L'Antropocene può essere definito come l'era del pianeta Terra in cui una singola specie (Homo sapiens sapiens) ha preso il sopravvento su tutte le altre e ha tanto rapidamente e radicalmente trasformato l'intera ecosfera da mettere in pericolo la propria stessa esistenza.
Tra i fattori fondamentali di questa trasformazione vengono in genere
indicati: lo sfruttamento sempre più intensivo da parte di Homo
sapiens delle risorse energetiche e materiali e delle catene
alimentari; la crescita esponenziale della popolazione umana su tutto il
pianeta; il conseguente inquinamento e lo stravolgimento dei principali
cicli biogeochimici. In questo quadro viene spesso trascurato quello che è
l'effetto forse più drammatico: la trasformazione repentina e radicale
degli ecosistemi microbici e virali che costituiscono l'essenza della biosfera
e che sono i veri motori dell'evoluzione biologica da oltre 4 miliardi di anni.
Una interpretazione difficilmente contestabile è quella secondo cui tutti
questi effetti, tra loro interconnessi, sono conseguenza della scelta da
parte di Homo sapiens di usare la ragione a fini di dominio e
la techné quale strumento fondamentale in tal senso,
trascurando o comunque sottovalutando gli effetti che questa scelta avrebbe
avuto sull'Altro (sugli altri esseri umani, sugli altri esseri viventi, sul
pianeta stesso).
Se riconosciamo in questa scelta l'essenza stessa (anche spirituale,
essenzialmente connessa al concetto di Ybris, di superamento dei
limiti imposti dalla Natura o dagli dei) dell'Antropocene, possiamo meglio
discernere da un lato gli strumenti più potenti introdotti dall'uomo ai fini
del dominio, dall'altro gli effetti più negativi e potenzialmente distruttivi
del loro utilizzo, che sono sempre più evidenti e potenzialmente
irreversibili.
Per quanto concerne le tecnologie che hanno provocato i maggiori danni e che
potrebbero provocare (se fuori controllo) effetti catastrofici, è sufficiente
citare: l'utilizzo dei combustibili fossili a partire dalla fine del '700;
l’agricoltura e la zootecnia trasformate in industrie tecnologiche
intensive per produrre merci (con tendenza a eliminare i coltivatori);
l'utilizzo della chimica in campo agricolo e industriale; la scoperta e l'uso
dell'energia nucleare sia in campo industriale che militare; la scoperta e
l'utilizzo delle informazioni contenute nel genoma sia umano, sia di altre
specie viventi (biotecnologie genetiche); nanotecnologie, informatica,
cibernetica, intelligenza artificiale.
Ma quando è cominciato tutto questo e quali sono stati i momenti di massima
accelerazione di questa drammatica e rapidissima (su scala evolutiva)
trasformazione dell’ecosfera e in particolare della biosfera operata
da Homo sapiens ?
Le grandi rivoluzioni ambientali e culturali della storia umana
Alcuni autori hanno indicato come momenti-chiave della rapidissima
accelerazione delle strategie di dominio e sfruttamento del pianeta da parte
di Homo sapiens due epocali trasformazioni dell’ambiente:
la rivoluzione agricola/neolitica di circa 10.000
anni fa e quella industriale e chimica degli
ultimi due secoli, che lo hanno progressivamente allontanato dalla
Natura, incidendo prepotentemente sugli stessi processi evolutivi e
contribuendo alle principali trasformazioni ecologiche ed epidemiologiche della
storia. Sarebbe importante studiare a fondo i principali fattori
biologici, ecologici, nutrizionali e culturali che possano spiegare in
che modo tali drammatiche trasformazioni epocali abbiamo interferito e
interferiscano sull’evoluzione di Homo sapiens, il quale sul
piano biologico e in particolare genetico rappresenta l'ultimo virgulto di un
albero genealogico complesso, quello degli ominidi, appartenente all’ordine
dei primati, ma al contempo è diventato qualcosa di
radicalmente altro.
Ci limiteremo, in questa sede, a prendere in considerazione le grandi
coordinate storiche e concettuali.
