venerdì 9 dicembre 2022

Amore e morte: l’ultima intervista di Bruno Bettelheim

 

A 20 anni dal suicidio del grande psicologo, ricordiamo la sua grande lezione di persona e di studioso

 

Siamo lieti di offrire ai lettori italiani l’ultima intervista di Bruno Bettelheim rilasciata a Celest Fremon e pubblicata sul Los Angeles Times il 27 gennaio 1991. In questa lunga intervista Bettelheim, che si sarebbe tolto la vita pochi mesi dopo, parla dei temi cari alla sua riflessione e al suo lavoro di psicologo w e terapeuta: il trauma dell’Olocausto, l’attività con i bambini autistici, la vecchiaia, la morte, l’amore, i rimpianti. Una bella testimonianza di un intellettuale che ha contribuito tanto a formare la coscienza del nostro tempo.

Buona lettura!


“Il problema è trovare una ragione per vivere”

A dirlo è Bruno Bettelheim, il leggendario psicoanalista e psicologo infantile. È seduto sulla sua poltrona preferita, una poltrona minimalista in stile ikea degli anni Sessanta, nel salotto del suo appartamento al quinto piano di uno stabile a Santa Monica. L’Oceano Pacifico manda riflessi blu e bianchi sul pavimento e sul soffitto. Ha 86 anni e, sebbene la sua mente sia più brillante di quella di un trentenne, il suo corpo sta venendo meno. Mentre mi accompagna alla sedia, la sua andatura è faticosa, le spalle ricurve. Mentre parla, i movimenti della mano destra — la mano che scrive — sono scattosi e scoordinati.

Anche se il calendario segna fine ottobre, è una di quelle tipiche giornate della California del Sud, dall’aria estiva. Un’atmosfera che contrasta fortemente con la conversazione in corso: Bruno Bettelheim sta parlando della sua intenzione di togliersi la vita.

Per un attimo il suo sguardo vaga nella stanza, ricolma dei ricordi di una vita: manufatti greci e precolombiani provenienti da suoi viaggi all’estero, scaffali pieni di libri d’arte e di album di opere liriche, incisioni di Rembrandt e, sopra il divano, il dipinto di una donna che cammina sul fianco di un edificio. Il titolo del quadro è “Il sognatore”.

Il tempo migliore e quello peggiore

“Non riesco più a fare le cose che mi piace fare”, dice. “Mi piace camminare”. Mi piace fare escursioni. Quando leggo, mi stanco. Dickens ha scritto (ne Le due città): ‘Era il tempo migliore e il tempo peggiore’. Tutto dipende da come lo si guarda. Con i miei anni non si può più guardarlo e dire: “ È il tempo migliore. Almeno, io lo trovo impossibile da sopportare”.

Si sofferma un attimo. “Tuttavia, se fossi sicuro di non soffrire o di non diventare un vegetale, allora, come la maggior parte di tutti noi, credo che la mia scelta sarebbe vivere”. E poi sorride. “Ma, naturalmente”, dice, “non ho questa certezza. Per questo la decisione è così problematica”.

Ci siamo incontrati nell’ottobre del 1989. Il 13 marzo 1990, Bruno Bettelheim è stato trovato morto sul pavimento della stanza in una casa di riposo del Maryland, con un sacchetto di plastica sulla testa e tracce di barbiturici nel sangue.

Un faro della psicologia contemporanea

La notizia della sua morte ha scosso la comunità degli psicologi. Da 50 anni Bruno Bettelheim è considerato come uno dei più importanti pensatori e operatori nel campo della psicologia e dello sviluppo infantile. La sua genialità consiste nella straordinaria capacità di trovare una via d’uscita e una speranza in situazioni nelle quali c’è solo disperazione e rassegnazione.

Le sue orribili esperienze come internato nei campi Dachau e Buchenwald sono state l’occasione per riflettere sulla natura della sofferenza umana. Una esperienza che lo aiuta a curare le ferite psichiche degli altri.

Come di direttore della Scuola di Ortogenetica di Chicago, cura con successo bambini così involuti emotivamente da essere ritenuti incurabili. Scrive decine di saggi e libri influenti, vince il National Book Award del 1976 con Il mondo incantato (trad. it., Feltrinelli). Un libro seminale che indaga il modo in cui le favole aiutano i bambini a superare i loro problemi e le loro paure più nascoste.

Il suicidio è un fallimento per il terapeuta

“Bettelheim costruisce la teoria della “Persona in camice bianco” (The Man in the White Coat Theory), dice Roger Pittman, un terapista di Los Angeles che ha lavorato con Bettelheim in un gruppo di studio fino al gennaio 1989. “Bruno dice che oltre all’onestà e alla professionalità ci deve essere un’altra qualità nella persona dal camice bianco. Ci deve essere la magia della guarigione. Beh, certamente L’uomo col camice bianco non si uccide. Nella professione terapeutica, quando un paziente si uccide, è il fallimento totale. Se Bettelheim si uccide è la nostra stessa professione a dichiarare fallimento”.

