(a cura di Stefania Sinigaglia)
La giornalista burkinabé Mariam Ouedraogo ha vinto il premio Bayeux
Calvados-Normandie per corrispondenti di guerra (8/10/2022) con un reportage
sulle angherie inflitte alle donne che, quasi tutte con i loro piccoli sulla
schiena, fuggivano dai villaggi del Burkina Faso, assaliti e spesso incendiati
dai gruppi jihadisti, villaggi anche dilaniati da conflitti inter-comunitari
sanguinosi, sorti e aggravati dall’insicurezza totale e dalla penuria.
Centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, violenza e crudeltà
selvagge, terre coltivate abbandonate. Quasi ovunque nel Sahel dal 2012infuria
una vera e propria guerra con focolai innumerevoli.
Il Burkina Faso è parte di quella vastissima fascia di savana (6 milioni di
km2), il Sahel, che va dal Gambia e Senegal a ovest fino all’Eritrea a est; era
questa la “riva”[1] che
le carovane medioevali salutavano a sud come una benedizione dopo la terribile
traversata del Sahara. Alberi e ombra, acqua, riposo, cibo, e le accoglienti
città di Timbuctu, Agades, Gao. Per secoli non molto è cambiato,
fino all’arrivo della colonialismo europeo alla fine del 1800 e la
trasformazione dell’agricoltura di sussistenza in agricoltura commerciale da
esportazione[2],
che ha impoverito la terra e l’ha resa dipendente dai concimi chimici
importati. A partire dal 1960 la vegetazione si è sempre più rarefatta a causa
di siccità ricorrenti e più frequenti, le piogge dell’hivernage (così
nel Sahel è chiamata la stagione piovosa) mancano sempre più spesso all’appello
o si trasformano in inondazioni devastanti che rapiscono l’humus e inaridiscono
i campi coltivati, l’esodo rurale aumenta e la vita nei villaggi si fa sempre
più dura.
L’ultima tappa letale di questo declino che già sembrava difficilmente
arrestabile, poiché si innestava su un cambiamento climatico spietato, è
iniziata dopo la sciagurata cacciata di quell’aborrito e temuto Gheddafi che
era sì dittatore ma pur sempre l’unico che era riuscito a fare di tribù
guerriere sparse su un territorio di quasi 1.300.000 km2, di comunità acefale
autonome, uno Stato senza radici, inventato, ma con servizi, ospedali, scuole e
università, istituzioni funzionanti. Reprimendo e stroncando qualunque
opposizione nascente, ma non molto diversamente da altri capi di stato vicini
anche peggiori, indisturbati o vezzeggiati dalle stesse potenze che hanno fatto
della Libia un bubbone ingovernabile dal 2012 con la presunta “liberazione”. Un
bubbone dal quale si sono riversati fiumi di armi, armamenti e islamisti
agguerriti che sono dilagati a sud verso il Sahel, a cominciare dal nord del
Mali, dove hanno incontrato un terreno favorevole incrociando e fondendosi con
la storica ribellione Tuareg, che dal 1991 aveva avuto un risveglio, con
rivendicazioni vecchie di decenni: più servizi, presenza dello Stato, no alla
discriminazione etnica negli impieghi, riconoscimento della propria lingua e
cultura, autonomia amministrativa. Dopo essersi impadroniti di una bella fetta
di territorio e avere espugnato Timbuctu, saccheggiando e distruggendo un
patrimonio culturale secolare e avere creato migliaia di profughi, gli
islamisti hanno cominciato la loro discesa a sud. All’ inizio del 2013 stavano
per raggiungere Segou (centro-sud del Mali). Fu allora che l’allora presidente
francese François Hollande decise in quattro e quattr’otto di inviare una
spedizione militare per fermarli prima che arrivassero alla capitale Bamako. La
Francia è la potenza europea ex colonialista in Africa Occidentale che ha
conservato nei decenni una fortissima influenza economica e culturale
nell’area. Fu l’inizio dell’intervento esterno nel Sahel, prima solo francese
con l’operazione chiamata Serval, che poi divenne,
consolidandosi e moltiplicando il numero delle truppe e degli armamenti,
l’operazione tutta francese Barkhane. L’intervento militare
francese fu coadiuvato successivamente da altri interventi militari
internazionali: G5, che coinvolgeva cinque Stati della regione, MINUSMA, a
responsabilità onusiana, infine Takuba, una task force europea con comando
francese. Sin dall’inizio era chiaro che le forze islamiste avevano fagocitato
progressivamente li malcontento locale, le rivendicazioni di migliaia di
giovani e meno giovani, una ribellione latente contro l’assenza di servizi
essenziali soprattutto nelle aree rurali, contro il malgoverno, il malaffare,
l’indifferenza dei potenti verso le sofferenze del popolo, la corruzione
onnipresente. Il tutto inasprito dalla scarsità crescente delle risorse
naturali e dalla predazione del sottosuolo. Si formarono milizie
locali per la difesa dei civili, con complicazioni ulteriori tra comunità diverse.