La rivoluzione agricola ebbe inizio circa 10-12 mila anni
fa, facendo la sua comparsa, probabilmente in modo autonomo, in varie zone del
pianeta: dapprima nel Vicino Oriente, poi in Cina e in Centro e Sud America per
infine diffondersi nel resto del mondo. Intorno al 2000 a. C. la quasi
totalità della nostra specie viveva ormai di agricoltura: un modus
vivendi che si sarebbe conservato fino a pochi decenni fa. Solo alla
fine del secolo scorso, del resto, il rapporto tra esseri umani viventi in aree
rurali e inurbati (spesso in immense megalopoli) è drammaticamente
cambiato in favore di questi ultimi. Un cambiamento epocale che ha avuto come
causa fondamentale la rivoluzione industriale, che ebbe inizio
in Inghilterra alla fine del 18° secolo e che in circa due secoli ha
trasformato il pianeta (o piuttosto la crosta terrestre) a causa dell'uso
generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dell'utilizzo
di combustibili fossili, ma anche e soprattutto della sintesi e
dispersione in tutta l’ecosfera (litosfera, atmosfera, idrosfera, biosfera) e
nelle catene alimentari di migliaia di molecole potenzialmente tossiche,
in quanto prodotte artificialmente e non derivanti da un processo di
co-evoluzione molecolare durato miliardi di anni.
La rivoluzione agricola
Il giudizio storico sulla Rivoluzione neolitica è alquanto
vario. Se alcuni studiosi vi hanno riconosciuto il vero inizio della
civiltà umana, altri non sembrano aver dubbi sul fatto che l'invenzione
dell'agricoltura e della zootecnia siano state, almeno dal punto di vista
biologico e, in prospettiva, sanitario, per usare le parole del famoso (e
invero piuttosto eccentrico) antropologo Jared Diamond “il peggior
errore nella storia della specie umana” [1].
Di fronte a valutazioni così differenti, sarebbe importante affrontare la
tematica in modo equilibrato, non ideologico e scientificamente fondato.
Cominciamo con il sottolineare che probabilmente non si è trattato di un
momento di rapida trasformazione, come suggerirebbe il nome. Lo attestano
alcuni esempi di compresenza collaborativa tra gruppi di
cacciatori-raccoglitori e insediamenti di coltivatori-allevatori. Uno studio recentemente
comparso su Science, condotto all’interno di siti
archeologici sull’isola di Wright, ha portato, ad esempio, alla luce resti
di grano probabilmente coltivato già 2000 anni prima dell’inizio della
supposta Rivoluzione neolitica nel nord d’Europa [2].
L’ipotesi più probabile è che la domesticazione di piante e animali
ebbe inizio contemporaneamente in molte aree tropicali e subtropicali
grazie ai cambiamenti climatici avvenuti tra Pleistocene e Olocene e
fu favorita dal progressivo incremento delle temperature e dell’umidità e
dalla presenza in quelle zone di cereali selvatici dotati di alte potenzialità
nutritive [3]. In Mesopotamia si iniziò a coltivare grano ed orzo (Hordeum spontaneum) 10-12.000
anni fa; in Cina settentrionale e in Giappone la soia 7-9000 anni fa.
Il mais fu domesticato circa 8700 anni fa in Messico dove iniziò
anche la coltivazione della zucca (Cucurbita argyrosperma) [4].
I primi insediamenti di agricoltori cominciarono inoltre a costruire villaggi,
a fortificarli e a convivere con altri animali via via domesticati.
È probabile, insomma, che il passaggio dalla “caccia e raccolta”
all’agricoltura non sia stato sufficientemente approfondito: vi sono prove
consistenti che persino la foresta amazzonica sia stata una foresta coltivata e
Gary Nabhan, il massimo studioso dell’agricoltura degli indiani americani, nel
suo libro The Desert Smells like Rain, riporta che agli europei
occorsero due secoli per accorgersi che il Deserto dell’Arizona era stato
coltivato.
È comunque evidente che questi “esperimenti” non ebbero effetti immediati
né sui singoli individui, né sulle prime popolazioni stanziali, né sugli
ecosistemi. Le conseguenze dei cambiamenti nello stile di vita e in
particolare del passaggio da una vita nomade e direttamente correlata alle
modifiche stagionali ad una stanziale si sarebbero manifestate nella
fisiologia degli umani e negli equilibri complessi degli ecosistemi
microbico-virali dopo millenni.
