A 20 anni dal suicidio del grande psicologo, ricordiamo la sua grande lezione di persona e di studioso
Siamo lieti di offrire ai lettori italiani l’ultima
intervista di Bruno Bettelheim rilasciata a Celest Fremon e pubblicata
sul Los Angeles Times il 27 gennaio 1991. In questa lunga intervista Bettelheim, che si
sarebbe tolto la vita pochi mesi dopo, parla dei temi cari alla sua riflessione
e al suo lavoro di psicologo w e terapeuta: il trauma dell’Olocausto,
l’attività con i bambini autistici, la vecchiaia, la morte, l’amore, i
rimpianti. Una bella testimonianza di un intellettuale che ha contribuito tanto
a formare la coscienza del nostro tempo.
Buona lettura!
“Il problema è
trovare una ragione per vivere”
A dirlo è Bruno Bettelheim, il leggendario
psicoanalista e psicologo infantile. È seduto sulla sua poltrona preferita, una
poltrona minimalista in stile ikea degli anni Sessanta, nel salotto del suo
appartamento al quinto piano di uno stabile a Santa Monica. L’Oceano Pacifico
manda riflessi blu e bianchi sul pavimento e sul soffitto. Ha 86 anni e,
sebbene la sua mente sia più brillante di quella di un trentenne, il suo corpo
sta venendo meno. Mentre mi accompagna alla sedia, la sua andatura è faticosa,
le spalle ricurve. Mentre parla, i movimenti della mano destra — la mano che
scrive — sono scattosi e scoordinati.
Anche se il calendario segna fine ottobre, è una di
quelle tipiche giornate della California del Sud, dall’aria estiva.
Un’atmosfera che contrasta fortemente con la conversazione in corso: Bruno
Bettelheim sta parlando della sua intenzione di togliersi la vita.
Per un attimo il suo sguardo vaga nella stanza,
ricolma dei ricordi di una vita: manufatti greci e precolombiani provenienti da
suoi viaggi all’estero, scaffali pieni di libri d’arte e di album di opere
liriche, incisioni di Rembrandt e, sopra il divano, il dipinto di una donna che
cammina sul fianco di un edificio. Il titolo del quadro è “Il sognatore”.
Il tempo
migliore e quello peggiore
“Non riesco più a fare le cose che mi piace fare”,
dice. “Mi piace camminare”. Mi piace fare escursioni. Quando leggo, mi stanco.
Dickens ha scritto (ne Le due città): ‘Era il tempo migliore e il
tempo peggiore’. Tutto dipende da come lo si guarda. Con i miei anni non si può
più guardarlo e dire: “ È il tempo migliore. Almeno, io lo trovo impossibile da
sopportare”.
Si sofferma un attimo. “Tuttavia, se fossi sicuro di
non soffrire o di non diventare un vegetale, allora, come la maggior parte di
tutti noi, credo che la mia scelta sarebbe vivere”. E poi sorride. “Ma,
naturalmente”, dice, “non ho questa certezza. Per questo la decisione è così
problematica”.
Ci siamo incontrati nell’ottobre del 1989. Il 13 marzo
1990, Bruno Bettelheim è stato trovato morto sul pavimento della stanza in una
casa di riposo del Maryland, con un sacchetto di plastica sulla testa e tracce
di barbiturici nel sangue.
Un faro della
psicologia contemporanea
La notizia della sua morte ha scosso la comunità degli
psicologi. Da 50 anni Bruno Bettelheim è considerato come uno dei più
importanti pensatori e operatori nel campo della psicologia e dello sviluppo
infantile. La sua genialità consiste nella straordinaria capacità di trovare
una via d’uscita e una speranza in situazioni nelle quali c’è solo disperazione
e rassegnazione.
Le sue orribili esperienze come internato nei campi
Dachau e Buchenwald sono state l’occasione per riflettere sulla natura della
sofferenza umana. Una esperienza che lo aiuta a curare le ferite psichiche
degli altri.
Come di direttore della Scuola di Ortogenetica di
Chicago, cura con successo bambini così involuti emotivamente da essere
ritenuti incurabili. Scrive decine di saggi e libri influenti, vince il
National Book Award del 1976 con Il mondo incantato (trad.
it., Feltrinelli). Un libro seminale che indaga il modo in cui le favole
aiutano i bambini a superare i loro problemi e le loro paure più nascoste.
Il suicidio è un
fallimento per il terapeuta
“Bettelheim costruisce la teoria della “Persona in
camice bianco” (The Man in the White Coat Theory), dice Roger Pittman,
un terapista di Los Angeles che ha lavorato con Bettelheim in un gruppo di
studio fino al gennaio 1989. “Bruno dice che oltre all’onestà e alla
professionalità ci deve essere un’altra qualità nella persona dal camice
bianco. Ci deve essere la magia della guarigione. Beh, certamente L’uomo col
camice bianco non si uccide. Nella professione terapeutica, quando un paziente
si uccide, è il fallimento totale. Se Bettelheim si uccide è la nostra stessa
professione a dichiarare fallimento”.
