Pubblichiamo la trascrizione dell'incontro «Economia e
guerra», seconda parte di un dibattito intitolato «Guerra o rivoluzione. Capire
la guerra per capire come combatterla», tenutosi durante il festival di Derive
Approdi di fine settembre. Gli interventi di Christian Marazzi, Rossana De
Simone e Andrea Fumagalli, che dialogano con le relazioni di Maurizio Lazzarato
e Cristina Morini che li hanno preceduti, si inseriscono in una riflessione che
abbiamo portato avanti con Transuenze negli ultimi mesi. Abbiamo chiesto ai
relatori se la palese tendenza al riarmo a cui abbiamo assistito negli ultimi
mesi possa preludere ad un ritorno al keynesismo militare come modalità di
rilancio del ciclo economico. Bisogna naturalmente intendersi sul concetto di
«keynesismo militare», concetto utilizzato più per eredità storica che per
correttezza formale. Quello che ci interessa capire è in che modo il «ritorno»
dello Stato al centro dei processi regolativi per coniugare ciclo economico e
interessi di difesa nazionale (quello che è stato definito «nuovo capitalismo
politico») e il tentativo (se c'è davvero) di ricostruzione di nuovi blocchi
sociali (attorno alla stessa questione della guerra?),si coniugano con le
fibrillazioni geopolitiche ed una guerra scoppiata nel cuore dell'Europa.
* * *
Christian Marazzi Il capitalismo è nato come atto di guerra, la
privatizzazione dei beni comuni è stata pura violenza contro coloro che fino a
quel momento potevano disporne e vivere grazie ad essi. Sono d’accordo con
Maurizio Lazzarato quando ribadisce la centralità della questione monetaria,
nella fattispecie del dollaro, e che la globalizzazione ha camminato di pari
passo con la dollarizzazione, con qualche sfumatura negli ultimi dieci anni che
andrebbe tenuta in considerazione per spiegare anche lo sbocco bellico
nell’Europa centrale. Cercherò di rispondere alla domanda sul keynesismo
militare in modo non del tutto organico perché la questione è complicata. Siamo
certamente in una situazione in cui il ciclo economico è ostaggio del ciclo
bellico, tanto per mettere le cose in chiaro sin da subito. Ci troviamo di
fatto in una fase di militarizzazione dell’economia, di anno in anno le spese
militari crescono sempre di più. Pensiamo solo al ciclo economico e monetario
di questa guerra. Andrea Fumagalli ha scritto su «Effimera» un testo molto
preciso sulla speculazione in Borsa nel mercato del gas e del petrolio, che
spiega il rincaro dei prezzi a cui stiamo assistendo. È una specificità della
privatizzazione come parte costituente del capitalismo liberista degli ultimi
30 anni, che fa sì che oggi i prezzi delle materie prime siano in forte rialzo
ciò che, di conseguenza, permette il finanziamento degli armamenti russi: la
vendita del gas procura liquidità per finanziare l’industria bellica. E
l'Europa, a cominciare dalla Germania, reagisce aumentando le spese militari.
In questo modo il cerchio si chiude. Dunque, ciclo economico e ciclo bellico
sono intimamente collegati. In questo momento ci troviamo in una fase che
qualcuno ha definito come «sinergia distruttiva»: da una parte l’escalation
bellica, dall’altra la recrudescenza della politica monetaria, a partire dalla
Fed, due fattori che camminano in parallelo o addirittura in sovrapposizione.