D’altro canto bisogna sottolineare che soltanto da un decennio a questa parte
siamo in grado di studiare e comprendere il progressivo impatto che questi
cambiamenti avrebbero determinato soprattutto sugli ecosistemi
microbico-virali interni agli organismi complessi (microbiota) e,
di conseguenza, sul loro metabolismo e più in generale sulla loro complessa
fisiologia.
È necessario ricordare, a questo proposito, che con il termine microbiota si
deve intendere l’insieme degli ecosistemi microbici endogeni presenti negli
organismi superiori (il più importante dei quali è quello intestinale). Con il
termine microbioma ci si dovrebbe invece riferire all’enorme
genoma associato al microbiota stesso e composto da milioni di
geni: migliaia di volte più numerosi dei geni self,
specie-specifici, e spesso dotati di potenzialità segnaletiche importanti nel
controllo delle principali funzioni e persino dello sviluppo degli organismi
complessi e in particolare dell’uomo. Un numero sempre più significativo di
studi dimostra infine l’importanza del viroma, cioè dei virus
associati al microbiota, che sono in grado di svolgere un ruolo
importante nel “trasferimento orizzontale” di informazioni genetiche
all’interno della biosfera (HGT/Horizontal Gene Trasfering) non
solo tra microrganismi, ma probabilmente anche tra gli organismi superiori che
li contengono. È anzi probabile che le malattie infettive siano un epifenomeno,
dalle conseguenze a volte drammatiche per l’uomo, di questo meccanismo
pro-evolutivo fondamentale [5].
Nell’ultimo decennio, grazie all’enorme progresso degli studi omici,
si è compreso che i cambiamenti nella composizione del microbioma si
sono andati accumulando man mano che gli ominidi si sono andati diversificando
e che negli ultimi millenni, proprio a causa dei rapidi cambiamenti di
vita, si è registrata una drammatica perdita della bio-diversità microbica
ancestrale [6].
In questo contesto vanno interpretati i numerosi studi che documentano
l’esistenza di una serie di taxa batterici fondamentali che
compongono il nucleo ancestrale del microbiota/microbioma condiviso
da tutti i primati, Homo sapiens compreso [7];
dimostrano come il microbiota delle rare popolazioni
dedite ancora oggi alla caccia e raccolta, come gli Hadza della
Tanzania, presenti una maggiore biodiversità rispetto a quello tipico
delle popolazioni moderne e sia essenzialmente
composto da microorganismi che permettono di sfruttare l’energia e i
nutrienti contenuti nelle fibre vegetali [8]; attestano come
il microbiota/microbioma degli odierni americani mostri un
tasso di cambiamento enormemente rapido rispetto a quello calcolato sulla base
del tempo evolutivo che separa Homo sapiens dalle scimmie
antropomorfe ed è più diverso da quelli di molte popolazioni africane (Malawi)
di quanto questi ultimi lo siano rispetto a quello degli scimpanzé (bonobo).
Le conseguenze di questa sempre più rapida riduzione di bio-diversità e
modifica nella composizione del microbiota/microbioma umano
sono state inizialmente associate a disturbi gastrointestinali, obesità e
malattie autoimmuni. Poi però ci si è resi conto del fatto che i microrganismi
opportunistici "moderni" emergenti sono in grado di innescare
risposte dell’immunità adattativa assai diverse da quelle indotte dal set microbiotico
ancestrale: un cambiamento rapidamente progressivo che rende il sistema
immunitario umano meno tollerogeno e più reattivo, alimentando le attuali
“epidemie” di malattie endocrino-metaboliche e immuno-infiammatorie, di
disturbi del neurosviluppo e di cancro [9].