“È devastante quando qualcuno che ha un ruolo
terapeutico compie un’azione che appare così disperata”, dice un ricercatore
che ha lavorato con Bettelheim. “Ma è 100 volte peggio quando accade a qualcuno
che ha salvato così tante persone dalla disperazione”.
Perché proprio la persona che inventa la teoria della
persona con il camice bianco, cioè Bruno Bettelheim, programma la sua morte?
Penso di avere scoperto, almeno in parte, la risposta
a questa domanda. All’inizio dell’autunno del 1989, Bettelheim accetta di
essere intervistato su aspetti della sua vita che non sono mai entrati nelle
sue pubblicazioni: il matrimonio, l’analisi, l’amicizia con Wilhelm Reich e
altre personalità del suo tempo.
Un viaggio
trascorso
Sin dalla prima intervista, sebbene Bettelheim si
concentri su argomenti che vanno da Reich (“Poche persone erano testarde come
lui”) alla sua favola preferita (Hansel e Gretel, “perché il ragazzo e
la ragazza hanno bisogno l’uno dell’altra”), appare piuttosto turbato. È come
se chiedergli di parlare della sua vita e delle sue idee equivalga a chiedergli
di sfogliare un album di ritagli di un viaggio ormai trascorso. Finalmente
frustrato dal suo stato d’animo, glielo chiedo bruscamente: “Hai paura di
morire?”
All’improvviso ricevo la sua attenzione.
“No”, mi dice. “Ho paura di soffrire. Più si
invecchia, maggiore è la probabilità di essere tenuto in vita senza uno scopo”.
Gli chiedo di approfondire, ma lui schiva la domanda.
Vedendo che si stanca, spengo il registratore e mi preparo ad andarmene, quando
Bettelheim mi si rivolge inaspettatamente. “C’è qualcosa che dovresti sapere”,
disse. “Ho intenzione di fare un viaggio in Europa dal quale potrei o non
potrei tornare”. La sua intenzione, disse, era di incontrare un medico in
Olanda, un suo vecchio amico, che era disposto a fargli un’iniezione letale, e
in Olanda un’iniezione è perfettamente legale.
Tempo a prestito
Complessivamente, nelle sei ore di colloqui avvenuti
in tre diverse occasioni, almeno la metà del tempo Bettelheim parla di vita e
di morte. A volte sembra che stia spiegando una decisione che ha già preso;
altre volte è chiaro che sta ancora considerando i pro e i contro della scelta
di morire. Ma torna, ancora e ancora, a certi fatti inalterabili — che chiama
“devastazioni dell’età” — come la morte di sua moglie e la spaventosa
eventualità di un’invalidità e di un’incapacità estreme.
“Se riesco a farcela fino a quando il mio amico non mi
vedrà in Olanda”, mi dice quel primo pomeriggio, “sarò al sicuro”.
Riesce a cogliere lo sgomento sul mio volto e si
affretta a confortarmi.
“La cosa che è più spaventosa — continua pazientemente
— è che potrei avere un ictus un minuto dopo”. Ho già avuto due ictus. La
maggior parte della circolazione del mio cervello è bloccata. In questo
momento, sto vivendo con il tempo preso in prestito”.
Il tabù del
suicidio
Quando la notizia del suicidio di Bettelheim diventa
pubblica, c’è il tentativo di condensare rapidamente le ragioni della sua
azione in una qualche motivazione. Amici e colleghi parlano della depressione
di Bettelheim e del suo recente allontanamento dalla figlia maggiore. Si parla
anche di una diminuzione delle sue capacità mentali. È la motivazione più
facile da accettare per tutti quando il tabù del suicidio viene infranto:
Bettelheim è apparentemente uscito un po’ fuori di testa.
Ma credo che nulla possa essere più lontano dalla
verità. Quell’ottobre, è chiaro che sta facendo i conti con la molteplicità dei
problemi causati dalla vecchiaia e si sta apertamente confrontando con la
questione: Essere o non essere? Razionalmente, analiticamente, sta pensando
alla questione. Definisce, mi sembra di ricordare, esattamente che cosa si
intenda con la frase “sound mind”.
Nelle due settimane successive al nostro primo
incontro, il dilemma di Bettelheim affiora costantemente nei miei pensieri.
Devo combattere l’illogico e non professionale impulso di portargli una dozzina
di palloncini coloratissimi nella puerile speranza di tirarlo su di morale.
Quando ci sediamo per la seconda intervista, gli chiedo se ha ancora in
programma un viaggio in Olanda, sperando che ci abbia ripensato.
Una storia
esemplare
“Lasciami rispondere”, dice, “raccontandovi la storia
di un mio carissimo amico. Questo amico ha 15 anni più di me ed è un ufficiale
dell’esercito austriaco. Un uomo molto elegante, fidanzato con un’ereditiera.
