in uscita per Rizzoli – sono le più accreditate dalla polizia: i servizi
segreti sudafricani e i neofascisti svedesi. Ecco la lettera
Stoccolma, 20 marzo 1986
Cari Gerry & amici,
l’omicidio del primo ministro svedese Olof Palme
è,
a essere del tutto sinceri, uno dei delitti più
incredibili
e sconvolgenti di cui io abbia mai avuto
l’ingrato compito
di occuparmi.
Sconvolgente per come la storia si avvita di
continuo
su se stessa, cambia bruscamente direzione,
dando origine a nuove sconcertanti scoperte, per
poi
mutare ancora, in vista del passo successivo.
Incredibile
per la sua portata politica e per il fatto che –
per
la prima volta nella storia, credo – un capo di
governo
sia stato ucciso senza che si abbia la minima
idea del
o dei colpevoli. Inquietante – i delitti lo sono
sempre
– poiché la vittima era il primo ministro, un
uomo apprezzato
e rispettato in Svezia, non solo dai
socialdemocratici
ma anche da chi (come me) non lo è.
Da quando il telefono si è messo a squillare nelle
prime ore del mattino di sabato 1º marzo, e il
mio
caporedattore mi ha informato del delitto
ordinandomi
di farmi trovare alla scrivania, il mio mondo
è costantemente nel caos. Provate a immaginare
se
doveste occuparvi dell’omicidio della signora
Thatcher
e l’assassino fosse scomparso senza lasciare
traccia.
E poi lo shock. Quel sabato mattina, mentre la
notizia
si spargeva per la Svezia ancora addormentata,
ho incontrato persone che d’impulso uscivano in
strada,
con volti pallidi e cupi. In redazione ho visto
navigatissimi
cronisti di nera – uomini e donne che hanno
visto di tutto, più e più volte – interrompersi
all’improvviso
a metà della scrittura di una frase, chinare
il capo e scoppiare a piangere.
Io stesso mi sono ritrovato di colpo in lacrime,
quella
mattina. È successo quando mi è piovuta addosso
una disperata sensazione di déjà-vu, nel momento
in
cui mi sono reso conto che in meno di tre anni
era la
seconda volta che perdevo un primo ministro: il
primo
era stato Maurice Bishop, a Grenada – un uomo
per il quale nutrivo affetto, rispetto e fiducia
più che
per molti altri. E adesso succedeva ancora.
Dopo, messo da parte lo sconforto e sepolto il
signor
Palme, ecco il momento in cui i reporter tutt’a
un tratto si accorgono di quanto questo caso sia
un
esempio da manuale.
A volte si sviluppa al ritmo concitato di un
romanzo
di Robert Ludlum. Certi giorni, invece,
assomiglia
a un mistero alla Agatha Christie per poi
evolvere in un poliziesco in stile Ed McBain,
con
una spolverata di spacconeria alla Donald
Westlake.
La posizione della vittima, l’incidenza
politica,
l’assassino senza volto, le congetture, le piste
che
non portano a nulla, arrivi e partenze di
presidenti
e monarchi, i percorsi delle automobili, le
dicerie, i
pazzoidi, quelli che «io l’ho sempre saputo», le
telefonate,
le soffiate anonime, gli arresti e la sensazione
che si ha quando si crede che i conti stiano per
quadrare… e invece si approda solo al nulla e
alla
confusione.
Su questa storia si scriveranno libri.
Di norma, chi uccide un capo di governo viene
catturato
o ucciso nei secondi o minuti immediatamente
successivi al fatto. E l’indagine di solito si
riduce a un
caso aperto e subito chiuso. Stavolta no.
Qui abbiamo un primo ministro che fa una
passeggiata
serale insieme alla moglie, senza guardie del
corpo nel raggio di chilometri. E abbiamo un
assassino
che svanisce nel nulla.
Insomma, siamo seri: da dove si comincia
un’indagine
che ha letteralmente migliaia di sospettati e
neppure una pista?
Perdonatemi questo esordio farfugliante. Non
avevo neppure messo in conto di scrivere tutte
queste
cose.
Venendo al punto, ho pensato di scrivervi del delitto
Palme fin da subito. Ho abbozzato otto o nove
lettere
senza concluderne neppure una. Perché? È presto
detto: perché prima che io avessi il tempo di
concludere,
emergeva qualche nuovo e sorprendente elemento
che impartiva alla vicenda una nuova direzione.