A sostegno della lettura critica di Diamond possiamo citare alcuni passi
tratti da una recente storia dell'alimentazione umana redatta
dall'antropologo Tom Standage: “Perché gli umani siano passati dalla
raccolta e dalla caccia all'agricoltura è una delle domande più antiche e
complesse della storia umana. Si tratta di un vero mistero, perché quel
cambiamento - va detto - peggiorò la vita dell'uomo, e non solo da un
punto di vista nutrizionale… Gli antropologi moderni che hanno
trascorso del tempo in compagnia di gruppi superstiti di
cacciatori-raccoglitori riferiscono che, anche nelle zone più marginali,
dove oggi sono costretti a vivere, la raccolta del cibo esige solo una
minima parte del loro tempo, e comunque molto meno di quanto ne richieda
produrre la medesima quantità di cibo con l'agricoltura. Un tempo si pensava
che l'avvento dell'agricoltura avesse dato all'uomo più tempo da dedicare alle
attività artistiche, allo sviluppo di nuovi mestieri e tecnologie e così
via. Secondo questa tesi l'agricoltura affrancò l'uomo da un angosciante
esistenza alla giornata, tipica dei cacciatori raccoglitori. In
realtà è vero il contrario. L'agricoltura è più produttiva nel senso
che produce più cibo per una data superficie di terra… Ma è meno produttiva se
la si misura in base alla quantità di cibo prodotto per un'ora di
lavoro. In altre parole, è un'impresa molto più faticosa (e) a quanto
sembra i cacciatori raccoglitori erano molto più sani dei primi
agricoltori... Gli agricoltori seguono una dieta meno varia e meno bilanciata
dei cacciatori-raccoglitori… I cereali forniscono sufficienti calorie, ma non
contengono l'intero spettro di nutrienti essenziali. Per questo gli agricoltori
erano più bassi dei cacciatori-raccoglitori… e, studiando i reperti ossei, si è
scoperto che gli agricoltori soffrivano di varie patologie dovute a
malnutrizione, che nei cacciatori-raccoglitori erano rare o assenti, come il
rachitismo (carenza di vitamina D), lo scorbuto (carenza di vitamina C),
l'anemia da carenza di ferro. Inoltre, la loro dipendenza dai cereali
aveva altre conseguenze: gli scheletri femminili spesso mostrano artrite
alle giunture e deformità delle dita dei piedi, delle ginocchia e della regione
lombare, associate all'uso giornaliero della macchina a mano per ridurre
la granella in farina. I resti dentali evidenziano che gli agricoltori soffrivano
di carie, disturbo ignoto al cacciatori-raccoglitori, poiché i carboidrati
delle diete ricche di cereali venivano ridotti in zuccheri dagli enzimi della
saliva durante la masticazione. Anche l'aspettativa di vita, determinabile
sempre dallo scheletro, precipitò, secondo i reperti rinvenuti. L'aspettativa
media di vita passò da 26 anni per i cacciatori-raccoglitori a 19 per gli
agricoltori. Man mano che i gruppi diventavano stanziali e si ingrandivano,
aumentava l'incidenza di malnutrizione, malattie parassitarie malattie
infettive. Considerati gli svantaggi, perché gli esseri umani si diedero
all'agricoltura? La risposta, in sintesi, è che non si accorsero di quel che
accadeva se non quando fu troppo tardi.” [10]
Infine, Tom Standage dimostra, con grande dovizia di esempi, come
praticamente tutti gli alimenti di cui abbiamo fatto uso in questi 10.000
anni abbiano assai poco di veramente “naturale”, essendo il
prodotto di una incalzante “selezione artificiale” e di vere e
proprie innovazioni “biotecnologiche” che hanno, in genere, puntato
a incrementare la produttività e a rendere più facili i raccolti,
fatalmente indebolendo piante e animali e impoverendo, sul piano
nutrizionale gli alimenti stessi. Inoltre e soprattutto, l'invenzione
della zootecnia, dei primi conglomerati abitativi, dei primi sistemi di
irrigazione e il passaggio a una vita più sedentaria avrebbero rapidamente
favorito il diffondersi nella nostra specie delle malattie infettive e
parassitarie, come lebbra, tubercolosi e malaria. Insomma, le trasformazioni
alimentari, degli habitat e degli stili di vita che rappresentarono i primi
passi di quella che ancora oggi definiamo la grande civiltà umana,
determinarono una trasformazione significativa della biocenosi e
soprattutto della micro-biocenosi e, di conseguenza, di quella che il
grande storico della medicina Mirko Grmek aveva definito patocenosi [11].