“È devastante quando qualcuno che ha un ruolo terapeutico compie un’azione che appare così disperata”, dice un ricercatore che ha lavorato con Bettelheim. “Ma è 100 volte peggio quando accade a qualcuno che ha salvato così tante persone dalla disperazione”.

Perché proprio la persona che inventa la teoria della persona con il camice bianco, cioè Bruno Bettelheim, programma la sua morte?

Penso di avere scoperto, almeno in parte, la risposta a questa domanda. All’inizio dell’autunno del 1989, Bettelheim accetta di essere intervistato su aspetti della sua vita che non sono mai entrati nelle sue pubblicazioni: il matrimonio, l’analisi, l’amicizia con Wilhelm Reich e altre personalità del suo tempo.

Un viaggio trascorso

Sin dalla prima intervista, sebbene Bettelheim si concentri su argomenti che vanno da Reich (“Poche persone erano testarde come lui”) alla sua favola preferita (Hansel e Gretel, “perché il ragazzo e la ragazza hanno bisogno l’uno dell’altra”), appare piuttosto turbato. È come se chiedergli di parlare della sua vita e delle sue idee equivalga a chiedergli di sfogliare un album di ritagli di un viaggio ormai trascorso. Finalmente frustrato dal suo stato d’animo, glielo chiedo bruscamente: “Hai paura di morire?”

All’improvviso ricevo la sua attenzione.

“No”, mi dice. “Ho paura di soffrire. Più si invecchia, maggiore è la probabilità di essere tenuto in vita senza uno scopo”.

Gli chiedo di approfondire, ma lui schiva la domanda. Vedendo che si stanca, spengo il registratore e mi preparo ad andarmene, quando Bettelheim mi si rivolge inaspettatamente. “C’è qualcosa che dovresti sapere”, disse. “Ho intenzione di fare un viaggio in Europa dal quale potrei o non potrei tornare”. La sua intenzione, disse, era di incontrare un medico in Olanda, un suo vecchio amico, che era disposto a fargli un’iniezione letale, e in Olanda un’iniezione è perfettamente legale.

Tempo a prestito

Complessivamente, nelle sei ore di colloqui avvenuti in tre diverse occasioni, almeno la metà del tempo Bettelheim parla di vita e di morte. A volte sembra che stia spiegando una decisione che ha già preso; altre volte è chiaro che sta ancora considerando i pro e i contro della scelta di morire. Ma torna, ancora e ancora, a certi fatti inalterabili — che chiama “devastazioni dell’età” — come la morte di sua moglie e la spaventosa eventualità di un’invalidità e di un’incapacità estreme.

“Se riesco a farcela fino a quando il mio amico non mi vedrà in Olanda”, mi dice quel primo pomeriggio, “sarò al sicuro”.

Riesce a cogliere lo sgomento sul mio volto e si affretta a confortarmi.

“La cosa che è più spaventosa — continua pazientemente — è che potrei avere un ictus un minuto dopo”. Ho già avuto due ictus. La maggior parte della circolazione del mio cervello è bloccata. In questo momento, sto vivendo con il tempo preso in prestito”.

Il tabù del suicidio

Quando la notizia del suicidio di Bettelheim diventa pubblica, c’è il tentativo di condensare rapidamente le ragioni della sua azione in una qualche motivazione. Amici e colleghi parlano della depressione di Bettelheim e del suo recente allontanamento dalla figlia maggiore. Si parla anche di una diminuzione delle sue capacità mentali. È la motivazione più facile da accettare per tutti quando il tabù del suicidio viene infranto: Bettelheim è apparentemente uscito un po’ fuori di testa.

Ma credo che nulla possa essere più lontano dalla verità. Quell’ottobre, è chiaro che sta facendo i conti con la molteplicità dei problemi causati dalla vecchiaia e si sta apertamente confrontando con la questione: Essere o non essere? Razionalmente, analiticamente, sta pensando alla questione. Definisce, mi sembra di ricordare, esattamente che cosa si intenda con la frase “sound mind”.

Nelle due settimane successive al nostro primo incontro, il dilemma di Bettelheim affiora costantemente nei miei pensieri. Devo combattere l’illogico e non professionale impulso di portargli una dozzina di palloncini coloratissimi nella puerile speranza di tirarlo su di morale. Quando ci sediamo per la seconda intervista, gli chiedo se ha ancora in programma un viaggio in Olanda, sperando che ci abbia ripensato.