Così,
ogni volta dovevo strappare quel che avevo
scritto e
ricominciare daccapo.
Perciò questa lettera è solo un tentativo di
darvi
un ragguaglio su cosa, in relazione
all’omicidio, è
un dato di fatto e cosa no. Dopo aver passato le
ultime
tre settimane a convivere con questo delitto
ventiquattr’ore su ventiquattro, ho grosse
difficoltà
a mantenere il giusto distacco, e dato che
questa
sera l’intera indagine sembra essere finita in
un
vicolo cieco, questo ragguaglio sarà anche un
modo
per mettere ordine nei miei pensieri e fare il
punto.
Cosa che potrebbe tornarvi utile, qualora
decideste
di scrivere un articolo nel prossimo numero.
Cercherò
di citare solo le informazioni pertinenti.
Tanto per cominciare, cos’è accaduto e cosa
sappiamo
sul delitto?
Un paio di minuti dopo le undici di sera del 28 febbraio
Palme esce dal cinema Grand in compagnia della
moglie e del figlio maggiore. L’uscita al cinema
è stata
decisa in un momento imprecisato della giornata
di
venerdì; Palme ne ha fatto cenno davanti a un
giornalista
alle due del pomeriggio, ma i loro programmi
non erano noti al pubblico.
Il primo ministro, come spesso accadeva, ha
congedato
le guardie del corpo dicendo che non avrebbe
avuto bisogno di loro per tutta la sera. Niente
d’insolito
in quella richiesta, poiché tutti sanno che
Palme
amava passeggiare di notte da solo, quando non
era
in servizio e non c’era nulla che rendesse
necessarie
misure di sicurezza supplementari. In ogni caso,
non
è chiaro se la polizia di sicurezza fosse al
corrente dei
suoi programmi per la serata.
Fuori dal cinema, Palme e la moglie hanno dato
la
buonanotte al figlio e – dato che il cielo era
limpido e
il gelo svedese ordinario – si sono incamminati
verso
casa. Qualche minuto dopo che si sono separati,
per
puro caso il figlio si è voltato e ha notato un
uomo alle
spalle dei genitori; non è riuscito a vederlo in
faccia
ma la descrizione dell’abbigliamento dell’uomo,
che
il figlio ha rilasciato in seguito, è coerente
con quella
dell’assassino fornita da altri testimoni.
Due minuti dopo, il primo ministro e la moglie hanno
incrociato un testimone, il quale si è fermato
al loro
passaggio. Questi ha raccontato che i coniugi
erano
tallonati da un individuo, e che altri due
uomini precedevano
la coppia. Ha avuto l’impressione che fossero
tutti insieme, e ne ha concluso che i tre
sconosciuti
fossero la scorta del politico.
Il primo ministro e la moglie hanno imboccato
Sveavägen, hanno attraversato la strada per
guardare
una vetrina, poi hanno ripreso a camminare.
All’angolo tra Sveavägen e Tunnelgatan
l’assassino si
è avvicinato al primo ministro e gli ha esploso
un proiettile
calibro .357 Magnum nella schiena.
Per la polizia tutto fa pensare che l’omicidio
sia
stato commesso da un professionista, e la stampa
sembra concordare, pur con un margine di dubbio.
L’assassino ha sparato un solo colpo, ma la
pistola è
una delle armi leggere più potenti al mondo.
Chiunque
abbia conoscenze in materia sa quanto possa
essere
devastante l’effetto di un unico colpo. Risulta
che il proiettile è penetrato al centro della
schiena
– tranciando la spina dorsale, devastando i
polmoni,
lacerando la trachea e l’esofago – e ha lasciato
un
foro di uscita abbastanza ampio da contenere un
cappello.
La morte è stata istantanea, o è sopraggiunta
entro pochi secondi. La pallottola non era
progettata
per frammentarsi, ma era rotante e incamiciata,
in
modo da poter perforare anche un eventuale
giubbotto
antiproiettile.