Poi arriva il crollo della monarchia austriaca. Questo affascinante ufficiale
imperiale diviene un privato comune cittadino e l’ereditiera perde interesse
per lui. Ha il cuore spezzato. Ma, essendo un ufficiale, sa cosa fare. Si veste
in abiti civili, affitta una stanza nel miglior albergo di Vienna e si pianta
una pallottola nel cuore.
“Lo sparo risuona nell’hotel e la cameriera si
precipita nella stanza. Quando vede quello che è successo, esclama: ‘Oh, mio
Dio! La tua bella camicia è tutta rovinata’. Poi perde conoscenza. Quando
l’ufficiale si riprende, pensa: ‘Se il mio tentativo di uccidermi ha questo
tipo di reazione, allora tanto vale che io viva’”
Bettelheim sorride. “E continua a vivere con una
pallottola nel cuore per altri 25 o 30 anni. Trova la sua pace. Diviene
direttore di una fonderia di ferro, poi un giorno muore di infarto.
La morte
liberatrice
“Allora, eccoci al punto. Si potrebbe trovare la vita
insopportabile in un certo momento e, in un atto di disperazione, cercare di
porvi fine. Poi, in realtà, si scopre che si riesce a continuare a vivere e a
godersi la vita per molti anni ancora. Finché si ha l’energia e la forza, si
dovrebbe continuare a vivere”.
“Ma — aggiunge — il mio amico è un giovane. Io non lo
sono più”. Prende un sorso d’acqua e dice: “Sidney Hook ha scritto sul problema
degli uomini anziani che sono premurosi e sensibili, e sulla loro difficoltà a
trovare ragioni per continuare a vivere”. Per molte persone la loro ragione di
vita è vedere i loro nipoti crescere. Per me questo non è il caso. Ho visto
crescere tanti bambini, non è un problema”. Bettelheim dice di guardare alla
morte e al suicidio dal punto di vista di un “razionalista intellettuale”. Non
è, dice, una persona religiosa, quindi questi problemi non influenzano il suo
pensiero. “Per me la morte è la fine del cammino”, dice. “Questo è tutto”.
Accenna, quasi di sfuggita, al fatto che la lingua
tedesca permette di distinguere tra due tipi di suicidio. “È interessante —
dice — che in inglese non si ha un’altra parola che suicidio. In effetti in
tedesco c’è un’altra parola, freitod , che significa una morte
liberatrice e voluta. E ci sono alcune società tribali nelle quali, a un certo
momento, si sale in montagna, ci si sdraia e si muore. Il loro è certamente un
modo più civile”.
Freud
Se Bettelheim ha un eroe, questi è Sigmund Freud. Mi
chiede se il fatto che Freud, durante l’ultimo stadio del cancro, abbia scelto
di farsi somministrare un’iniezione letale, abbia influenzato il pensiero di
Bettelheim.
“Beh”, dice Bettelheim, “è ovvio che Freud a un certo
punto sente di non poter andare avanti con la sua vita e di non poter ancora
scrivere ed essere di utilità e così via. Vuole morire con gli stivali ai
piedi, con la mente liberata dalla malattia e dalla vecchiaia. Credo che sia
stata una decisione razionale. E ben presa”.
“Cosa ti impedisce di scegliere la tua morte adesso?”
Chiedo.
“Niente”.
“Ma eccoti qui, ancora vivo, ancora vibrante, ancora
capace di illuminare gli altri, ancora pieno di idee”.
Ci fu una lunga pausa. “Sì”, dice. “A grande costo per
me stesso”.
Da Vienna a Buchenwald
e a Chicago
Bruno Bettelheim nasce a Vienna nel 1903 da ricchi
genitori ebrei. Da adolescente rimane affascinato dalla nuova e radicale
disciplina della psicoanalisi e dal suo fondatore Sigmund Freud; mentre
consegue il dottorato in psicologia all’Università di Vienna, studia con il suo
idolo. È la figlia di Freud, Anna, a incoraggiare Bettelheim a lavorare con i
bambini autistici, suggerendogli, all’inizio degli anni Trenta, di seguire sua
una ragazza autistica apparentemente incurabile.
Il suo lavoro si interrompe nel marzo del 1938, quando
Hitler invade l’Austria. I nazisti confiscano gli scritti di Bettelheim. Lui e
altri ebrei sono caricati su un treno e portati a Dachau. Mesi dopo è
trasferito a Buchenwald. Solo l’intervento di Eleanor Roosevelt riesce a
salvarlo; avendo sentito parlare del suo lavoro con i bambini disturbati, la
signora Roosevelt lo da prelevare dai campi nell’aprile del 1939 e lo porta,
con la moglie Gertrud, negli Stati Uniti.
Senza un soldo, già al suo arrivo, Bettelheim è
invitato a riprendere il suo lavoro all’Università di Chicago. Accetta, e lui e
Gertrud si trasferiscono nella città dove cresceranno le loro due figlie e il
figlio.