Le decisioni della Fed di aumentare i tassi di interesse stanno trainando tutte
le banche centrali del mondo, con effetti recessivi su scala globale di cui
dobbiamo avere paura perché è una sorta di guerra economica a noi tutti, alla
moltitudine. È una guerra non guerreggiata, bensì monetaria contro la
popolazione. È da poco uscito uno studio sugli effetti della crisi del 2008
secondo cui le fasce più povere della popolazione hanno impiegato dieci anni a
riprendersi dagli effetti nefasti di quella recessione. Paradossalmente, è
stata minore la durata delle problematiche economiche della crisi pandemica
anche grazie alle forme di welfare corrisposte durante il dilagare della
pandemia, che hanno permesso di contrastare gli effetti più negativi. Il
problema è che non appena l'economia si è ripresa è arrivata la stangata
monetaria che potrà avere degli effetti di lunga durata. Se vogliamo parlare di
keynesismo militare dobbiamo spiegarlo ricomprendendolo nell'economia nel suo
insieme. Le tensioni militari, infatti, se è vero che sono espressione delle
mutate relazioni di potere sul piano mondiale, si iscrivono dentro un sicuro
rallentamento dell'economia mondiale. Citando alcuni dati, ad esempio, nel 2021
le esportazioni globali rispetto al Pil sono scese al di sotto del livello
raggiunto nel decennio post-crisi del 2008. Tra le motivazioni del
rallentamento economico che stiamo vedendo, come già abbiamo accennato sopra,
possiamo citare la stretta monetaria o la sospensione dei sostegni statali ai
redditi erogati durante la pandemia. In controtendenza a tutto ciò, non
dobbiamo dimenticare che negli Usa l’amministrazione Biden ha promosso con il
«Biden-Harris Inflation Plan» dei nuovi investimenti anticiclici di tipo
keynesiano classico, infrastrutturale, volti a favorire la produzione di
semiconduttori, la riconversione ecologica, la decarbonizzazione con una carbon
tax del 15% sui profitti delle multinazionali. Nella riflessione sul keynesismo
militare e sul come contrastarlo, questa iniziativa americana può esserci utile
perché suggerisce che sono possibili altri tipi di investimenti oltre a quelli
bellici. In poche parole, non esiste solo il keynesismo militare. L'aumento dei
tassi d'interesse e il contestuale rafforzamento del dollaro come conseguenza
della politica monetaria americana (che sta trainando tutti i tassi di
interesse nel resto del mondo) dimostrano come il dollaro sia ancora centrale:
se è vero che negli ultimi dieci anni ha perso un po' del suo peso, visto e
considerato che le riserve valutarie denominate in dollari sono passati dal 70%
al 58%, nessun'altra valuta di riserva è riuscita a contrastarla. Il
rafforzamento del dollaro si spiega se pensiamo al fatto che gli Usa non
possono permettersi di non avere il resto del mondo vincolato al suo debito
pubblico, all'enorme debito commerciale, a maggior ragione in un’economia in
cui la spesa militare accrescerà il debito ancora di più. La forza del dollaro
va anche interpretata alla luce di questa ibridazione tra keynesismo militare e
infrastrutturale. Bisogna inoltre vedere gli effetti dell'aumento dei tassi di
interesse e del rafforzamento del dollaro sulle economie dei paesi che hanno il
debito denominato in dollari, come abbiamo già avuto modo di vedere in Sri
Lanka. Quanti altri paesi rischiano lo stesso? In che misura il keynesismo
militare è in grado di contrastare la crisi di quei 53 paesi che secondo
l'«Economist» sono a rischio bancarotta? Un’ultima cosa che mi sembra
importante ricordare: gli effetti dell'inflazione delle materie prime in Europa
sono devastanti, mentre c'è un forte aumento delle entrate dei produttori di
greggio. Le misure di austerità sui consumi di gas dovranno essere
controbilanciati da forti investimenti. In questo caso il keynesismo militare
in Europa potrebbe fungere da antidoto agli effetti dei cali del consumo energetico.
Inoltre, per contrastare e ridurre l'inflazione, l'aumento dei tassi di
interesse dovrebbe essere ben maggiore: secondo alcune stime, in Europa
dovrebbe aumentare tra l'8% e il 12% per avere un effetto reale. L'economista
gesuita francese Gaël Giraud sostiene che la Bce si stia confrontando con un
vero problema: continuare a comprare debito italiano, col rischio di favorire
l’inflazione, oppure comprare debito senza creare nuova liquidità reinvestendo
il rimborso del vecchio debito? Il rischio di una spaccatura dell'Eurozona è
forte, qualcosa che abbiamo già vissuto ai tempi della Grecia. Si ritorna a
parlare, ad esempio, della creazione di una zona del marco (questa soluzione
alternativa esiste già dal 2012). È uno scenario da non sottovalutare.