L’assassino ha poi esploso un secondo colpo su
Lisbeth Palme, moglie del primo ministro, ma
evidentemente
non aveva lo scopo di ucciderla: l’avrebbe
colpita alla spalla, se lei non si fosse voltata
di scatto. Di conseguenza, la pallottola ha
trapassato
una spallina del cappotto, provocando soltanto
qualche ustione superficiale. Partendo da questi
fatti
si possono avanzare congetture sulla professionalità
dell’assassino: certi ritengono che mirasse a
uccidere, ma che essendo un dilettante abbia
commesso
un errore dovuto all’agitazione; altri affermano
che semmai questo dimostra che si tratta di
un professionista e che il secondo colpo aveva
l’unico
scopo di spaventare Lisbeth Palme affinché non
lo inseguisse.
Dopo l’omicidio, l’assassino si è allontanato
lungo
quello che sembrerebbe un «percorso di fuga ben
pianificato»,
prendendo la scalinata in fondo a Tunnelgatan
e rendendo così impossibile l’inseguimento in
auto.
Quelli che ho riportato finora sono fatti
concreti,
in linea con la versione ufficiale della
polizia.
È da qui che cominciano i problemi.
Diversi testimoni hanno fornito descrizioni
vaghe,
spesso contraddittorie, dell’assassino. La più
ricorrente, e dunque probabilmente la più
corretta,
è questa: uomo bianco, fra i trenta e i
quarant’anni,
statura media e spalle larghe, con un berretto
grigio
più o meno della foggia di quello di Andy Capp
ma con
lembi che si possono calare sulle orecchie, un
giaccone
scuro lungo fino ai fianchi e pantaloni scuri.
Più di
un testimone dice che portava un piccolo
borsello con
cinghia, di quelli nei quali si tengono, per
esempio,
soldi e passaporto.
Da una serie di testimonianze si evince quanto
segue:
1. Lars, un uomo sui venticinque anni, ha
incrociato
l’assassino in fondo a Tunnelgatan, ma senza
essere
visto, perché i due sono passati ai lati opposti
del gabbiotto di un cantiere. Lars ha esitato
per pochi
preziosi secondi – meno di un minuto – dopodiché
ha deciso di corrergli dietro. In quel momento
non sapeva che la vittima era il primo ministro.
Si
è lanciato su per gli ottantasei gradini, ma
quando
è arrivato in cima alla scalinata dell’assassino
non
c’era traccia. D’istinto, Lars ha proseguito lungo
David Bagares gata, dove dopo un quarto d’ora si
è
imbattuto in…
2. … una coppia che veniva a piedi verso di lui.
Ha
chiesto ai due se avessero visto un uomo che
correva
via, e loro hanno confermato che sì, lo avevano
visto mezzo minuto prima. Lars era stupito
– ha poi raccontato – di non essere più riuscito
a
scorgerlo, dato che l’uomo non aveva poi così
tanto
vantaggio.
3. Una quarta testimone, di cui non compare il
nome, ma che è nota come «Sara», ha segnalato
un nuovo avvistamento l’indomani mattina.
Sara, che ha ventidue anni ed è un’artista
specializzata
in ritratti, intorno all’ora del delitto
stava camminando lungo Smala gränd, a pochi
passi da David Bagares gata. A metà del vicolo
ha incrociato un uomo che corrisponde alla
descrizione
dell’assassino. Sembrava di fretta, ma
quando si è trovato alla sua altezza ha esitato
per qualche secondo. Tornata a casa, Sara ha
acceso
la radio, ha sentito la notizia dell’omicidio
e l’ha subito collegata all’uomo che aveva
visto,
e ha buttato giù un ritratto. Il suo disegno è
stato
usato come base per l’identikit tracciato dalla
polizia.
Questi quattro, scelti fra più di diecimila,
vengono
ritenuti testimoni attendibili che hanno
riportato fatti
incontrovertibili.
4. Un quinto testimone – reputato non
altrettanto affidabile
– è un tassista che, mentre era fermo nella
sua auto in Snickarbacken, ha visto una persona
passare di corsa e saltare a bordo di una Passat
verde, o blu, che a quanto pare lo aspettava. La
vettura
è partita in fretta.
Snickarbacken è una traversa di Smala gränd, ed
è
possibile che quanto riportato dal tassista
abbia qualche
attinenza con il percorso dell’assassino.
Tuttavia,
ci sono parecchi punti di domanda. L’uomo
afferma
che l’evento si è verificato circa
dieci-quindici minuti
dopo l’ora del delitto, ma per coprire quel
tragitto ne
bastano tre o quattro.