Il lavoro con i
bambini a Chicago
Nel 1944 viene nominato direttore della Sonia Shankman
Orthogenic School per bambini emotivamente disturbati. Bettelheim ha ormai
elaborato una teoria della guarigione basata sulle sue esperienze cliniche. Il
suo ragionamento è questo: se il trattamento disumanizzante a cui i prigionieri
sono sottoposti porta alla disintegrazione della loro personalità, non
potrebbero essere vero anche il contrario?
Con questo principio ricostruttivo della personalità
in mente Bettelheim riprogetta anche l’assetto dell’istituto tradizionale di
cure mentali. Fa togliere le serrature all’esterno delle porte per
reinstallarle all’interno. Il che significa che i visitatori e lo stesso
personale di cura non può entrare senza il permesso del paziente, ma questi può
uscire a piacimento.
I piatti di plastica e le posate prive di coltello
sono sostituite da materiale in porcellane e set completi d’argento. Le sbarre
sono rimosse dalle finestre. Sono commissionate delle opere artistiche da
collocare sulle pareti e nell’edificio.
Una terapia
efficace
La strategia ha successo. Secondo Bettelheim e i suoi
consulenti, nei 30 anni di permanenza alla Scuola Ortologica di Bettelheim,
oltre l’85% dei pazienti “senza speranza” curati nell’istituto torna a
partecipare attivamente alla vita nel mondo esterno.
Nel 1973, all’età di 70 anni, Bettelheim si ritira
dalla Scuola Ortologica e si trasferisce con Gertrud a Palo Alto. Continua a
tenere conferenze e a scrivere. Con Il mondo incantato e un
altro bestseller, Il genitore perfetto, si guadagna un seguito
molto ampio e scrive una rubrica sulla genitorialità nel popolare sul magazine
“Ladies Home Journal”.
“Era un animale molto raro, un intellettuale
pubblico”, dice lo psicoanalista di Los Angeles David James Fisher. “I suoi
scritti possono essere letti sia dal pubblico colto che dagli specialisti”.
Un approccio
anche controverso
Spesso, tuttavia, il pensiero Bettelheim suscita tanti
consensi quante controversie. I suoi saggi su argomenti che spaziano dal
sistema educativo americano (controproducente, ha sua detta) al movimento
contro la guerra degli anni Sessanta (un tentativo “distruttivo” dei giovani di
esprimere i propri sentimenti di inutilità) sono stati sono presi con le pinze
in tutti gli ambienti.
I suoi principali critici sono spesso nella stessa
comunità psicoanalitica. La sua tesi secondo cui l’autismo è principalmente
prodotto dall’ambiente, da allora è stata smentita. Già nel 1983, Bettelheim
scatena una tempesta di critiche quando pubblica Freud and Man’s Soul,
in cui affermava che gli aspetti centrali del pensiero di Freud presenti nelle
traduzioni in inglese sono sbagliati, il che implica che i principi su cui si
fonda la comunità psicoanalitica americana sono profondamente lacunosi. E anche
dopo la sua morte, sorgono polemiche sul suo uso delle punizioni corporali per
far accettare la disciplina ai pazienti della Scuola Ortogenetica.
“Il pubblico sembra dividersi in pari misura tra
sostenitori e detrattori”, dice Theran Raines, da tempo agente letterario di
Bettelheim.
I dissidi con la
figlia
Nei suoi 80 anni di attività, Bettelheim ha riempito
le aule di tutto il paese. La scomparsa della moglie, compagna di vita di oltre
43 anni nel 1984 rallenta notevolmente il suo lavoro. Bettelheim va a vivere
con Ruth, la figlia maggiore, in una casa acquistata insieme. La convivenza
finisce in modo acrimonioso, e Bettelheim si trasferisce nel condominio di
Santa Monica con vista sul mare.
“Dopo la morte di mia madre”, dice Naomi, la figlia
minore, “mio padre non riesce a trovare un modo per vivere in pace”. Credo che
desiderasse vedere Ruth al posto di mia madre, ma è impossibile”.
Nel 1987, Bettelheim ha un ictus, che gli paralizza
parzialmente il lato destro del corpo. Per diversi mesi, il suo lavoro si
ferma.
“L’ictus compromette le sue capacità motorie”, dice
Jacquelyn Sanders, attuale direttrice della Scuola di Ortogenesi. “Ricordo che
quando siamo andati a pranzo, ha impiegato un sacco a tirar fuori i soldi per
pagare il conto”. È una situazione molto difficile per un uomo come lui”.
La vecchiaia
Durante la nostra seconda intervista Bettelheim inizia
a parlare concretamente della vecchiaia.
“Parte del problema”, dice, “è che la nostra società
non sa cosa fare con gli anziani. Vorremmo metterli in prigione. Ci sono
società, invece, nelle quali gli anziani sono venerati, come avviene in Cina.
Nei kibbutz israeliani si fa in modo che gli anziani restino attivi in rapporto
alle loro capacità. Non si relegano in qualche casa di riposo o in qualche
struttura sanitaria, come si fa qui. È molto difficile continuare a vivere se
non ci si sente più utili o considerati.
“Ma — ribatto — molte persone ti cercano ancora per
qualche consiglio”.