Rossana De Simone Innanzitutto bisogna dire che noi siamo in guerra e
viviamo in una economia di guerra. Secondo il report Nato 2022, il rapporto tra
spese militari e Pil in Italia è pari all’1,54 del Pil, mentre, secondo il
Ministero della difesa, le spese autorizzate dalle varie leggi di bilancio dal
2016 in poi registrano un trend in crescita in termini assoluti, con un picco
nel 2022, anno in cui le spese finali si avvicinano ai 28 miliardi. È tuttavia
necessario ricordare che il settore della Difesa si avvale di finanziamenti
provenienti dal Mef e Mise, a cui bisogna aggiungere quelli necessari per le
missioni internazionali all'estero. Le missioni militari quest’anno hanno
subito un incremento di costi complessivi, di uomini e mezzi sul fronte
est-europeo in funzione anti-russa. Un'ulteriore conferma che siamo pienamente
dentro la guerra russo-ucraina. Il ventunesimo secolo inizia con la
dichiarazione del presidente Usa George Bush:«È la prima guerra del XXI secolo.
Guideremo il mondo alla vittoria». Le Torri gemelle, crollate in un contesto di
gravi crisi, costituiranno la premessa della dottrina sulla guerra perenne e
preventiva contro il «terrore», teorizzata da Bush in aperta violazione del
diritto internazionale. L'ex presidente creò il Dipartimento per la sicurezza
interna che si tradusse in più repressione, più limitazioni delle libertà
personali e più spesa militare, con l’obiettivo di aumentare gli investimenti
nello sviluppo di sistemi tecnologici per la sorveglianza e controllo del
territorio. Coerente con le ambizioni unilaterali, Bush si ritira da vari
trattati e protocolli internazionali: da quello riguardante le restrizioni del
traffico di armi leggere al progetto che mirava ad inserire meccanismi di
controllo nel contesto della Convenzione sulle armi batteriologiche; dalla
messa al bando dei test nucleari, sino al ritiro dal Trattato Abm per poter
avviare il progetto di difesa nazionale missilistica (Nmd). Da allora, la
maggior parte degli Stati hanno iniziato non solo ad utilizzare e «consumare»
le nuove tecnologie della sicurezza ma anche a produrle, creando un fiorente
mercato che occupa diversi settori legati alla information security. In
Italia, sempre in quegli anni, grazie all’amicizia con Bush, Berlusconi
sottoscrive il Memorandum d’intesa tra il Governo della Repubblica italiana e
il Governo dello Stato di Israele per sugellare una relazione basata sulla
reciproca cooperazione militare e politica. La concezione securitaria dello
Stato di Israele è, per il neoliberismo, un modello da imitare: basandosi sulla
gestione della paura e sul conflitto sempre aperto, permette di accelerare il
processo di erosione dello stato di diritto e la fuoriuscita dalla democrazia.