Una storia esemplare

“Lasciami rispondere”, dice, “raccontandovi la storia di un mio carissimo amico. Questo amico ha 15 anni più di me ed è un ufficiale dell’esercito austriaco. Un uomo molto elegante, fidanzato con un’ereditiera. Poi arriva il crollo della monarchia austriaca. Questo affascinante ufficiale imperiale diviene un privato comune cittadino e l’ereditiera perde interesse per lui. Ha il cuore spezzato. Ma, essendo un ufficiale, sa cosa fare. Si veste in abiti civili, affitta una stanza nel miglior albergo di Vienna e si pianta una pallottola nel cuore.

“Lo sparo risuona nell’hotel e la cameriera si precipita nella stanza. Quando vede quello che è successo, esclama: ‘Oh, mio Dio! La tua bella camicia è tutta rovinata’. Poi perde conoscenza. Quando l’ufficiale si riprende, pensa: ‘Se il mio tentativo di uccidermi ha questo tipo di reazione, allora tanto vale che io viva’”

Bettelheim sorride. “E continua a vivere con una pallottola nel cuore per altri 25 o 30 anni. Trova la sua pace. Diviene direttore di una fonderia di ferro, poi un giorno muore di infarto.

La morte liberatrice

“Allora, eccoci al punto. Si potrebbe trovare la vita insopportabile in un certo momento e, in un atto di disperazione, cercare di porvi fine. Poi, in realtà, si scopre che si riesce a continuare a vivere e a godersi la vita per molti anni ancora. Finché si ha l’energia e la forza, si dovrebbe continuare a vivere”.

“Ma — aggiunge — il mio amico è un giovane. Io non lo sono più”. Prende un sorso d’acqua e dice: “Sidney Hook ha scritto sul problema degli uomini anziani che sono premurosi e sensibili, e sulla loro difficoltà a trovare ragioni per continuare a vivere”. Per molte persone la loro ragione di vita è vedere i loro nipoti crescere. Per me questo non è il caso. Ho visto crescere tanti bambini, non è un problema”. Bettelheim dice di guardare alla morte e al suicidio dal punto di vista di un “razionalista intellettuale”. Non è, dice, una persona religiosa, quindi questi problemi non influenzano il suo pensiero. “Per me la morte è la fine del cammino”, dice. “Questo è tutto”.

Accenna, quasi di sfuggita, al fatto che la lingua tedesca permette di distinguere tra due tipi di suicidio. “È interessante — dice — che in inglese non si ha un’altra parola che suicidio. In effetti in tedesco c’è un’altra parola, freitod , che significa una morte liberatrice e voluta. E ci sono alcune società tribali nelle quali, a un certo momento, si sale in montagna, ci si sdraia e si muore. Il loro è certamente un modo più civile”.

Freud

Se Bettelheim ha un eroe, questi è Sigmund Freud. Mi chiede se il fatto che Freud, durante l’ultimo stadio del cancro, abbia scelto di farsi somministrare un’iniezione letale, abbia influenzato il pensiero di Bettelheim.

“Beh”, dice Bettelheim, “è ovvio che Freud a un certo punto sente di non poter andare avanti con la sua vita e di non poter ancora scrivere ed essere di utilità e così via. Vuole morire con gli stivali ai piedi, con la mente liberata dalla malattia e dalla vecchiaia. Credo che sia stata una decisione razionale. E ben presa”.

“Cosa ti impedisce di scegliere la tua morte adesso?” Chiedo.

“Niente”.

“Ma eccoti qui, ancora vivo, ancora vibrante, ancora capace di illuminare gli altri, ancora pieno di idee”.

Ci fu una lunga pausa. “Sì”, dice. “A grande costo per me stesso”.

Da Vienna a Buchenwald e a Chicago

Bruno Bettelheim nasce a Vienna nel 1903 da ricchi genitori ebrei. Da adolescente rimane affascinato dalla nuova e radicale disciplina della psicoanalisi e dal suo fondatore Sigmund Freud; mentre consegue il dottorato in psicologia all’Università di Vienna, studia con il suo idolo. È la figlia di Freud, Anna, a incoraggiare Bettelheim a lavorare con i bambini autistici, suggerendogli, all’inizio degli anni Trenta, di seguire sua una ragazza autistica apparentemente incurabile.

Il suo lavoro si interrompe nel marzo del 1938, quando Hitler invade l’Austria. I nazisti confiscano gli scritti di Bettelheim. Lui e altri ebrei sono caricati su un treno e portati a Dachau. Mesi dopo è trasferito a Buchenwald. Solo l’intervento di Eleanor Roosevelt riesce a salvarlo; avendo sentito parlare del suo lavoro con i bambini disturbati, la signora Roosevelt lo da prelevare dai campi nell’aprile del 1939 e lo porta, con la moglie Gertrud, negli Stati Uniti.

Senza un soldo, già al suo arrivo, Bettelheim è invitato a riprendere il suo lavoro all’Università di Chicago. Accetta, e lui e Gertrud si trasferiscono nella città dove cresceranno le loro due figlie e il figlio.