“La gente mi cerca”, ammette. “Ci sono persone per le
quali sono importante e per le quali sento di poter dare un contributo. Questo
è certamente quello che mi attrae più nella vita”.
Sembra che voglia lasciare che la vita prenda il suo
corso naturale.
“Sono combattuto”, risponde rapidamente. “Sono
combattuto”.
“Cosa ti spinge nella direzione della vita?” gli
chiedo.
Gli affanni
della vecchiaia
“Il fatto che io possa ancora essere utile a qualcuno
— la speranza che alcune cose possano ancora essere piacevoli. Ci sono delle
persone anziane ancora piene di questa gioia di vivere. Io non lo sono. Questa
è la mia sfortuna, se così si vuole chiamare. La mia vita privata mi ha dato
delle delusioni. C’è stata la morte di mia moglie, a cui ero profondamente
legato e che mi manca molto. quando mia moglie era ancora in vita, io ero ben
contento della mia vita e la vivevo molto bene.
Ma dalla sua morte trovo sempre più difficile viverla.
Invidio le persone che credono che nell’aldilà ci si ricongiunga con i propri
cari. È un pensiero molto rassicurante, ma non posso crederci”.
Mi chiedo se l’allontanamento da sua figlia Ruth, che
dura da un anno, sia un’altra di quelle delusioni. Mentre glielo chiede, inizia
ad elencare i suoi guai fisici. “Mi rimane solo un po’ di energia. Accetto, di
dover rallentare molto, di poter fare relativamente poco, e che le cose normali
ora sono problematiche”.
Per esempio, dice, “a causa dell’ictus, non posso più
scrivere. Ho sempre capito meglio un problema dopo aver iniziato a scriverne.
Non posso più farlo. Questa è una delle cose che devo accettare della
vecchiaia”.
Bettelheim sospira profondamente. “Credo di aver fatto
pace con questo aspetto della vecchiaia — non che sia una pace felice, ma pace
è”.
La vecchiaia
attiva
Per tutti i suoi problemi fisici sopraggiunti dopo
l’ictus del 1987, Bettelheim mantiene uno stile di vita moderatamente attivo.
Nel settembre del 1989, parla davanti a una folla di estimatori alla Libreria
Phoenix di Santa Monica. Trova l’energia per collaborare a un libro: In
the Shoes of a Stranger. E ogni giovedì sera, negli ultimi 2 anni e mezzo,
supervisiona sei terapisti in un gruppo di studio.
“Nonostante le condizioni del corpo, il suo sguardo è
sempre vibrante”, dice l’organizzatrice del gruppo, la terapista Barbara
Waldman. “Non importa come si sente, quando lavora, lavora. Il lavoro gli viene
d’istinto”.
Ma nel 1989 è evidente a molti che l’energia di
Bettelheim sta diminuendo. A maggio è nominato membro onorario della Los
Angeles Psychoanalytic Society. Alla cerimonia d’accettazione della nomina, con
un lungo e divertente discorso racconta storie di amici che vanno da Wilhelm
Reich a Woody Allen (Bettelheim interpreta se stesso nel film Zelig di
Allen). È una performance di bravura che ipnotiizza la maggior parte dei
presenti. Nonostante la sua età, Bettelheim è in ottima forma. Ma dopo, mentre
lo aiutano a raggiungere l’auto, sembra esausto, sfibrato. Non riconosce un
collega del suo gruppo di studio che viene a congratularsi con lui. È chiaro
che Bettelheim è ancora all’altezza della situazione, ma a un prezzo molto
caro.
“A un certo punto mi sono reso conto che il suo
interesse per il gruppo inizia a diminuire”, dice Waldman. “Guardando indietro,
credo che si sia sempre più concentrato sul modo di finire la sua vita”.
I conti con
l’Olocausto
Quando incontro Bettelheim per l’ultima volta, il suo
umore mi pare notevolmente migliorato. Anche nelle parti più cupe delle nostre
conversazioni gli piace scherzare. Gli piacciono particolarmente le barzellette
sulla California. “Sembra che nella classe media della California, tutti siano
o un paziente o un terapeuta”, dice, con una risata roboante e uno sguardo
divertito.
Quel giorno sembra in vena di umorismo. Ride quando lo
osservo. “Forse è il nuovo farmaco che sto prendendo”, dice. Ma non parliamo
della depressione. È deprimente!”. Si mette a ridere di nuovo a crepapelle.
Parliamo invece dei suoi scritti e delle sue idee. La
conversazione si sposta sull’Olocausto e, come in molte delle altre nostre
conversazioni, torna alle questioni del vivere e del morire.
“Come hai superato il dolore di una tale esperienza?
Chiedo.
“Non credo che si possa dominare appieno l’esperienza
di essere stati prigionieri in un campo di concentramento tedesco”, dice. “È
molto problematico. Penso che questa sia la ragione per cui alcuni che hanno
cercato di capire la propria esperienza nel campo di concentramento si siano
suicidati. I primi che mi vengono in mente sono Primo Levi e Paul Celan, il
poeta tedesco”.