Per entrare nel merito dell’intervento che mi è stato richiesto, utilizzo tre concetti
chiave: crisi, deterrenza e trattati o accordi nazionali/internazionali. Il
concetto di crisi posto in relazione alla guerra può essere articolato in
diversi modi: crisi monetaria, economica, finanziaria, ambientale ecc. Se
prendiamo ad esempio l'agenda pre-elettorale del presidente Usa Joe Biden, si
vede che pone l’enfasi sull’intenzione di «ripristinare l’America» al suo ruolo
di arbitro del sistema internazionale partendo da alcuni elementi: necessità di
reagire alla crisi della globalizzazione, a quella dei valori occidentali e di
fermare il declino degli Usa. Non a caso i suoi primi interventi si sono basati
sulla dicotomia tra democrazia e oligarchia che serviva a definire la Russia un
paese dove vige un regime oligarchico. Con questo Biden annunciava la possibile
apertura di un conflitto il cui preludio era possibile immaginare dalle
esercitazioni congiunte tra Ucraina e Nato dopo il ritiro delle truppe
statunitensi dall'Afghanistan. Per quanto riguarda il secondo concetto, ci si
dovrebbe domandare cosa sia la cosiddetta deterrenza strategica. Secondo la
concezione militare un mondo senza deterrenza non è un mondo sicuro. In
generale la deterrenza nucleare viene messa in relazione alla teoria dei
giochi, ovvero alla ricerca di un equilibrio tra varie nazioni che hanno a
disposizione l’arma nucleare. Fino a qualche anno fa gli Usa erano riusciti a
rompere l’equilibrio esistente con la creazione di un sistema missilistico
capace di intercettare altri missili balistici con base a terra, lanciati da sottomarini
e ordigni nucleari lanciati da aerei. Con lo scoppio della guerra, la Russia ha
cancellato la superioritá americana con lo sviluppo della tecnologia nei
missili ipersonici. Nel mese di maggio Putin ha testato il primo missile da
crociera ipersonico Zircon non intercettabile dal sistema antimissilistico
americano perché capace di viaggiare a velocità nove volte superiore quella del
suono (oltre tre chilometri al secondo). La Russia, come la Cina e gli Usa, ha
dimostrato grandi avanzamenti nella ricerca e sperimentazione nel campo delle
nanotecnologie, materiali e intelligenza artificiale entrando di fatto in
quello che viene definito il dominio dello spazio e del cyberspazio. È indubbio
che la Russia sia stata la prima a dimostrare la piena operatività del suo
sistema di missili ipersonici. La rincorsa alla superiorità tecnologica avvalla
le richieste di Stati di aumentare le spese militari non solo nella ricerca e
sviluppo, ma anche per aumentare le capacità produttive delle loro industrie
(non solo quelle belliche vista la necessità di creare sostenibilità lungo la
catena del valore) per essere competitive. Gli Stati Uniti si sono resi conto
da tempo che il decentramento produttivo, fenomeno per cui i processi
produttivi vengono affidati a fornitori esterni, ha procurato un effetto
boomerang a vari livelli. In un documento sulla sicurezza nazionale, Biden ha
sostenuto che «la Cina è l’unico attore che intende riformare l’ordine
internazionale e che ha le risorse economiche, diplomatiche, militari e tecnologiche
per farlo»; eppure, ironia della sorte, il caccia multiruolo F-35, costruito in
una miriade di Stati, ha utilizzato componentistica cinese. È evidente che gli
Stati non hanno bisogno solo di salvaguardare le aziende della difesa, ma hanno
bisogno di tutta la capacità tecnologica espressa dai colossi hi-tech nel campo
dell’intelligenza artificiale. In Cina il presidente Xi Jinping ha incontrato i
colossi del web per discutere della sicurezza online e per impedire che vi sia
una violazione delle regole antitrust. Ad alcune aziende che si occupano di
mining di criptovalute ha chiesto di convertirsi alla produzione di
componentistica e semiconduttori. Anche la Cina non può fare a meno di siglare
un accordo finalizzato a bilanciare gli interessi del governo e, a livello
governativo, di fare entrare nel governo scienziati con esperienze industriali
nei settori ad alta tecnologia. Per finire sui trattati, accordi o leggi,
entrano in gioco dinamiche decisionali. Si susseguono governi che entrano ed
escono dai trattati cambiano norme secondo particolari convenienze geopolitiche
incuranti delle conseguenze sugli equilibri fra Stati. Accordi o trattati non
dovrebbero sottostare agli interessi particolari degli Stati come accaduto
sotto il governo di Donald Trump. L’ex presidente ha ritirato gli Usa dal
Trattato Onu sul commercio delle armi perché convinto di poter riequilibrare la
bilancia commerciale aumentando le esportazione di armi (si parla di un aumento
del 25%) e il fatturato delle imprese (si stima del 41%). In realtà questa
soluzione non è riuscita nell’intento che si era prefissato Trump. Quindi
riflettere sul legame fra tecnologia e sistemi di sorveglianza e controllo,
tecnologia e apparati di potere, tecnologia e capitalismo, significa mettere al
centro il problema della libertà.