Inoltre, sbaglia il nome della traversa di
Snickarbacken:
non cita Smala gränd, ma un’altra via.
Ciononostante, la catena di prove fa pensare che
l’assassino gli sia davvero passato accanto, e
la polizia
è dell’opinione che il tassista si fosse
assopito, e
che per questo abbia commesso un errore nel dare
indicazioni
sull’orario. (Comunque sia, la sua testimonianza
ha avuto come effetto la ricerca di una Passat
verde o blu, soprattutto perché l’uomo ha
fornito un
numero di targa parziale.)
I fatti appurati finora hanno indotto la polizia
a
ipotizzare che ci troviamo di fronte a
un’esecuzione
pianificata con meticolosità da più individui.
Salvo il
fatto che gli inquirenti non hanno indicato, a
livello
ufficiale, di quale tipo di gruppo o di persone
possa
trattarsi.
Prima domanda insidiosa:
Cosa sarebbe successo se il primo ministro non
fosse tornato a casa a piedi, ma avesse preso la
metropolitana
insieme al figlio, e dunque non fosse mai
arrivato nel punto ideale per il delitto?
Se ci fosse stata un’accurata pianificazione,
l’assassino
si sarebbe visto costretto a rimandare
l’omicidio,
a meno che altre auto per la fuga e/o diversi
complici
non fossero stati previsti sin dall’inizio.
Come dicevo, le dichiarazioni di alcuni
testimoni
avvalorano quest’ultima tesi. (Da notare che
sono
state messe in dubbio da inquirenti e
giornalisti, e che
ben poche sembrano credibili.)
1. Un uomo che ha attraversato Tunnelgatan
all’ora
dell’omicidio, ma nel senso opposto, dall’altro
lato
di Sveavägen, ha incrociato due uomini di
mezz’età
che si allontanavano di corsa dal luogo del
delitto.
2. Altre due persone confermano: parlano di due
uomini
che svoltano in Drottninggatan e si separano.
3. Una quarta testimone racconta di un uomo che,
uno o due minuti dopo, è arrivato di corsa in
Drottninggatan,
sì è fermato di colpo e ha fatto un cenno
a un’auto, che lo ha caricato ed è «partita a
tutta
velocità».
È più o meno qui che l’indagine si arena. Certo,
si
possono fare innumerevoli congetture, ma non c’è
nulla di direttamente collegabile al crimine.
Vicolo cieco. Punto.
La maggior parte dei summenzionati fatti è stata
appurata nei primi 1-2 giorni (o minuti,
addirittura)
successivi al delitto. Dopodiché sono arrivati i
mitomani con il classico «sono stato io», più un
certo
numero di testimonianze di scarsa o nessuna
attendibilità
e – ovviamente – le telefonate anonime.
In genere dopo un attentato terroristico,
perlomeno
da parte della «sinistra», la rivendicazione
dei mandanti arriva entro poche ore. Non in
questo
caso.
Fra le organizzazioni che hanno tentato di
prendersi
il merito del misfatto c’è di tutto, dal
commando
Christian Klar al gruppo Holger Meins, dagli
ustascia
a diverse formazioni destrorse e neonaziste.
Nessuna
di queste rivendicazioni è da prendere
seriamente in
considerazione.
Dalla notte del delitto, per vari giorni la
Svezia è
stata una nazione sotto assedio: aeroporti
bloccati,
rigorosissimi controlli alla frontiera, traghetti
e porti
passati al setaccio. (Naturalmente questo genere
di misure non serve a niente, dato che a un
omicidio
ben pianificato segue una fuga altrettanto ben
pianificata.)
Tre giorni dopo l’attentato, un poliziotto viene
fermato
e sottoposto a interrogatorio, perché sospettato
di essere implicato: un estremista di destra,
noto per
andare in giro armato, e con un alibi
traballante. Ma
lo rilasciano nel giro di due giorni, e la
polizia dichiara
che non ha nulla a che vedere con il crimine.
Poi, dopo una decina di giorni dalla notte
dell’omicidio,
un altro uomo viene posto in stato di fermo per
presunta complicità. Si chiama Victor
Gunnarsson,
trentadue anni, e risulta membro del Partito
Operaio
Europeo (Europeiska Arbetarpartiet). Per quasi
ventiquattr’ore
è sembrato profilarsi un ottimo scoop,
soprattutto quando la polizia ha dichiarato
pubblicamente
di aver trovato il colpevole. (Cambiando anche
la formulazione delle accuse). Parecchi elementi
puntavano contro di lui.