Il lavoro con i bambini a Chicago

Nel 1944 viene nominato direttore della Sonia Shankman Orthogenic School per bambini emotivamente disturbati. Bettelheim ha ormai elaborato una teoria della guarigione basata sulle sue esperienze cliniche. Il suo ragionamento è questo: se il trattamento disumanizzante a cui i prigionieri sono sottoposti porta alla disintegrazione della loro personalità, non potrebbero essere vero anche il contrario?

Con questo principio ricostruttivo della personalità in mente Bettelheim riprogetta anche l’assetto dell’istituto tradizionale di cure mentali. Fa togliere le serrature all’esterno delle porte per reinstallarle all’interno. Il che significa che i visitatori e lo stesso personale di cura non può entrare senza il permesso del paziente, ma questi può uscire a piacimento.

I piatti di plastica e le posate prive di coltello sono sostituite da materiale in porcellane e set completi d’argento. Le sbarre sono rimosse dalle finestre. Sono commissionate delle opere artistiche da collocare sulle pareti e nell’edificio.

Una terapia efficace

La strategia ha successo. Secondo Bettelheim e i suoi consulenti, nei 30 anni di permanenza alla Scuola Ortologica di Bettelheim, oltre l’85% dei pazienti “senza speranza” curati nell’istituto torna a partecipare attivamente alla vita nel mondo esterno.

Nel 1973, all’età di 70 anni, Bettelheim si ritira dalla Scuola Ortologica e si trasferisce con Gertrud a Palo Alto. Continua a tenere conferenze e a scrivere. Con Il mondo incantato e un altro bestseller, Il genitore perfetto, si guadagna un seguito molto ampio e scrive una rubrica sulla genitorialità nel popolare sul magazine “Ladies Home Journal”.

“Era un animale molto raro, un intellettuale pubblico”, dice lo psicoanalista di Los Angeles David James Fisher. “I suoi scritti possono essere letti sia dal pubblico colto che dagli specialisti”.

Un approccio anche controverso

Spesso, tuttavia, il pensiero Bettelheim suscita tanti consensi quante controversie. I suoi saggi su argomenti che spaziano dal sistema educativo americano (controproducente, ha sua detta) al movimento contro la guerra degli anni Sessanta (un tentativo “distruttivo” dei giovani di esprimere i propri sentimenti di inutilità) sono stati sono presi con le pinze in tutti gli ambienti.

I suoi principali critici sono spesso nella stessa comunità psicoanalitica. La sua tesi secondo cui l’autismo è principalmente prodotto dall’ambiente, da allora è stata smentita. Già nel 1983, Bettelheim scatena una tempesta di critiche quando pubblica Freud and Man’s Soul, in cui affermava che gli aspetti centrali del pensiero di Freud presenti nelle traduzioni in inglese sono sbagliati, il che implica che i principi su cui si fonda la comunità psicoanalitica americana sono profondamente lacunosi. E anche dopo la sua morte, sorgono polemiche sul suo uso delle punizioni corporali per far accettare la disciplina ai pazienti della Scuola Ortogenetica.

“Il pubblico sembra dividersi in pari misura tra sostenitori e detrattori”, dice Theran Raines, da tempo agente letterario di Bettelheim.

I dissidi con la figlia

Nei suoi 80 anni di attività, Bettelheim ha riempito le aule di tutto il paese. La scomparsa della moglie, compagna di vita di oltre 43 anni nel 1984 rallenta notevolmente il suo lavoro. Bettelheim va a vivere con Ruth, la figlia maggiore, in una casa acquistata insieme. La convivenza finisce in modo acrimonioso, e Bettelheim si trasferisce nel condominio di Santa Monica con vista sul mare.

“Dopo la morte di mia madre”, dice Naomi, la figlia minore, “mio padre non riesce a trovare un modo per vivere in pace”. Credo che desiderasse vedere Ruth al posto di mia madre, ma è impossibile”.

Nel 1987, Bettelheim ha un ictus, che gli paralizza parzialmente il lato destro del corpo. Per diversi mesi, il suo lavoro si ferma.

“L’ictus compromette le sue capacità motorie”, dice Jacquelyn Sanders, attuale direttrice della Scuola di Ortogenesi. “Ricordo che quando siamo andati a pranzo, ha impiegato un sacco a tirar fuori i soldi per pagare il conto”. È una situazione molto difficile per un uomo come lui”.

La vecchiaia

Durante la nostra seconda intervista Bettelheim inizia a parlare concretamente della vecchiaia.

“Parte del problema”, dice, “è che la nostra società non sa cosa fare con gli anziani. Vorremmo metterli in prigione. Ci sono società, invece, nelle quali gli anziani sono venerati, come avviene in Cina. Nei kibbutz israeliani si fa in modo che gli anziani restino attivi in rapporto alle loro capacità. Non si relegano in qualche casa di riposo o in qualche struttura sanitaria, come si fa qui. È molto difficile continuare a vivere se non ci si sente più utili o considerati.