Tutti gli esperti dell’area avevano messo in guardia contro l’approccio
prevalentemente se non unicamente militare di questi interventi internazionali
costosi che fra l’altro comportavano spesso gravi abusi, uccisioni
ingiustificate ed errori intollerabili da parte sia delle forze militari locali
che straniere. Il risultato disastroso è stato il dilagare in dieci anni dei
gruppi armati islamisti dal Mali al Burkina, al Niger e al Ciad, ultimamente
nel nord del Benin, con azioni armate sanguinose e assalti anche in Costa
d’Avorio e una ostilità crescente verso le truppe francesi. Si sono rafforzate
e moltiplicate le formazioni jihadiste[3] che
hanno provocato migliaia di morti e milioni di profughi interni. Sia in Mali
che in Burkina Faso rispettivamente si sono succeduti 2 colpi di stato
militari, la Guinea Conakry (ancora fortunatamente non toccata dagli attacchi
jihadisti) e il Ciad hanno avuto ciascuno un colpo di stato, tutto il Sahel è
sconvolto e all’orizzonte non si scorge ancora un mutamento di rotta in chi
detiene il potere rispetto all’approccio militare. La missione Barkhane è stata
cacciata via sia dal Mali che dal Burkina a forza di manifestazioni ostili
contro i francesi, e ora ha il suo quartier generale in Niger, che pare meno
esposto agli assalti islamisti. Sia in Mali che in Burkina si sono aperte le
porte ai mercenari russi del gruppo Wagner, già accusati di efferatezze nella
repubblica Centrafricana; in Mali hanno sostituito i francesi e già l’International
Crisis Group[4] ha
documentato loro atti criminali. Questo sommario e lacunoso riassunto è solo
una necessaria premessa per inquadrare in un contesto di vera e propria guerra
il coraggioso reportage della giornalista burkinabé Mariam Ouedraogo sulle
donne rurali in fuga dai villaggi del Burkina F. messi a ferro e a fuoco, di
cui traduco ampi brani qui di seguito.
ASSE DABLO-KAYA :
LA VIA DELL’INFERNO DELLE DONNE PROFUGHE INTERNE - Mariam Ouedraogo
(edizioni JK Sidwaya)
Dopo numerose incursioni a Dablo, una delle 11 circoscrizioni della
provincia di Sanmantenga, nel centro nord del Burkina Faso all’inizio di
novembre 2021, individui armati hanno imposto un ultimatum alle popolazioni
affinché abbandonassero la zona. Ne sono seguite partenze in massa verso
Barsalgho e Kaya[5].
Durante la fuga donne e ragazze, punite a colpi di frusta (10/25 frustate
ciascuna) sono state derubate di tutti i loro beni dai terroristi, addirittura
private dei sandali che indossavano. La loro colpa era l’avere indugiato nei
villaggi dopo la scadenza dell’ultimatum. Nella loro zona inoltre erano
presenti i volontari per la difesa della patria (VDP)[6],
uomini che combattono appoggiando le forze regolari statali (FDS), e questa
presenza si è ritorta contro di loro. Incontrate nel dicembre 2021 a Kaya, a 85
km da Dablo, dove si sono rifugiate, queste donne sequestrate, picchiate e
violentate raccontano l’inferno che hanno vissuto sulla via della fuga verso la
salvezza. I nomi sono inventati.