Andrea Fumagalli
Siamo
tutti d’accordo nel considerare la guerra come atto economico consustanziale al
capitalismo, fa parte del suo Dna. Nei 250 anni di storia del capitalismo ci
sono stati momenti più o meno bellicosi, ma i periodi a più alta tensione si
sono verificati nel Novecento. Da un punto di vista formale ma non sostanziale,
possiamo dire che l'unica eccezione è il periodo fordista post Seconda guerra
mondiale, a cui è corrisposto un equilibrio geopolitico basato su due blocchi e
che ha portato i paesi a capitalismo avanzato a non tenere al primo posto la
guerra per rilanciare l'accumulazione. Questo non significa che in questo
periodo la guerra non ci sia stata, nel resto del mondo era ben presente.
Non
credo sia un caso che la crisi del fordismo ha riacutizzato e accelerato la
tensione bellica, con fattori che si sviluppano in ambiti locali per poi
assumere connotati globali. Tutto ciò avviene in parallelo con il processo di
globalizzazione dell'accumulazione. Si potrebbe proporre questa tesi: nel ‘900,
tra I e II guerra mondiale, la guerra è servita come strumento di ripresa
dell'accumulazione originaria. La distruzione materiale e umana richiede un
processo di ricostruzione. Oggi, dagli ultimi 50 anni in poi, la guerra non
svolge più esclusivamente la funzione di ricreare le basi per un’accumulazione
capace di generare nuove forme di crisi e di ricchezza, ma essa stessa è
diventata un modo di produzione capitalista. Perché? Mi convince l’analisi di
Maurizio Lazzarato ma ho qualche perplessità su due aspetti. Il primo è che è
vero che il ‘900 è stato il secolo della dollarizzazione e dell’egemonia, che
implicava quindi una definizione su scala globale di un mondo unipolare o
univalutario, sancito dagli accordi di Bretton Woods e che ha origine con la
crisi dell’impero inglese, le crisi bancarie etc; ma gli ultimi 20 anni sono
caratterizzati dalla crisi del dollaro, processo che richiede una reazione di
cui la guerra Russia-Ucraina ne è espressione.
Il
secondo aspetto è il seguente: solo oggi probabilmente possiamo cogliere un
parallelismo tra la guerra e l'attività speculativa, in quanto strumenti di
produzione economica. Speculazione e guerra sono quindi due facce della stessa
medaglia. L'attività speculativa è il motore dell’attività capitalistica, con
il ruolo egemone dei mercati finanziari che intervengono nel definire le forme
di finanziamento della produzione, soprattutto per quanto riguarda quella
intangibile, le forme di assicurazione sociale su scala distorta, selettiva e
iniqua (pensiamo ad esempio ai fondi pensioni e interviene pesantemente nella
distribuzione ineguale della ricchezza: plusvalenze, ruolo dei moltiplicatori
finanziari che creano domanda distribuita in maniera non equa, a differenza di
quanto accadeva col moltiplicatore keynesiano basato sulla spesa pubblica in
deficit. La speculazione finanziaria ha creato degli oligopoli, esattamente
come nel caso della produzione bellica, che sono in grado di intervenire
pesantemente sulle soggettvità, sulle condizioni di vita, sui meccanismi di
specializzazione e selezione, di produzione e così via.
Tutto
ciò è stato possibile perché è venuto meno il ruolo della politica monetaria e
delle banche centrali. È paradossale che si parli di autonomia delle banche centrali
nel momento in cui non sono mai state così dipendenti e supine agli sviluppi
delle convenzioni speculative internazionali, create dalle grandi imprese
finanziarie. Si tratta di una delle cause interne della crisi del dollaro:
all'aumento di peso delle borse americane, diminuisce la capacità di sviluppare
una politica valutaria in grado di mantenere l’egemonia del dollaro. Oltre a
ciò, ocorre considerare il fatto che gli Stati Uniti hanno utilizzato
strumentalmente il dollaro come fonte di finanziamento del proprio debito
estero, fattore strutturale dell'economia americana, al fine di creare un
afflusso di capitale che potesse compensare il saldo negativo della bilancia
commerciale. Inoltre, soprattutto negli ultimi tempi, è utilizzato come fonte di
finanziamento del debito interno, della Fed, del bilancio pubblico.