“Ma — ribatto — molte persone ti cercano ancora per qualche consiglio”.

“La gente mi cerca”, ammette. “Ci sono persone per le quali sono importante e per le quali sento di poter dare un contributo. Questo è certamente quello che mi attrae più nella vita”.

Sembra che voglia lasciare che la vita prenda il suo corso naturale.

“Sono combattuto”, risponde rapidamente. “Sono combattuto”.

“Cosa ti spinge nella direzione della vita?” gli chiedo.

Gli affanni della vecchiaia

“Il fatto che io possa ancora essere utile a qualcuno — la speranza che alcune cose possano ancora essere piacevoli. Ci sono delle persone anziane ancora piene di questa gioia di vivere. Io non lo sono. Questa è la mia sfortuna, se così si vuole chiamare. La mia vita privata mi ha dato delle delusioni. C’è stata la morte di mia moglie, a cui ero profondamente legato e che mi manca molto. quando mia moglie era ancora in vita, io ero ben contento della mia vita e la vivevo molto bene.

Ma dalla sua morte trovo sempre più difficile viverla. Invidio le persone che credono che nell’aldilà ci si ricongiunga con i propri cari. È un pensiero molto rassicurante, ma non posso crederci”.

Mi chiedo se l’allontanamento da sua figlia Ruth, che dura da un anno, sia un’altra di quelle delusioni. Mentre glielo chiede, inizia ad elencare i suoi guai fisici. “Mi rimane solo un po’ di energia. Accetto, di dover rallentare molto, di poter fare relativamente poco, e che le cose normali ora sono problematiche”.

Per esempio, dice, “a causa dell’ictus, non posso più scrivere. Ho sempre capito meglio un problema dopo aver iniziato a scriverne. Non posso più farlo. Questa è una delle cose che devo accettare della vecchiaia”.

Bettelheim sospira profondamente. “Credo di aver fatto pace con questo aspetto della vecchiaia — non che sia una pace felice, ma pace è”.

La vecchiaia attiva

Per tutti i suoi problemi fisici sopraggiunti dopo l’ictus del 1987, Bettelheim mantiene uno stile di vita moderatamente attivo. Nel settembre del 1989, parla davanti a una folla di estimatori alla Libreria Phoenix di Santa Monica. Trova l’energia per collaborare a un libro: In the Shoes of a Stranger. E ogni giovedì sera, negli ultimi 2 anni e mezzo, supervisiona sei terapisti in un gruppo di studio.

“Nonostante le condizioni del corpo, il suo sguardo è sempre vibrante”, dice l’organizzatrice del gruppo, la terapista Barbara Waldman. “Non importa come si sente, quando lavora, lavora. Il lavoro gli viene d’istinto”.

Ma nel 1989 è evidente a molti che l’energia di Bettelheim sta diminuendo. A maggio è nominato membro onorario della Los Angeles Psychoanalytic Society. Alla cerimonia d’accettazione della nomina, con un lungo e divertente discorso racconta storie di amici che vanno da Wilhelm Reich a Woody Allen (Bettelheim interpreta se stesso nel film Zelig di Allen). È una performance di bravura che ipnotiizza la maggior parte dei presenti. Nonostante la sua età, Bettelheim è in ottima forma. Ma dopo, mentre lo aiutano a raggiungere l’auto, sembra esausto, sfibrato. Non riconosce un collega del suo gruppo di studio che viene a congratularsi con lui. È chiaro che Bettelheim è ancora all’altezza della situazione, ma a un prezzo molto caro.

“A un certo punto mi sono reso conto che il suo interesse per il gruppo inizia a diminuire”, dice Waldman. “Guardando indietro, credo che si sia sempre più concentrato sul modo di finire la sua vita”.

I conti con l’Olocausto

Quando incontro Bettelheim per l’ultima volta, il suo umore mi pare notevolmente migliorato. Anche nelle parti più cupe delle nostre conversazioni gli piace scherzare. Gli piacciono particolarmente le barzellette sulla California. “Sembra che nella classe media della California, tutti siano o un paziente o un terapeuta”, dice, con una risata roboante e uno sguardo divertito.

Quel giorno sembra in vena di umorismo. Ride quando lo osservo. “Forse è il nuovo farmaco che sto prendendo”, dice. Ma non parliamo della depressione. È deprimente!”. Si mette a ridere di nuovo a crepapelle.

Parliamo invece dei suoi scritti e delle sue idee. La conversazione si sposta sull’Olocausto e, come in molte delle altre nostre conversazioni, torna alle questioni del vivere e del morire.

“Come hai superato il dolore di una tale esperienza? Chiedo.

“Non credo che si possa dominare appieno l’esperienza di essere stati prigionieri in un campo di concentramento tedesco”, dice. “È molto problematico. Penso che questa sia la ragione per cui alcuni che hanno cercato di capire la propria esperienza nel campo di concentramento si siano suicidati. I primi che mi vengono in mente sono Primo Levi e Paul Celan, il poeta tedesco”.