“La ferita si trasmette anche nella seconda
generazione. Mio figlio solo qualche anno fa mi ha detto che sentiva sempre un
alto livello di ansia in casa per via dell’esperienza dei suoi genitori sotto il
nazismo. Credo che ci siano esperienze così nefaste, così traumatiche, dalle
quali non ci si riprende mai del tutto”.
I limiti della
psicoanalisi
“Allora, come si fa a convivere con queste esperienze?
“Il meglio che uno può”, dice Bettelheim. “Ora, non voglio
dire che la psicoanalisi non aiuti. Dopotutto, se non ci credessi, non sarei
uno psicoanalista. Ma la psicoanalisi non risolve tutti i problemi della vita.
Ciò che è più insopportabile per una persona può essere meno insopportabile per
un’altra. Ma in generale credo che l’esperienza del campo di concentramento,
soprattutto per le persone sensibili, sia un’esperienza molto difficile da
mettere sotto controllo”. “A che punto siete ora nella conoscenza di questa
esperienza?
C’è una lunga pausa.
“Non lo so”, risponde. “In certi periodi della vita è
più facile da affrontare che in altri. Ora devo fare i conti non solo a questa
esperienza passata, ma anche con le devastazioni della vecchiaia. E comunque,
penso che per tutta la vita non sono stato un grande ottimista. E considerando
lo stato delle cose umane è molto difficile essere ottimisti — a meno che non
si sia nati in California”, aggiunge con un altro sguardo obliquo.
“Sto ancora riflettendo su ciò che rende questa
esperienza così difficile da vivere — anche nel mio caso. Perché ci sono anche
altre esperienze devastanti, e riusciamo a conviverci abbastanza bene, o
relativamente bene. Per quanto posso capire, è un’esperienza che fa perdere la
fiducia nell’umanità. Quando penso a quegli individui che si sono suicidati nei
campi — e ce ne sono parecchi — direi che non solo hanno perso la loro fede nel
senso della vita, ma si sono anche distaccati dalle persone amate. Non so
perché si siano distaccati. Ma finché c’è amore, cerchiamo di restare vivi per
poterci ricongiungere con la persona che amiamo. È così semplice”.
Trovare un
significato alla vita
Bettelheim parla ripetutamente della necessità di
credere che ci sia un senso nella propria vita, ma anche sostiene che questa
convinzione è una finzione. Sperando di fargli chiarire questa contraddizione,
leggo l’introduzione a Il mondo incantato: “ Se speriamo di vivere
non semplicemente di momento in momento ma realmente coscienti della nostra
esistenza, la necessità più forte e l’impresa più difficile per noi consistono
nel trovare un significato alla nostra vita. È risaputo come molti abbiano
perso la volontà di vivere, e abbiamo smesso di provarci, perché questo
significato è sfuggito loro… Oggi, come in passato, il compito più importante e
anche il più difficile che si pone a chi alleva un bambino è quello di aiutarlo
a trovare un significato alla vita.
“È un paradosso”, risponde. Per vivere bisogna credere
che ci sia un senso nella vita”. D’altra parte, la scienza ci dice che siamo il
prodotto casuale dell’evoluzione e che non c’è uno scopo nella vita. Con questa
idea non si riesce a vivere bene.
Eros e Thanatos
“Mettiamola in un altro modo. Credo che Freud abbia
ragione nel dire che c’è una spinta alla vita (Eros) che alla morte (Thanatos).
Finché la pulsione vitale, o la libido, è in crescita — sicuramente finché
siamo sessualmente attivi e vogliamo procreare — vivremo. Ma si può anche
arrivare a un punto in età avanzata in cui si deve accettare di ritirare la
pulsione vitale perché altrimenti non si potrebbe affrontare la morte. Quindi
per me è un caso di equilibrio tra Thanatos e libido, o Eros. Finché l’eros
vince la battaglia, siamo contenti di vivere”.
Le parole che usa — Eros, libido e Thanatos — sono
termini astratti, psicoanalitici, ma sono venuto a vedere che Bettelheim ha
vissuto l’Eros e il Thanatos non come un gergo metaforico, ma piuttosto come
vere e proprie forze interiori.
“L’amore è una chiave importante per la questione di
vivere o morire”, gli chiedo.
“Sì”, rispose. “Sì, la più importante”. L’abbiamo
chiamata libido. Chiamatela amore. Chiamatelo sesso. La libido è, dopo tutto,
in larga misura sesso. Ma in vecchiaia non si fa più sesso”.
“Ho sentito dire che c’è chi lo fa”.
“Alla mia età? Vi racconterò una storia a riguardo.
C’è un uomo che va dal medico e dice: “Non posso più avere rapporti sessuali”.
E il suo dottore dice: “Beh, sai, sei sulla settantina. Cosa ti aspetti? E
l’uomo dice: “Sì, ma il mio amico Sammy, che ha un anno in più, dice di farlo
ogni settimana”. E il dottore dice: “Puoi dirlo anche tu”. “Bettelheim si
lascia andare a una risata rauca.