La prima azione dei terroristi a Dablo risale al 12 maggio 2019. Il primo
obiettivo colpito è la chiesa cattolica. Il bilancio è di sei morti. Da allora,
le incursioni terroriste si sono moltiplicate nella zona, causando numerosi
morti e movimenti di popolazioni verso Kaya. Dablo cade nelle mani dei
terroristi dopo il ritiro della guarnigione della gendarmeria, il 22 novembre
2021. Dopo tre giorni se ne vanno anche i volontari per la difesa della patria.
Sentendosi ormai alla mercé dei terroristi, a loro volta gli abitanti decidono
di arrangiarsi da soli e fuggire, chi verso Barsalgho, chi verso Kaya. Alcuni,
prevedendo la mala parata, erano già partiti …(ed erano stati) accolti nello
stadio regionale del Centro-Nord, nel settore di Kaya.
Dopo un viaggio di quasi 85 km … queste profughe, donne mature[7] e
ragazze con i loro piccoli in fuga dalla morte hanno dovuto affrontare la
crudeltà di altri carnefici identici a coloro che le avevano cacciate dei loro
villaggi, che esse designano come “gli uomini della boscaglia” (brousse in
francese). Sono state derubate di tutto: viveri, bestiame, abiti, utensili da
cucina, documenti d’identità e cellulari. Le carrette e gli asini che servivano
a trasportare i bambini e le persone più anziane sono state trafugate. Alcune
donne sono state persino private dei sandali che proteggevano i piedi dalla
polvere rovente della strada e dalle spine[8].
Come se ciò non bastasse, le donne e le ragazze hanno anche subito punizioni
corporali, cioè da 10 a 25 frustate. Quel giorno del 25 dicembre 2021, Natale,
l’emozione era al colmo quando abbiamo incontrato una ventina di loro a Kaya.
Alcune di loro avevano lasciato Dablo la sera del 2 novembre. Alcune erano
arrivate a Barsalgho dopo l’ incontro nefasto sulla strada.
“Dopo aver camminato quasi 9 km
abbiamo incrociato sette uomini armati che ci hanno preso i bagagli e messo da
parte i bambini. Ci hanno riunito su un lato, intanto aspettavano istruzioni
dai loro capi”, racconta Oumou che ha 37 anni e sei figli. Spiega che oltre le
armi avevano “dei grossi telefoni con antenna” (certo dei satellitari). “Nel
nostro gruppo c’era una donna che capiva la loro lingua che li ha supplicati di
lasciarci partire con i nostri averi”, continua. Ma quando (i banditi) hanno
capito che erano ascoltati e compresi, hanno cominciato a sussurrare …Dopo un
po’ uno di loro è arrivato con la sentenza: le donne saranno frustate a turno.
Dato che allattava, Rainatu ha ricevuto 15 frustate (soltanto!). Oumou è stata
la prima a ricevere i colpi. “Mi ha detto che avrei ricevuto 17 frustate. Mi
sono sdraiata davanti a lui mentre mi frustava, un altro contava i colpi”, dice
lei mostrando la schiena zebrata di cicatrici nere. “Dato che ero la prima, mi
colpiva con tutta la sua forza. Man mano che le altre donne venivano frustate,
i colpi erano meno vigorosi, era stanco”. Il dolore era così forte che il
giorno seguente Oumou ha dovuto ricorrere alle cure del Centro sanitario e
promozione sociale di Barsalgho. L’infermiere ha diagnosticato un trauma causato
da colpi e ferite al dorso. Anche Awa, 33 anni e madre di 6 bambini ha ricevuto
22 colpi, Rainatou, 25 anni con 3 figli se l’è cavata con un numero inferiore
di frustate grazie al suo lattante di 17 mesi. “Dopo le frustate mi ha detto di
riposarmi per potere allattare il bambino”. Le ragazzine del gruppo, Angèle di
10 anni e Françoise di 17 anni sono state risparmiate. Ma la loro cuginetta
Thérèse, egualmente di 17 anni, ha preso 10 frustate perché era più alta.