“La ferita si trasmette anche nella seconda generazione. Mio figlio solo qualche anno fa mi ha detto che sentiva sempre un alto livello di ansia in casa per via dell’esperienza dei suoi genitori sotto il nazismo. Credo che ci siano esperienze così nefaste, così traumatiche, dalle quali non ci si riprende mai del tutto”.

I limiti della psicoanalisi

“Allora, come si fa a convivere con queste esperienze?

“Il meglio che uno può”, dice Bettelheim. “Ora, non voglio dire che la psicoanalisi non aiuti. Dopotutto, se non ci credessi, non sarei uno psicoanalista. Ma la psicoanalisi non risolve tutti i problemi della vita. Ciò che è più insopportabile per una persona può essere meno insopportabile per un’altra. Ma in generale credo che l’esperienza del campo di concentramento, soprattutto per le persone sensibili, sia un’esperienza molto difficile da mettere sotto controllo”. “A che punto siete ora nella conoscenza di questa esperienza?

C’è una lunga pausa.

“Non lo so”, risponde. “In certi periodi della vita è più facile da affrontare che in altri. Ora devo fare i conti non solo a questa esperienza passata, ma anche con le devastazioni della vecchiaia. E comunque, penso che per tutta la vita non sono stato un grande ottimista. E considerando lo stato delle cose umane è molto difficile essere ottimisti — a meno che non si sia nati in California”, aggiunge con un altro sguardo obliquo.

“Sto ancora riflettendo su ciò che rende questa esperienza così difficile da vivere — anche nel mio caso. Perché ci sono anche altre esperienze devastanti, e riusciamo a conviverci abbastanza bene, o relativamente bene. Per quanto posso capire, è un’esperienza che fa perdere la fiducia nell’umanità. Quando penso a quegli individui che si sono suicidati nei campi — e ce ne sono parecchi — direi che non solo hanno perso la loro fede nel senso della vita, ma si sono anche distaccati dalle persone amate. Non so perché si siano distaccati. Ma finché c’è amore, cerchiamo di restare vivi per poterci ricongiungere con la persona che amiamo. È così semplice”.

Trovare un significato alla vita

Bettelheim parla ripetutamente della necessità di credere che ci sia un senso nella propria vita, ma anche sostiene che questa convinzione è una finzione. Sperando di fargli chiarire questa contraddizione, leggo l’introduzione a Il mondo incantato: “ Se speriamo di vivere non semplicemente di momento in momento ma realmente coscienti della nostra esistenza, la necessità più forte e l’impresa più difficile per noi consistono nel trovare un significato alla nostra vita. È risaputo come molti abbiano perso la volontà di vivere, e abbiamo smesso di provarci, perché questo significato è sfuggito loro… Oggi, come in passato, il compito più importante e anche il più difficile che si pone a chi alleva un bambino è quello di aiutarlo a trovare un significato alla vita.

“È un paradosso”, risponde. Per vivere bisogna credere che ci sia un senso nella vita”. D’altra parte, la scienza ci dice che siamo il prodotto casuale dell’evoluzione e che non c’è uno scopo nella vita. Con questa idea non si riesce a vivere bene.

Eros e Thanatos

“Mettiamola in un altro modo. Credo che Freud abbia ragione nel dire che c’è una spinta alla vita (Eros) che alla morte (Thanatos). Finché la pulsione vitale, o la libido, è in crescita — sicuramente finché siamo sessualmente attivi e vogliamo procreare — vivremo. Ma si può anche arrivare a un punto in età avanzata in cui si deve accettare di ritirare la pulsione vitale perché altrimenti non si potrebbe affrontare la morte. Quindi per me è un caso di equilibrio tra Thanatos e libido, o Eros. Finché l’eros vince la battaglia, siamo contenti di vivere”.

Le parole che usa — Eros, libido e Thanatos — sono termini astratti, psicoanalitici, ma sono venuto a vedere che Bettelheim ha vissuto l’Eros e il Thanatos non come un gergo metaforico, ma piuttosto come vere e proprie forze interiori.

“L’amore è una chiave importante per la questione di vivere o morire”, gli chiedo.

“Sì”, rispose. “Sì, la più importante”. L’abbiamo chiamata libido. Chiamatela amore. Chiamatelo sesso. La libido è, dopo tutto, in larga misura sesso. Ma in vecchiaia non si fa più sesso”.

“Ho sentito dire che c’è chi lo fa”.

“Alla mia età? Vi racconterò una storia a riguardo. C’è un uomo che va dal medico e dice: “Non posso più avere rapporti sessuali”. E il suo dottore dice: “Beh, sai, sei sulla settantina. Cosa ti aspetti? E l’uomo dice: “Sì, ma il mio amico Sammy, che ha un anno in più, dice di farlo ogni settimana”. E il dottore dice: “Puoi dirlo anche tu”. “Bettelheim si lascia andare a una risata rauca.