“C’è chi riesce a innamorarsi a tutte le età”,
aggiunge, più seriamente. “Credo che siano proprio loro quelli felici”. Io
stesso assisto al ritiro della mia libido da quelle cose nelle quali era
presente in passato”.
“Allora l’appassimento della libido, l’appassimento
della vita, è una conseguenza della perdita dell’amore?, domando.
“Amare ed essere amati”, dice Bettelheim. “le due cose
vanno insieme”. L’emozione gli inonda improvvisamente il viso. “Forse”, dice,
distogliendo lo sguardo, “potremmo parlare di qualche altro argomento”.
I suicidi degli
anziani
Se la morte di Bettelheim è stata per coloro che lo
conoscevano di persona o che conoscevano il suo lavoro una sorpresa, per la statistica
è stato una semplice aggiunta al crescente numero di suicidi di anziani. I
tassi di suicidio per gli over 65 sono aumentati del 25% dal 1980; questo
gruppo demografico rappresenta solo l’11% della popolazione, ma ben il 25%
delle persone che si tolgono la vita.
La domanda, ovviamente, è: perché?
“Una parte della ragione è economica”, risponde Nancy
Osgood, professore associato di gerontologia al Medical College della Virginia
e autrice di Suicide in the Elderly. “Un altro fattore da
considerare è l’isolamento sociale degli anziani in questa società. L’attuale
stato della medicina e delle cure mediche sono una spada a doppio taglio.
Troppo spesso prolungano la vita, a scapito della qualità”.
“Ci sono perdite e menomazioni che portano gli anziani
al suicidio”, concorda John McIntosh, professore associato di psicologia
all’Università dell’Indiana e autore di diversi studi sul suicidio degli
anziani. “La preoccupazione di perdere funzioni fisiche o mentali, la morte di
un coniuge o la perdita della capacità di lavorare, sono fattori che possono
portare alla decisione di togliersi la vita”.
Paul Torrance, noto per le sue ricerche sulla
creatività, ritiene che la decisione del collega risponda a questi parametri.
“Bettelheim è una persona creativa con molte idee”, dice Torrance, autore
del Torrance Test for Creative Thinking. “Quando una persona
creativa non è più in grado di produrre, si sente come se fosse spiritualmente
morta”. Il corpo è lì, ma lo spirito se n’è andato”.
“Non si è tolto la vita dopo l’esperienza campi di
concentramento”, dice Alvin Rosenfeld, psichiatra e primario di psichiatria
infantile all’Università di Stanford. “Non si è suicidato quando è venuto in
questo Paese senza un soldo. Non si è suicidato dopo la morte della moglie e
nemmeno dopo due ictus”. Quindi la domanda da porsi è: qual è il modo giusto
per un uomo di porre fine alla sua esistenza? Ritieni che sia Dio o il destino
a dovere scegliere il giorno del giudizio, o vuoi scegliere tu stesso quel
giorno?”.
Le motivazioni
del suicidio
I tre figli di Bettelheim — Ruth, psicoterapeuta,
Naomi, pianificatore regionale, ed Eric, avvocato internazionale — sono usciti
distrutti dal suo suicidio. Ma tutti loro se lo aspettavano. “Ho cercato di
dissuaderlo”, dice Naomi. Ma non ero nei panni di mio padre. Quindi non spetta
a me giudicare o criticare in alcun modo ciò che ha fatto”.
Sospira. “Ci sono molti, molti fattori che hanno
spinto mio padre a scegliere questa strada, a partire dalla sua formazione a
Vienna. In Austria, quando era giovane, c’era una certa preoccupazione per il
suicidio (è ben documentato che per decenni il suicidio è stato una specie
d’epidemia in Austria).
Un altro fattore è stato che da giovane mio padre ha
visto il suo stesso padre ridursi nell’incapacità. Poi ha visto accadere la
stessa cosa con molti degli amici più cari. Poi, alla fine, c’è stata la
scomparsa di mia madre. Aveva sempre sperato di morire prima. Non posso dire
che non si sarebbe ucciso se mia madre fosse stata viva. Ma ne sono quasi
certa”.
Morire con
dignità
Verso la fine del nostro ultimo incontro, leggo a
Bettelheim la biografia di Freud di Peter Gay, e gli cito il brano nel quale il
medico di Freud descrive come Freud “affronta la morte con dignità e senza
autocommiserazione. Quale preparazione occorre”, chiedo, “per affrontare la
morte consapevolmente, con dignità e senza autocommiserazione?
Bettelheim si mette a ridere.
“Penso che bisogna essere soddisfatti della propria
vita”, dice. “Sentire di aver fatto più o meno quello che si aveva intenzione
di fare”. E penso anche che si debba avere la convinzione che la vita non
mancherà molto. È una decisione personale. Non c’è alcuna certezza. Non c’è mai
certezza su nulla nella vita. Se dovessi morire oggi o domani, non credo che la
vita mi mancherebbe molto”.