Clémentine, di 40 anni, con 5 figli, è stata punita più delle altre. “Prima mi
hanno dato 20 frustate, ma quando hanno scoperto che avevo nascosto due
cellulari sotto i miei pagnes[9] mi
hanno colpito altre 5 volte”, dice. Un altro gruppo di donne ha vissuto lo
stesso calvario.
I 50 anni di Christine, 7 figli, non l’hanno salvata: ha subìto 19 colpi,
Solange, 7 figli, 20 frustate. Solo due vecchie trasportate sulle carrette sono
state risparmiate. “Hanno preso le due capre di mia suocera. Una capra aveva
appena partorito. Quando le due vecchie li hanno supplicati di lasciar loro
almeno gli animali, uno di loro ha restituito il capretto, ironizzando che lo
avrebbero nutrito con il biberon. La loro crudeltà era infinita. “Se gridi di
dolore la frustata non conta, se ti tocchi la ferita riprendo il conto da
zero”. In più ci filmavano ridendo, dice Solange. Un’altra aggiunge: “Bisognava
assolutamente astenersi dal lamentarsi per non far ripetere le
frustate”….Queste punizioni, secondo i terroristi, sono dovuti non solo al
fatto di aver fatto scadere l’ultimatum della partenza da Dablo, ma anche di
essere le mogli di Koglwéogo (uomini di gruppi di autodifesa)
e dei VDP ( volontari della difesa) che collaborano con l’esercito burkinabé
(FDS). “Voi collaborate con le FDS ma oggi siete in nostro potere. Chiamatele
chiedendo che vengano a salvarvi”, gridavano alle donne con sarcasmo. “Alla
fine della “punizione” un gruppo di uomini ha portato via verso la boscaglia
tutti i nostri bagagli”. Un altro gruppo, fucili in spalla, le ha scortate fino
alle porte di Barsalgho, per assicurarsi che non tornassero indietro.
Alcune donne non hanno voluto proseguire senza nessuna provvista e a piedi
nudi, e sono tornate indietro per cercare di trovare qualche cosa al villaggio
abbandonato. Disgraziatamente, sulla via del ritorno, hanno incontrato di nuovo
i terroristi….
Anche se la strada dell’esilio è stata particolarmente traumatizzante per
le donne di Dablo, bisogna riconoscere che già nel villaggio avevano vissuto
l’inferno …”Durante la raccolta delle arachidi eravamo 17 nel campo; (dei
terroristi) ci hanno colpito con dei rami”, dice Rainatou. Céline aveva
ricevuto 16 colpi con un cavo metallico… Bintou, cinque figli, confida:” Siamo
scese nel nostro campo senza i lattanti. (I terroristi) ci hanno picchiato e
portato al villaggio di Roffi, lontano da Dablo. Siamo scappate e tornate dai
nostri bambini. Oltre ai colpi ricevuti, alcune sono state ripetutamente
violentate. “Mi hanno violentato e bastonato più volte, prima che riuscissi a
scappare. La stessa cosa è successa alle mie vicine”, dice una di loro. A forza
di stupri e bastonate, le donne e le ragazze si lamentano di dolori e di uno
stress permanente. …. Oggi queste donne sono costrette a curarsi per dolori
alla schiena, alle gambe, insonnia e disturbi del sonno. Così è per Rosalie, 16
anni, 15 frustate, Blandine, 12 anni, 15 frustate, Cathérine, 16 anni, tutte
gravemente traumatizzate dopo i colpi ricevuti. … Quanto a Françoise, grida
durante la notte. “Ogni volta urla durante il sonno e quando si sveglia
racconta che è inseguita da uomini armati. Per sfuggire loro si getta in un
pozzo”, dicono le sue cugine. Tutto ciò non è stato mai confidato ai genitori,
e anche meno agli infermieri o al centro sociale. Esse restano murate nel loro
silenzio soffrendone.