La
crisi della dollarizzazione mette in pericolo la capacità degli Usa di riuscire
a mantenere nel futuro questo meccanismo di riequilibrio perché stanno venendo
meno alcuni strumenti di egemonia militare, sociale ed economica da sempre
utilizzati. Ad esempio, l'egemonia militare è stata messa in discussione dal
Vietnam in poi; quella economica dalla perdita del primato tecnologico, con
l'avvento del paradigma tecnologica dell'Ict che negli anni '80 ha favorito per
un primo periodo il Giappone, ricaduto poi in una situazione di crisi e
stagnazione per via delle scelte di politiche e strategie industriali che non
hanno pagato. Il tentativo di superare la rigidità della fabbrica con l'iper-taylorismo
(toyotismo e il just in time), non ha funzionato ed è stato superato dal
modello della subfornitura internazionalizzata della produzione a flussi
statunitense, basata su una catena di valore con alla testa la tecnologia, i
brevetti e i flussi finanziari, che esternalizza i mezzi di produzione
cambiando totalmente la logica del sistema taylorista-fordista.
Questi
sono elementi che hanno favorito e, allo stesso tempo, sono stati favoriti dal
processo di finanziarizzazione e privatizzazione. Dal momento stesso in cui gli
Stati Uniti hanno recuperato parzialmente l’egemonia produttiva-tecnologica
grazie al controllo dei flussi di globalizzazione (in seguito al Washington
Consesus), sono venuti fuori i tentativi di affrancamento economico che hanno
ridotto il livello di assoggettamento economico e sociale di paesi come Cina e
India. Da qui in avanti, gli Stati Uniti hanno due strade possibili: accettare
l'idea di mondo multipolare o passare dall'assoggettamento alla coercizione.
Qui la guerra gioca un ruolo fondamentale: essa è la continuazione della
speculazione finanziaria con altri mezzi. Il controllo dei flussi finanziari
aveva una funzione di regolazione perché è vero che siamo in piena crisi del
diritto internazionale, ma questo non vuol dire che viviamo in un mondo senza
regole perché esiste una gerarchia economica, una concentrazione nei mercati
finanziari come mai prima d'ora era successo nella storia del capitalismo.
Questo significa che c'è una regola: la legge del più forte.
Questa
situazione è oggi in pericolo: gli Stati Uniti cercano di superare la crisi
della dollarizzazione utilizzando l'euro e l'Europa come nemici strumentali. La
crisi attuale è contro l'Europa, per minare la sua capacità di diventare un
soggetto forte, possibilità assai remota alla luce della governance europea
attuale. Non si può creare egemonia soltanto con una politica monetaria di
stampo neoliberista o monetarista, sarebbe necessaria anche una politica
fiscale, sociale e industriale per diventare una forza geopolitica a tutto
tondo. Cosa che è stata in grado di fare la Cina: come già scriveva Arrighi, è
stata capace di controllare il processo di finanziarizzazione e di costruire
un'egemonia tecnologica in grado di definire delle specializzazione produttive
ad alto valore aggiunto.
L'Europa
rischia di passare da capro espiatorio, la guerra è dentro i suoi confini. È
interessante vedere come si evolverà la situazione, al vertice di Samarcanda di
settembre c'è stata una certa compattezza per un ordine non occidentale, anche
se permangono delle contraddizioni. La situazione è pericolosa perché c'è molta
instabilità, molta incertezza che favorisce la speculazione finanziaria.
Inoltre questa guerra viene utilizzata per prevenire qualsiasi tensione sociale
in Europa e negli Usa. In questo ultimo anno, infatti, c'è stata una ripresa
dei movimenti del lavoro che hanno strappato un aumento del salario minimo ed
una ridefinizione della struttura del mercato del lavoro americano. Queste
tensioni richiedono un controllo interno, è stata la lezione di fine anni '70,
con il presidente della Fed Volcker: aumentare i tassi di interesse per
rafforzare il dollaro, se da un lato rischia di penalizzare i mercati
finanziari, dall'altro penalizza le richieste di progresso sociale e
lavorativo.
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/economia-e-guerra
Nessun commento:
Posta un commento