“C’è chi riesce a innamorarsi a tutte le età”, aggiunge, più seriamente. “Credo che siano proprio loro quelli felici”. Io stesso assisto al ritiro della mia libido da quelle cose nelle quali era presente in passato”.

“Allora l’appassimento della libido, l’appassimento della vita, è una conseguenza della perdita dell’amore?, domando.

“Amare ed essere amati”, dice Bettelheim. “le due cose vanno insieme”. L’emozione gli inonda improvvisamente il viso. “Forse”, dice, distogliendo lo sguardo, “potremmo parlare di qualche altro argomento”.

I suicidi degli anziani

Se la morte di Bettelheim è stata per coloro che lo conoscevano di persona o che conoscevano il suo lavoro una sorpresa, per la statistica è stato una semplice aggiunta al crescente numero di suicidi di anziani. I tassi di suicidio per gli over 65 sono aumentati del 25% dal 1980; questo gruppo demografico rappresenta solo l’11% della popolazione, ma ben il 25% delle persone che si tolgono la vita.

La domanda, ovviamente, è: perché?

“Una parte della ragione è economica”, risponde Nancy Osgood, professore associato di gerontologia al Medical College della Virginia e autrice di Suicide in the Elderly. “Un altro fattore da considerare è l’isolamento sociale degli anziani in questa società. L’attuale stato della medicina e delle cure mediche sono una spada a doppio taglio. Troppo spesso prolungano la vita, a scapito della qualità”.

“Ci sono perdite e menomazioni che portano gli anziani al suicidio”, concorda John McIntosh, professore associato di psicologia all’Università dell’Indiana e autore di diversi studi sul suicidio degli anziani. “La preoccupazione di perdere funzioni fisiche o mentali, la morte di un coniuge o la perdita della capacità di lavorare, sono fattori che possono portare alla decisione di togliersi la vita”.

Paul Torrance, noto per le sue ricerche sulla creatività, ritiene che la decisione del collega risponda a questi parametri. “Bettelheim è una persona creativa con molte idee”, dice Torrance, autore del Torrance Test for Creative Thinking. “Quando una persona creativa non è più in grado di produrre, si sente come se fosse spiritualmente morta”. Il corpo è lì, ma lo spirito se n’è andato”.

“Non si è tolto la vita dopo l’esperienza campi di concentramento”, dice Alvin Rosenfeld, psichiatra e primario di psichiatria infantile all’Università di Stanford. “Non si è suicidato quando è venuto in questo Paese senza un soldo. Non si è suicidato dopo la morte della moglie e nemmeno dopo due ictus”. Quindi la domanda da porsi è: qual è il modo giusto per un uomo di porre fine alla sua esistenza? Ritieni che sia Dio o il destino a dovere scegliere il giorno del giudizio, o vuoi scegliere tu stesso quel giorno?”.

Le motivazioni del suicidio

I tre figli di Bettelheim — Ruth, psicoterapeuta, Naomi, pianificatore regionale, ed Eric, avvocato internazionale — sono usciti distrutti dal suo suicidio. Ma tutti loro se lo aspettavano. “Ho cercato di dissuaderlo”, dice Naomi. Ma non ero nei panni di mio padre. Quindi non spetta a me giudicare o criticare in alcun modo ciò che ha fatto”.

Sospira. “Ci sono molti, molti fattori che hanno spinto mio padre a scegliere questa strada, a partire dalla sua formazione a Vienna. In Austria, quando era giovane, c’era una certa preoccupazione per il suicidio (è ben documentato che per decenni il suicidio è stato una specie d’epidemia in Austria).

Un altro fattore è stato che da giovane mio padre ha visto il suo stesso padre ridursi nell’incapacità. Poi ha visto accadere la stessa cosa con molti degli amici più cari. Poi, alla fine, c’è stata la scomparsa di mia madre. Aveva sempre sperato di morire prima. Non posso dire che non si sarebbe ucciso se mia madre fosse stata viva. Ma ne sono quasi certa”.

Morire con dignità

Verso la fine del nostro ultimo incontro, leggo a Bettelheim la biografia di Freud di Peter Gay, e gli cito il brano nel quale il medico di Freud descrive come Freud “affronta la morte con dignità e senza autocommiserazione. Quale preparazione occorre”, chiedo, “per affrontare la morte consapevolmente, con dignità e senza autocommiserazione?

Bettelheim si mette a ridere.

“Penso che bisogna essere soddisfatti della propria vita”, dice. “Sentire di aver fatto più o meno quello che si aveva intenzione di fare”. E penso anche che si debba avere la convinzione che la vita non mancherà molto. È una decisione personale. Non c’è alcuna certezza. Non c’è mai certezza su nulla nella vita. Se dovessi morire oggi o domani, non credo che la vita mi mancherebbe molto”.