Ogni commento sarebbe fuori luogo. Posso solo aggiungere che quando ho
lavorato in Ciad nel 2007 con donne rifugiate sudanesi che venivano dal Darfur,
ho ascoltato racconti quasi analoghi. La radio francese Radio France
International ha diverse edizioni al giorno su quanto accade in Africa,
soprattutto francofona, ma non solo (www.rfi.fr)
(**) Fonti principali:
1. Marco
Aime, Andrea de Giorgio. Il grande gioco del Sahel. Bollati Boringhieri, 2021
2. Reportage: Mariam
Ouédraogo. Axe Dablo-Kaya: la route del l’enfer des femmes deplacées internes,
https://www.sidwaya.info/blog/axe-dablo-kaya-la-route-de-lenfer-des-femmes-deplacees-internes/
3. Joseph Borrel, The terrorist
threat is expanding in the Sahel, https://www.eeas.europa.eu/eeas/terrorist-threat-expanding-sahel_en
4. ISE, Violent extremism in the
Saher, Febr.
https://blogs.lse.ac.uk/africaatlse/2022/02/15/violent-extremism-in-the-sahel-strengthening-grip-west-africa-mali-burkina-faso-niger-jihadi/
5. I.C.G. A course correction for the
Sahel stabilization strategy, 1/02/2021,
https://www.crisisgroup.org/africa/sahel/299-course-correction-sahel-stabilisation-strategy
[1] Sahil in arabo
significa appunto riva, da cui Sahel.
[2] Come il cotone e
le arachidi, le care “noccioline” da aperitivo.
[3] I gruppi
maggiori attualmente sono lo Stato Islamico nel Grande Sahara e il Gruppo di
appoggio all’Islam e ai Musulmani (JNIM).
[4] L’I.C.G. è una
organizzazione internazionale di ricerca e documentazione sulle varie crisi a
livello mondiale.
[5] Kaya è uno dei
maggiori centri della regione, sulla strada che va verso la frontiera con il
Niger.
[6] Una delle
milizie di civili di cui si parlava sorte un po’ dappertutto data l’assenza
della difesa di polizia e militari.
[7] Nel Sahel, una
donna matura può avere solo 30 anni o poco più.
[8] E dovevano
camminare per 85 km!
[9] I pagnes (in
francese) sono le fasce di tessuto stampato a colori vivaci che le donne rurali
in Africa annodano in vita, che vengono usate anche per appendere e fasciare i
bambini piccoli sulla schiena, difendersi dal freddo, stendersi a terra, ecc.
Hanno nomi diversi a seconda dei paesi.
Lettere dal Sahel II - Mauro Armanino
Il padre di Cassandra e l’amico calciatore
Niamey, 13
novembre 2022. Era un nome che gli piaceva e allora suo padre l’ha chiamata
Cassandra che, nella mitologia greca, era una temibile veggente mai ascoltata.
Era nata in Tunisia dove prima il padre e poi la madre, entrambi della Costa
d’Avorio, avevano migrato con l’idea di raggiungere l’Italia. Suo padre,
cantante di professione, era partito in aereo fino a Tunisi e poi, nell’attesa
di imbarcarsi, lavorava cantando da manovale nei cantieri della città. Sua
moglie l’ha raggiunto con un amico e assieme, dopo la nascita della bimba,
hanno più volte tentato il mare. Una sola volta sono stati riportati a terra
dalla guardia costiera tunisina. Avevano speso all’incirca 1. 200 euro a
persona mentre il posto per Cassandra era gratis. Le altre volte i ‘passeurs’
sono scomparsi coi soldi o le cose andavano storte. Così, visti i ripetuti
fallimenti, hanno scelto di contattare l’Organizzazione Internazionale per le
Migrazioni, OIM, onde tornare al Paese di partenza, la Costa d’Avorio.
Partono
quasi subito la madre e la piccola Cassandra che aveva visto giusto fin
dall’inizio e, parlando come poteva, consigliava di tornare a casa perché il
viaggio non sarebbe andato bene. L’amico del padre, pure lui ivoriano, lavorava
in campagna come contadino, coltivando legumi e giocando a calcio i fine
settimana. Gli dicevano che era bravo e lui, di nome Aimé, si è fatto
confezionare un nuovo documento di identità e ha raggiunto la Tunisia. Si
vedeva ad occhio nudo che la sua data di nascita e il volto piuttosto adulto
che indossava non coincidevano affatto. Sapeva per sentito dire che le squadre
in Europa ingaggiano solo i giovani. Comunque sia, assieme alla piccola
Cassandra e i suoi genitori, hanno tentato, fallendo, la traversata del
Mediterraneo. Anche lui dunque, Amato com’è, pensa che sia l’ora di tornare al
suo Paese.