Un’analisi del tutto analoga era stata del resto proposta alcuni anni prima
dal già citato Jared Diamond, il quale, ricordando come la stragrande
maggioranza delle patologie infettive e parassitarie che hanno funestato negli
ultimi millenni la vita dei nostri più immediati progenitori (malaria,
tubercolosi, influenza, morbillo...) siano delle zoonosi, le aveva
definite uno sgradevole “dono del bestiame” [12]. Si
potrebbe anche parlare di una sorta di vendetta, perpetrata dal bestiame
contro chi lo aveva imprigionato, asservito e costretto a una vita innaturale e
malsana, che avrebbe finito con l'incidere altrettanto negativamente sulla sua
salute e persino sulle sue potenzialità evolutive, visto che sembra ormai
dimostrato che la gran parte degli animali da noi addomesticati e
costretti a una vita innaturale abbiano cervelli più piccoli e sensi meno acuti
e siano affetti da tutta una serie di problemi patologici, tutto sommato non
molto diversi da quelli di cui anche noi siamo affetti (una chiara e fin qui
sottovalutata dimostrazione del fatto che ambiente e stili di vita
(epigenetica/nurture) hanno sulla nostra evoluzione biologica (almeno
nel breve termine) e quindi sulla nostra salute, effetti maggiori della
genetica (nature), come, del resto, dimostra il recente dilagare
delle patologie croniche, a partire dalla pandemia di obesità e diabete 2, che
colpisce gatti e cani in modo simile ai loro padroni, come conseguenza degli
stessi corto-circuiti viziosi (microbico-immuno-infiammatori,
endocrino-metabolici e psico-neuro-immuno-endocrini).
In sintesi, la Rivoluzione neolitica fu la prima
e fondamentale tappa della trasformazione globale dell'ambiente terrestre operata
da Homo sapiens. E avrebbe innescato, come detto in tempi
brevissimi sul piano bio-evolutivo, uno stravolgimento progressivo e
irreversibile di tutti gli equilibri della biosfera e, in
particolare, della micro-bio-sfera, che solo di recente siamo in
grado di comprendere e di riconoscere come causa principale della transizione
epidemiologica in atto consistente nel rapido aumento di tutte le
patologie croniche, endocrino-metaboliche, immuno-infiammatorie, del neurosviluppo,
neurodegenerative e tumorali [13].
Tra gli studiosi che hanno invece proposto una valutazione essenzialmente
positiva della Rivoluzione neolitica possiamo ricordare il
famoso agronomo russo, naturalizzato italiano, Giovanni Haussmann che nel
libro La Terra e l’uomo asserì che soltanto i popoli che
hanno sfruttato la terra in modo dissennato hanno causato la crisi della
propria civiltà, mentre quelli che hanno trovato una simbiosi con la natura
hanno mantenuto per millenni e migliorato le loro colture e culture e
preservato i loro modi di vivere. Una rappresentazione tesa a sottolineare
come la Rivoluzione neolitica avesse potenzialità sia positive
che negative e come quest’ultime siano state piuttosto la conseguenza dell’Ybris che
ha spinto la nostra specie al superamento dei limiti imposti dalla Natura.
Sembra del resto che solo alcuni tipi di organizzazione e sfruttamento
agricolo siano stati veramente devastanti, come dimostrato dal famoso
libro di Franklin H. King Farmers for Forty Centuries che mostrò
come in Cina i contadini abbiano potuto vivere per 4000 anni sugli stessi
terreni senza degradarne la fertilità.
Secondo questi ed altri autori, sostenere che il passaggio all’agricoltura
rappresenti l’inizio dell’Antropocene equivarrebbe ad abbracciare la filosofia
di alcune grandi associazioni ecologiste secondo cui la Natura dovrebbe
essere protetta dall’uomo, la cui presenza è essenzialmente distruttiva. Una
visione ideologica che diventa grottesca quando spinge a istituire parchi come
quello per le tigri del Bengala e a scacciare le popolazioni che per secoli
hanno convissuto con le tigri e le hanno di fatto preservate; o come quello per
gli uccelli, istituito dallo Stato dell’Arizona, di cui raccontava Gary Nabhan,
dal quale furono allontanate le popolazioni indiane che ci vivevano da secoli
(dopo 15 anni un ornitologo vi contò molte meno famiglie di uccelli di una
riserva indiana, oltre la frontiera col Messico, dove gli autoctoni erano
rimasti indisturbati).