“Senti di aver realizzato quello che ti eri prefissato di realizzare?”.

“Sì, credo di averlo fatto”, risponde. “Quando ero giovane, ero politicamente attivo”. Ma nel corso degli anni sono passato dalla convinzione di dover cambiare la società per creare un mondo migliore alla sensazione che occorre creare persone migliori per costruire un mondo migliore. Questo è ciò che ho cercato di fare”.

“Cosa lasci di incompiuto?

Quello che avrei voluto fare e non ho fatto

Sorride. “Molte cose. Il mio editore tedesco vuole che scriva un altro libro sui miei colloqui con le madri. Ma per questo dovrà aspettare un’altra vita. Probabilmente ci sono molti libri che avrei voluto leggere. Perché non li leggo adesso? Ovviamente non così importante per me. Sarebbe bello studiare il greco classico; poi sarei in grado di leggere alcuni degli scrittori greci in originale. Beh, ovviamente, non è così importante per me.

“C’è così tanto da sapere. E così poco tempo, davvero. E soprattutto rimane così poco tempo per me. Il mio obiettivo è stato quello di dire quello che volevo dire nel miglior modo possibile. E renderlo relativamente facile da capire. Ho cercato di scrivere in modo chiaro. Non so se ci sono riuscito, ma ci ho provato”.

“Ma c’è qualcos’altro che non rimpiangi di avere fatto?” Mi spingo con la domanda.

La morte dolce

“Una morte dolce”, dice soavemente. “Questo è ciò che rimane ancora incompiuto.”

Bettelheim non lo fa in Olanda. “Non voleva andare da solo”, spiega Naomi. nessuno dei suoi figli se la sente di assecondare il suo piamo. Così, invece di andare in Europa, poco prima del Natale 1989, Bettelheim si trasferisce in una casa di riposo a Silver Spring, Maryland, per stare più vicino a Naomi.

La sera del 13 marzo 1990 ricevo una telefonata da Barbara Waldman, uno dei colleghi del gruppo di studio. Ha sentito alla radio che Bettelheim è morto. Non si menziona parola suicidio. Mi siedo, per l’emozione. Le sensazioni sono contrastanti. Da un lato c’è la consapevolezza di aver perduto un pensatore unico. Dall’altra quella che Bettelheim abbia ottenuto la “morte dolce” che desiderava.

Poi leggo i giornali del mattino… Un sacchetto di plastica. Tenendo il giornale, scoppio in lacrime nel vialetto.

“Si è suicidato quando è cambiata la stagione”, dice Naomi. “È inverno, ma improvvisamente viene un po’ di caldo”. Le persone della casa di riposo mi hanno detto che l’inizio della primavera, quando il tempo cambia, è il momento in cui gli anziani si tolgono la vita. Non sanno perché”.

Qualche giorno dopo, rileggendo alcuni dei suoi lavori, un brano di Freud’s Vienna & Other Essays cattura la mia attenzione. “È preziosa agli occhi del Signore la morte dei giusti “ (Salmo 115), scrive Bettelheim. “Se ci si può chiedere perché la morte dei giusti, piuttosto che la loro vita, sia preziosa per il Signore, la risposta è questa: Mentre il Signore si compiace dei giusti fintanto che essi vivono una vita giusta, solo alla loro morte ci può essere la certezza che essi non si siano mai allontanati dal sentiero della giustizia”.

Bettelheim si riferisce al martire polacco Janusz Korczak, ma in qualche modo le parole sembrano avere un’eco inquietantemente autobiografica. “Chiunque siano stati i giusti nella nostra vita”, continua, “è stata la loro morte liberamente scelta che ha reso alla fine evidente l’assoluta rettitudine della loro vita”.

Bruno Bettelheim (Vienna, 1903 — Silver Spring, 1990) si laureò in psicologia a Vienna. Di origine ebraiche, nel 1938 fu deportato nei campi di concentramento inazisti, ma fu rilasciato l’anno seguente per intervento di Eleanor Roosevelt. Lui e la moglie si trasferirono negli Stati Uniti. Insegnò all’Università di Chicago e si interessò soprattutto di autismo, di tecniche nel trattamento dei bambini con disturbi emotivi e degli aspetti psicologici del pregiudizio razziale.
Tra i suoi libri si ricordano: La fortezza vuota. L’autismo infantile e la nascita del sé (Garzanti 1999); Dialogo con le madri (Pgreco 2010); Ferite simboliche (SE 2011); Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli 2013); Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli 2013); Sopravvivere e altri saggi (SE 2014).

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2 commenti:

  1. Che interessante lettura! Un contributo importante per la figura che riesce a essere così ben delineata e per l’argomento. Grazie, Francesco.
    Giacinta:-)

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    1. ciao Giacinta! ogni tanto si trovano cose interessanti e le diffondo, mica sono un avaro:)

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