Aimé e
l’amico Nicaise, padre di Cassandra, si stancano di attendere i tempi biblici
per il rimpatrio firmato OIM e partono per l’Algeria pensando che in questo
Paese le procedure di rimpatrio siano più celeri. Dopo essere stati espulsi una
volta dall’Algeria vi ritornano e si accorgono che la tempistica
dell’istituzione per i migranti è la stessa dappertutto. Dopo qualche settimana
vengono a sapere che, ad Algeri, esiste un’associazione che aiuta i migranti al
rimpatrio assistito. Iniziano il viaggio di ritorno via deserto e il camion che
li trasporta accusa due guasti. Entrambi, unanimemente, assicurano che solo
Dio, inspiegabilmente ha messo in moto il motore che si è definitivamente
fermato non appena raggiunta Assamaka, la città di frontiera con Niger. Per
raggiungere Arlit e poi Agadez hanno pregato i conducenti e venduto il paio di
scarpe nuove che avevano custodito nel bagaglio. Prima di arrivare a Niamey, la
capitale, ad un posto di blocco i poliziotti hanno esatto quanto rimaneva loro
in tasca: 75 centesimi di euro.
Prima di
partire il papà di Cassandra assicura che, appenatornato, cambierà il nome di
sua figlia.
* * * *
Sulle ceneri della giustizia nel Sahel
Niamey, 20
novembre 2022, Festa di Cristo Re. L’anno era appena iniziato a Niamey e nel
resto del Sahel quando, verso le 4 del mattino di quel martedì, le fiamme hanno
invaso i locali del ministèro nigerino della giustizia. Gli archivi e le
pratiche giudiziarie in istanza, tutto si è tramutato in cenere. Proprio come
la giustizia di cui il palazzo, da allora decentralizzato presso lo stadio
Seyni Kountché, coi muri anneriti dal fumo, era il simbolo. Siamo nel ‘lontano’
2012 e pochi, a quanto sembra, ricordano il risultato dell’inchiesta che aveva
attribuito il sinistro al solito ‘corto circuito’. Lo stesso avvenne col ‘
Piccolo Mercato’ della capitale Niamey, a tutt’oggi desolatamente abbandonato.
Le ceneri della giustizia, da allora, hanno proseguito il loro corso senza
soluzione di continuità nella società intera e nei Paesi circonvicini. Una
giustizia di ceneri o le ceneri della giustizia!
Com’è noto e
non solo nel Sahel, dove lo stato esiste saltuariamente specie alle aree
periferie del Paese, la giustizia è di norma selettiva. Nelle 43 prigioni di
stato la quasi totalità degli ospiti sono membri delle classi subalterne e
tutti sanno che senza un sufficiente ‘bagaglio’ economico di supporto, le
pratiche rischiano di trasformarsi a loro volta in polvere. La selettività
della giustizia bene si accorda con il suo ruolo ‘ancellare’ nei confronti del
potere. Sembra difficilmente immaginabile, per il cittadino qualunque,
l’applicazione di una giustizia uguale per tutti quando non tutti sono uguali
per la legge. Vuoi per il censo vuoi per la vicinanza o meno dalla classe al
potere, rimane assodato che la bilancia, simbolo della giustizia imparziale,
non sia che una vecchia favola. Lo ricordava George Orwell nel suo romanzo ‘La
fattoria degli animali’ che alcuni degli animali della fattoria sono più
‘uguali degli altri’.