Ed è fuor di dubbio che sussistono piccole popolazioni dedite da secoli a
forme di agricoltura assai diverse da quella industriale, caratterizzata da
monoculture e bio-distruttiva. Come gli Hunza dell’Indu
Kush, a lungo considerati il popolo più sano e forte del pianeta, da cui
provenivano i "portatori" delle spedizioni sul Karakorum e
sull’Himalaya che hanno ispirato molte diete, come la Bircher Benner.
Un’altra “innovazione” collegata alla domesticazione di altri animali ha
avuto un impatto rilevante sulla fisiologia di Homo sapiens. I
cacciatori raccoglitori hanno vissuto sulla Terra per un tempo assai più lungo
dei nostri antenati più recenti e, al pari dei primati precedenti, non
utilizzavano il latte di altre specie animali. L’utilizzo di questo da parte
degli agricoltori neolitici ha indotto reazioni fisiopatologiche legate
all’intolleranza delle proteine esogene e del lattosio, che sussistono
tuttora [14]. Inoltre, nel giro di alcuni millenni, si è venuta a
creare una maggior tolleranza al nuovo nutriente, diversa da popolazione a
popolazione, con ulteriore e rapido cambiamento del microbiota/microbioma. Ed è
sempre più evidente che anche il latte animale più “adattato” non può in alcun
modo sostituire per il cucciolo di Homo sapiens quello
materno, ricco di anticorpi specifici e di preziosissime cellule staminali e
che il ritorno all’allattamento materno esclusivo e prolungato sareebbe un
obbligo morale, potenzialmente salvifico per la nostra specie.
Infine, bisogna sottolineare che le selezioni fatte dopo la scoperta delle
leggi di Mendel sono cosa completamente diversa da quelle operate dagli antichi
contadini che dipendevano dalle piante per la sopravvivenza, che le osservavano
giorno dopo giorno, che le modificavano lavorando esclusivamente sul fenotipo,
che si trasmettevano intuizioni ed esperienze per generazioni. Per migliaia di
anni, in questo modo, la terra è stata teatro di un'incredibile moltiplicazione
di biodiversità alimentare: le coltivazioni avvenivano per popolazioni e non
per varietà, e le selezioni si facevano per multitasking e non
per un carattere solo (il che comprendeva anche caratteri nutrizionali, di
gusto, ecc.). Come mostrano le scoperte di Nikolaj Vavilov che individuò, come
culle genetiche originarie delle piante, le regioni caratterizzate da maggior
variabilità delle stesse. E ancora oggi, sulle Ande, i contadini tradizionali
coltivano su piccoli appezzamenti di terra decine di varietà di patate con una
ricchezza nutrizionale incredibile. Dopo la scoperta delle leggi di Mendel si è
avuta invece un’erosione genetica, quale mai prima nella storia, finalizzata
all’aumento delle produzioni commerciabili.
La conseguenza maggiore della Rivoluzione neolitica è
stata certamente il drammatico e progressivo incremento demografico,
soprattutto là dove la proprietà privata della terra ha ridotto la
responsabilità dei coltivatori nelle scelte colturali e nei rapporti con
l’ambiente. Uno studio lo ha dimostrato a partire dall’analisi dei genomi
mitocondriali: dopo aver separato i lignaggi associati ai
cacciatori-raccoglitori e alle popolazioni agricole si è potuto calcolare un
tasso di crescita cinque volte superiore in queste ultime in Europa, Asia
sudorientale e Africa subsahariana. Le stime dei tempi di crescita della
popolazione basate su dati genetici corrispondono inoltre esattamente alle date
delle origini dell'agricoltura, derivate da prove archeologiche [15].
Ma la crescita veramente esponenziale della popolazione umana è stata la
conseguenza della seconda e certamente più drammatica crisi epocale
dell’ecosfera innescata da Homo sapiens: la Rivoluzione industriale e chimica.
La Rivoluzione industriale
La Rivoluzione industriale è stata, al di là di ogni
ragionevole dubbio, la seconda tappa epocale della trasformazione
ambientale e di conseguenza epidemiologica, operata da Homo sapiens.