“Senti di aver realizzato quello che ti eri prefissato
di realizzare?”.
“Sì, credo di averlo fatto”, risponde. “Quando ero
giovane, ero politicamente attivo”. Ma nel corso degli anni sono passato dalla
convinzione di dover cambiare la società per creare un mondo migliore alla
sensazione che occorre creare persone migliori per costruire un mondo migliore.
Questo è ciò che ho cercato di fare”.
“Cosa lasci di incompiuto?
Quello che avrei
voluto fare e non ho fatto
Sorride. “Molte cose. Il mio editore tedesco vuole che
scriva un altro libro sui miei colloqui con le madri. Ma per questo dovrà
aspettare un’altra vita. Probabilmente ci sono molti libri che avrei voluto
leggere. Perché non li leggo adesso? Ovviamente non così importante per me.
Sarebbe bello studiare il greco classico; poi sarei in grado di leggere alcuni
degli scrittori greci in originale. Beh, ovviamente, non è così importante per
me.
“C’è così tanto da sapere. E così poco tempo, davvero.
E soprattutto rimane così poco tempo per me. Il mio obiettivo è stato quello di
dire quello che volevo dire nel miglior modo possibile. E renderlo
relativamente facile da capire. Ho cercato di scrivere in modo chiaro. Non so
se ci sono riuscito, ma ci ho provato”.
“Ma c’è qualcos’altro che non rimpiangi di avere
fatto?” Mi spingo con la domanda.
La morte dolce
“Una morte dolce”, dice soavemente. “Questo è ciò che
rimane ancora incompiuto.”
Bettelheim non lo fa in Olanda. “Non voleva andare da
solo”, spiega Naomi. nessuno dei suoi figli se la sente di assecondare il suo
piamo. Così, invece di andare in Europa, poco prima del Natale 1989, Bettelheim
si trasferisce in una casa di riposo a Silver Spring, Maryland, per stare più
vicino a Naomi.
La sera del 13 marzo 1990 ricevo una telefonata da
Barbara Waldman, uno dei colleghi del gruppo di studio. Ha sentito alla radio
che Bettelheim è morto. Non si menziona parola suicidio. Mi siedo, per
l’emozione. Le sensazioni sono contrastanti. Da un lato c’è la consapevolezza
di aver perduto un pensatore unico. Dall’altra quella che Bettelheim abbia
ottenuto la “morte dolce” che desiderava.
Poi leggo i giornali del mattino… Un sacchetto di
plastica. Tenendo il giornale, scoppio in lacrime nel vialetto.
“Si è suicidato quando è cambiata la stagione”, dice
Naomi. “È inverno, ma improvvisamente viene un po’ di caldo”. Le persone della
casa di riposo mi hanno detto che l’inizio della primavera, quando il tempo
cambia, è il momento in cui gli anziani si tolgono la vita. Non sanno perché”.
Qualche giorno dopo, rileggendo alcuni dei suoi
lavori, un brano di Freud’s Vienna & Other Essays cattura
la mia attenzione. “È preziosa agli occhi del Signore la morte dei giusti “
(Salmo 115), scrive Bettelheim. “Se ci si può chiedere perché la morte dei
giusti, piuttosto che la loro vita, sia preziosa per il Signore, la risposta è
questa: Mentre il Signore si compiace dei giusti fintanto che essi vivono una
vita giusta, solo alla loro morte ci può essere la certezza che essi non si
siano mai allontanati dal sentiero della giustizia”.
Bettelheim si riferisce al martire polacco Janusz
Korczak, ma in qualche modo le parole sembrano avere un’eco inquietantemente
autobiografica. “Chiunque siano stati i giusti nella nostra vita”, continua, “è
stata la loro morte liberamente scelta che ha reso alla fine evidente
l’assoluta rettitudine della loro vita”.
Bruno Bettelheim (Vienna,
1903 — Silver Spring, 1990) si laureò in psicologia a Vienna. Di origine
ebraiche, nel 1938 fu deportato nei campi di concentramento inazisti, ma fu
rilasciato l’anno seguente per intervento di Eleanor Roosevelt. Lui e la moglie
si trasferirono negli Stati Uniti. Insegnò all’Università di Chicago e si
interessò soprattutto di autismo, di tecniche nel trattamento dei bambini con
disturbi emotivi e degli aspetti psicologici del pregiudizio razziale.
Tra i suoi libri si ricordano: La fortezza vuota. L’autismo infantile e
la nascita del sé (Garzanti 1999); Dialogo con le madri (Pgreco
2010); Ferite simboliche (SE 2011); Il mondo
incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli
2013); Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli 2013); Sopravvivere
e altri saggi (SE 2014).
Che interessante lettura! Un contributo importante per la figura che riesce a essere così ben delineata e per l’argomento. Grazie, Francesco.
RispondiEliminaGiacinta:-)
ciao Giacinta! ogni tanto si trovano cose interessanti e le diffondo, mica sono un avaro:)
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