Data di
appena qualche giorno, invece, la cerimonia ufficiale per l’inizio del nuovo
anno giudiziario che si è tenuta in un luogo altamente simbolico, il Centro
delle Conferenze Mahatma Gandhi di Niamey. Il presidente della Repubblica,
primo magistrato, ha ricordato all’uditorio che ‘nell’esercizio delle loro
funzioni, i magistrati sono indipendenti e non sono sottomessi che all’autorità
della legge’. Un’affermazione che coglie l’essenziale del tema scelto per
quest’anno giudiziario: ‘ Ruolo della giustizia nella costruzione dello Stato
di diritto’. Il presidente ha poi aggiunto che... ’ il giudice è imparziale e
il suo giudizio deve essere lo stesso nel caso di amici o nemici, di potenti o
di deboli, di ricchi o di poveri… tutti dovrebbero essere trattati allo stesso
modo malgrado le conseguenze’. Sono parole, naturalmente, scritte sulla sabbia
che tutto memorizza e poi cancella con la stessa facilità a seconda degli
interlocutori.
L’intervento
dei pompieri e di altri agenti aveva permesso di circoscrivere il fuoco dopo
oltre 4 ore di lotta. L’edificio del ministero delle giustizia sinistrato,
situato nella zona dei ministeri del centro città della capitale, datava
dell’epoca della colonizzazione che ha lasciato anch’essa nel Paese ceneri
fumanti. L’esito dell’inchiesta era invece scontato. Anche per questo il
presidente, nel sua allocuzione, affermava solennemente l’addio della giustizia
alla corruzione e concludeva in modo salomonico dicendo che...’ non c’è un
giudice per il potere che lo ha nominato ma un giudice al servizio della
giustizia’. In genere, da questa parte del mondo le elezioni presidenziali, per
questo motivo, sono un banco di prova fatale e le Commissioni Nazionali
Indipendenti si caratterizzano, in genere, per sancire la vittoria di chi
governa.
Anch’esse,
com’è noto, scrivono volentieri i risultati sulla sabbia.
* * * *
La sovranità perduta (e ritrovata) nel Sahel
Niamey, 27
novembre 2022. Noi, popolo nigerino sovrano, deciso a consolidare quanto
acquisito nella Repubblica e l’indipendenza nazionale...Inizia con queste
parole il preambolo dell’ultima Costituzione della settima Repubblica del
Niger,rivista e corretta dopo l’ultimo colpo di stato militare del 2010.
All’articolo 4 della stessa si ricorda che...’ La sovranità nazionale
appartiene al Popolo’ (maiuscolo nel testo). Già, la sovranità, parola che
conserva un fascino particolare nel nostro immaginario socio-politico. Essa
deriva da ‘sovrano’, latino medioevale che indica qualcuno che si trova al di
sopra e dunque designa l’esercizio del potere su un luogo e persone
determinate. I suoi sinonimi, poi, non lasciano adito al dubbio...’autorità,
dominazione, impero, padronanza, superiorità, supremazia, onnipotenza’...Parlare
di sovranità esprime dunque la capacità di decidere che fare della propria
storia, personale e collettiva e cioè come autodeterminarsi.
Se questo è
vero allora sovranità e dignità camminano assieme come sorelle e, come ricordava
lo scrittore Charles Péguy a proposito della piccola speranza, c’è la terza
delle sorelle, la più piccola che le tira entrambe. Nel nostro caso la sorella
minore, porta il nome di libertà. Essa conduce le due altre sorelle per mano,
tirandole a volte dalla sua parte, giocando se occorre e strattonandole quando
le due sembrano stancarsi di camminare. In vari Paesi del Sahel, infatti, la
sovranità e la dignità sono entrambe orfane della libertà. La sovranità appare
soprattutto tradita dagli intelletuali di regime che hanno preferito sedersi
alla mensa dei potenti invece che sostare con l’indigenza dei poveri, di cui
hanno dimenticato l’origine. Hanno svuotato le parole del loro senso e verità,
prostituendole per un’effimera fama che il vento del deserto spazzerà via in
fretta. Di loro non resterà nulla per le nuove generazioni che attendevano
parole di speranza.
La sovranità
venduta è quella dei politici che hanno dilapidato, dall’epoca delle
indipendenze degli anni ‘60 fino ai nostri giorni, il patrimonio di lotte,
ideali e fermenti di un mondo differente ereditato dall’anelito alla libertà.