In genere si distingue tra prima e seconda rivoluzione
industriale. La prima rivoluzione industriale riguardò
prevalentemente i settori tessile e metallurgico. Il suo arco cronologico è
compreso tra 1760 del 1830 e vide l’introduzione delle prime macchine:
la spoletta volante (flying shuttle), inventata nel
1733 in Inghilterra al fine di consentire la tessitura automatica e
la macchina a vapore introdotta, nella sua forma definitiva,
progettata da James Watt, nel 1765. La seconda rivoluzione industriale viene
fatta iniziare intorno al 1870, con l'introduzione dell'elettricità,
della chimica moderna e dei combustibili fossili (in
particolare del petrolio, visto che l’uso esteso del carbone aveva già
caratterizzato la prima rivoluzione industriale) [16].
Sussistono pochi dubbi sul fatto che la rivoluzione
industriale abbia comportato una trasformazione profonda tanto del
sistema economico e produttivo, sociale e politico globale, quanto dell’ecosfera
e, in particolare, dell’atmosfera e della biosfera, con ripercussioni a livello
biologico e quindi epidemiologico e sanitario, ancora impossibili da
valutare (e che gli effetti più drammatici e pericolosi, potenzialmente
irreversibili e fin qui enormemente sottovalutati, concernano
essenzialmente questo livello).
Semplificando al massimo possiamo dire che, in generale, le
valutazioni socio-economiche della Rivoluzione industriale, sono
positive. Mentre per le valutazioni di ambito ecologico il
discorso cambia radicalmente, soprattutto a partire dai dati concernenti
gli effetti globali dell'inquinamento chimico. Riprendendo l’icastica
espressione di Jared Diamond, potremmo affermare che la Rivoluzione
industriale ha rappresentato “il secondo peggior errore nella
storia della specie umana”.
Ma forse, in questo caso, sarebbe più utile per una valutazione
complessiva, distinguere tra gli effetti a breve termine, che furono in
generale positivi e quelli a medio lungo termine (ambientali, climatici,
biologici, ecologici e sanitari) che a questo punto, in assenza di risoluzioni
internazionali, radicali e di grande portata, rischiano di essere
drammaticamente negativi.
Per meglio inquadrare il problema conviene partire, da un brano
interessante. Scrive lo storico dell'economia Antonio Escudero "Non
è affatto esagerato asserire che la Rivoluzione industriale abbia costituito il
cambiamento economico più importante della storia. All'inizio del 18º secolo la
Gran Bretagna e la Francia erano paesi scarsamente popolati. La speranza di
vita dei loro abitanti non superava i 30 anni. La maggior parte
degli Inglesi e dei Francesi erano contadini. Ogni agricoltore produceva
soltanto pochi alimenti. I centri urbani erano piccoli e gli artigiani che vi
risiedevano realizzavano una limitata quantità di beni. Accrescendo la
produttività del lavoro, la rRvoluzione industriale aumentò la produzione
e il consumo pro capite. Da allora la ricchezza dei paesi industrializzati
è aumentata più della popolazione. Quest'ultimo fenomeno ha
indubbiamente rappresentato il cambiamento economico più importante mai
verificatosi nel corso della storia." [17]. E
ancora: "Il tratto più caratteristico delle condizioni
demografiche anteriori alla Rivoluzione industriale era l'elevatissima
mortalità infantile (in media, ogni 1000 bambini 300 o 400 morivano entro
il primo anno di età, mentre oggigiorno nei paesi sviluppati tale cifra è
ridotta al 10 o 15 per mille). Nelle società pre-industriali la
mortalità raggiungeva livelli catastrofici: in certi anni scompariva il
200-300 per mille della popolazione. Queste impennate della mortalità
dipendevano da cattivi raccolti o da epidemie. Era
sufficiente qualche anno consecutivo di carestia, perché una popolazione
denutrita fosse preda di malattie che la decimavano. La scarsa igiene
e il sovraffollamento contribuivano a provocare violente epidemie che la
medicina dell'epoca non era in grado di curare." [18]
Si tratta di una valutazione alquanto positiva e non è certamente un caso
che l'autore sia un'economista. Ma è innegabile che i dati citati siano
veritieri e che la Rivoluzione industriale contribuì,
almeno inizialmente, a risolvere in Europa grandi problemi sociali,
economici, demografici e alimentari, permettendo un'enorme sviluppo della
civiltà umana, anche sul piano culturale e scientifico. Uno sviluppo dovuto
però, in gran parte, all’enorme furto e saccheggio delle risorse, iniziato dal
1500 con la colonizzazione delle Americhe, dell’Africa e di buona parte
dell’Asia, che permise l’accumulazione necessaria allo sviluppo del capitalismo
industriale e dell’usura sistematica contro la natura e gli strati
sociali inferiori e che comportò la morte di milioni di esseri umani che
avevano vissuto per secoli in equilibrio simbiotico con la natura, senza
problemi di sovra-popolazione o di fame. Come mostra il saggio di Marshall
Sahlins L’economia nell’età della pietra.