È uno squinternato estremista di destra,
documentatamente
ossessionato dal primo ministro – in
riferimento al quale ha più volte dichiarato che
«bisognerebbe
sparargli» –, nonché noto per aver seguito
Palme durante comizi e manifestazioni pubbliche.
Si trovava nei dintorni, al momento dei fatti.
Secondo
alcune fonti, era nello stesso cinema dov’era
entrato
il primo ministro.
Lui non è in grado di fornire indicazioni
precise su
dove si trovava, e ha mentito spudoratamente
alla polizia
su diversi punti cruciali.
Possiede un berretto grigio e un giaccone simili
a
quelli dell’assassino.
In quanto addetto alla sicurezza per diverse
agenzie
private, è addestrato all’uso delle armi e sa
maneggiare
un revolver.
Un testimone lo ha identificato come l’uomo che
ha cercato di fermare un’auto per allontanarsi
dalla
zona immediatamente dopo i colpi d’arma da
fuoco, in
una traversa di Tunnelgatan.
È stato visto entrare in un cinema, circa dieci
o dodici
minuti dopo lo sparo, quando il film era
cominciato
già da mezz’ora.
È noto per avere legami con un gruppo non ancora
identificato di estrema destra, religioso e
antisemita,
con sede in California, dove ha anche trascorso
vari
periodi.
Nel giro di ventiquattr’ore tutto l’interesse
della
nazione si concentra sul Partito Operaio
Europeo, su
cui io stesso ho scritto diversi articoli, e
pare finalmente
che il caso si stia risolvendo.
Ma poi, poche ore prima dell’udienza per la
carcerazione,
Gunnarsson viene rimesso in libertà. Perché?
Be’, perché il testimone che l’aveva visto
cercare
di farsi dare un passaggio dopo il delitto
tutt’a un
tratto non è più in grado di puntare il dito
contro di lui
con una sicurezza del 100%.
La qual cosa ci porta alla data odierna: oggi la
polizia
ha cancellato la quotidiana conferenza stampa,
non
avendo nulla di nuovo da dichiarare. Vicolo
cieco.
Riflessione: è possibilissimo che Gunnarsson
venga
arrestato di nuovo; il giudice per le indagini
preliminari
dice che non ci sono elementi contro di lui, ma
che merita attenzione.
E questo è tutto, per ora. Certo, potrei
continuare
con le congetture per altre duecento pagine –
come dicevo,
su questa storia si scriveranno libri (forse
dovrei
scriverne uno io) – ma non c’è poi molta
sostanza.
Abbiamo un primo ministro morto e un assassino
scomparso senza lasciare traccia.
Tra le varie ipotesi c’è quella di un nesso con
certi
interessi sudafricani. La Commissione Palme, di
cui
il primo ministro era un membro importante,
aveva
avviato una campagna contro i trafficanti d’armi
che
facevano affari con il regime dell’apartheid.
C’è anche la teoria del Pkk, il partito curdo
che negli
ultimi due anni ha commesso almeno tre omicidi
politici
in Svezia. Finora i bersagli erano «traditori»
all’interno
dell’organizzazione stessa, ma un’idea diffusa
(e
piuttosto razzista) vuole che il colpevole vada cercato
lì. Perché? Perché la sede del partito a
Stoccolma è in
David Bagares gata, proprio dove l’assassino si
è volatilizzato.
(Sorvoliamo sul fatto che questa teoria non
tiene conto che bisognerebbe essere molto
stupidi per
correre a nascondersi nel quartier generale dei
propri
mandanti, a due minuti dal luogo del delitto).
Insomma, lo scenario è questo. Se accade
qualcosa
di nuovo, posso telefonarvi, se volete un
resoconto, e
potete sempre usare queste informazioni come
materiale
di base.
Accludo una foto di Gunnarsson, ma ricordate: il
suo avvocato intende fare causa ai giornali
stranieri
che dovessero pubblicarla (io sono tra quelli
che erano
riusciti ad accaparrarsela in previsione dello
scoop
– prima che lo rilasciassero).
Ok, tanti saluti,
Stieg
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