Figli del sistema, hanno assimilato e interiorizzato lo stile coloniale di
potere per il quale governare significa dividere, accumulare ed espropriare
quanto di più sacro c’è al mondo: la giustizia. Si perpetuano grazie alla
complicità e alla passività del popolo che comprano e svendono al miglior
offerente del mercato globale. La sovranità confiscata, invece, è opera dei
fabbricanti d’armi e gli imprenditori della violenza che si avvale
dell’ingiustizia. Essi la usano per trafficare mercanzia pregiata e si
circondano di ideologie religiose per giustificare e infliggere la sofferenza e
la morte ai poveri, abbandonati alla loro sventura dallo Stato.
La sovranità
ritrovata, invece, è quella che i migranti generano grazie alle frontiere dalle
quali sono attraversati. Le regalano a chi sa accoglierla come un dono
prezioso. Quel giorno si farà una grande festa di nozze per tutte le donne
dimenticate dalla storia.
* * * *
Qui i nostri sogni sono stretti
Niamey 4
dicembre 2022. Lo cantava, in tempi non sospetti, il compositore francese
Jean-Jacques Goldman assieme alla cantante di origine britannica Sirima, poi
deceduta. L’album esce nel lontano 1987. Da allora i sogni di tanti sono stati
trafugati, normalizzati e tradotti in prodotti commerciali
ecologico-compatibili col sistema. Altrove, cantavano in coppia i due artisti
traducendo il francese LA- BAS, lontano dall’altra parte perché, da quest’altra
i sogni sono diventati stretti come non mai. Ormai ‘Stretti’ i sogni perché è
tutto l’impianto dell’immaginario simbolico a essere stato manipolato
dall’ignavia e complicità del ceto intellettuale, politico e dai comuni
cittadini in via di sparizione.
‘Qui è
già tutto deciso prima e non si può cambiare. Tutto dipende dalla tua nascita e
io non sono nato nel posto giusto’, continua così la canzone di Goldman che
ripete come una litania infinita … ed è per questo che partirà altrove. Il
giornale non allineato di Niamey ‘ L’investigatore’ del primo dicembre scorso,
riportando il brano citato del cantautore francese, ricorda nell’editoriale il
‘diritto alla rivolta’. Il direttore si riferisce ai migranti e rifugiati che
cercano altrove i sogni smarriti nella propria terra e sottolinea la patetica
resistenza alla mobilità delle persone. Nulla, afferma l’editoriale, potrà
fermare l’Esodo dei tempi moderni.
Da questa
parte del mondo li chiamavano proprio così, ‘esodanti’, coloro che rischiano e
non raramente perdono la vita per cercare altrove ciò che pensano essere stato
rubato o smarrito a casa propria. Un nome impegnativo e ricco di storia perché
narra, nell’Esodo, il transito da una terra di schiavitù a una terra nuova,
dove scorre, secondo le stagioni, latte, miele e dignità. Né le leggi restrittive,
ricorda ancora l’editoriale citato, né i fili spinati, né i muri, né le forze
dell’ordine, né le condizioni ambientali ostili, potranno fermare o ridurre il
desiderio dei candidati all’esilio. In effetti, tra ‘esodo’ e ‘esilio’ c’è
sempre un deserto, un mare e frontiere da attraversare. L’esodo è un transito
precario mentre l’esilio è una condizione perenne di vita.
‘Altrove,
occorre del cuore e del coraggio, ma tutto è possibile alla mia età … se hai la
forza e la fede’, continua così la canzone di Jean-Jacques, tutto è detto
perché tocca, in modo trasversale ciò in cui consiste il diritto alla rivolta.
La dichiarazione universale dei diritti umani data del 10 dicembre del ’48.
L’elenco dei diritti è patrimonio comune dell’umanità e a questi dovremmo
aggiungere ciò che affermava la Costituzione francese del 1793 all’articolo 35…
‘Quando il Governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e
per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile
dei doveri’ .
Tra il 2013
e il 2018, secondo l’ineffabile Organizzazione Internazionale delle Migrazioni,
il numero dei decessi dei migranti, specie nel deserto del Sahara, è stimato a
6.615 persone. Sono migliaia di rivolte che, sommate ai decessi nei mari, sulle
montagne e sulle varie frontiere del mondo globalizzato, formano un corteo
infinito di sogni seminati nel vento e portati,in esilio, a germogliare.
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