Inoltre, i possibili effetti veramente dannosi sul piano ecologico,
biologico e addirittura bio-evolutivo e sanitario, del rapidissimo e
sempre più globale sviluppo industriale, sono emersi soltanto nell'ultimo
mezzo secolo e persino tra gli scienziati non tutti sono disposti ad ammettere,
come suggerito dal chimico olandese (e premio Nobel) Paul
Crutzen, che l’uomo moderno si è andato trasformando in una vera e propria
forza tellurica distruttiva. I possibili effetti dell'impatto dell'intero
sistema produttivo e commerciale costruito dall'uomo sull’ecosfera e sul
clima, sono, almeno in potenza, talmente catastrofici da imporre una
valutazione critica degli ultimi due secoli di storia e di quello che
molti considerano ancora un modello di sviluppo sostanzialmente
positivo [19]. Per tutti questi motivi sarebbe anche importante per
i medici e in particolare per gli epidemiologi e
i tossicologi (abituati a valutare i rischi e gli effetti dannosi di
specifiche sostanze tossiche e/o di particolari situazioni di esposizione
individuale e collettiva all’inquinamento ambientale), fare riferimento a
una tale rappresentazione storico-ecologica di ampio, amplissimo
respiro, per non rischiare di sottovalutare i veri pericoli della
trasformazione biologica ed eco-sistemica in atto.
Non dovrebbe essere difficile cogliere l’importanza dell'impatto
complessivo che la rapidissima trasformazione ambientale e
climatica indotta dall'uomo in pochi decenni (è quasi superfluo
ripeterlo: un tempo irrisorio in relazione ai processi bio-evolutivi) potrebbe
avere su equilibri biologici, delicati e complessi, formatisi in miliardi di
anni nell’ambito della cosiddetta Rete della vita/Web of Life (per
usare un'espressione famosa coniata da Fritjof Capra) di cui anche l’uomo fa
parte e, di conseguenza, sulla salute umana.
Note
[1] Diamond J Armi, acciaio e malattie. Breve storia del
mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi, 1998.
[2] Smith, O., Momber, G., Bates, R., Garwood, P.,
Fitch, S., Pallen, M., Gaffney, V., Allaby, R. G. (2015). Sedimentary DNA
from a submerged site reveals wheat in the British Isles 8000 years ago. Science,
347 (6225), 998-1001.
[3] Gupta, A. K. (2004). Origin of agriculture
and domestication of plants and animals linked to early Holocene climate
amelioration. Current Science, 87 (1), 54-59.
[5] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4962295/
[6] https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.1419136111
[7] Marchesi JR. Prokaryotic and eukaryotic
diversity of the human gut. Adv Appl Microbiol (2010) 72:43–62.
[9] Blaser MJ. The theory of disappearing
microbiota and the epidemics of chronic diseases. Nat Rev
Immunol. 2017 Jul 27;17(8):461-463.
[10] Standage T. An Edible History of
Humanity (2009); trad it. Una storia commestibile dell'umanità, Torino, Codice
edizioni, 2010.
[11] Il termine è un neologismo che Grmek aveva ricavato dal concetto
di biocenosi, proponendo in pratica la tesi secondo cui tra le
malattie presenti in un certo periodo e in un certo territorio esista un
equilibrio simile a quello che si viene a determinare tra le varie forme di
vita che costituiscono i diversi biomi. Può essere interessante
ricordare che per il grande storico della medicina anche l'epidemia di AIDS
(ancora una zoonosi) sarebbe stata essenzialmente il prodotto di una crisi
patocenotica, provocata oltre che da una serie di sconvolgimenti della
società africana e globale, dalla scomparsa di quello che per secoli era stato
probabilmente il peggior serial killer della storia umana: il virus del vaiolo,
eliminato, speriamo per sempre, dalla meglio riuscita, a tuttoggi,
campagna vaccinale organizzata dall'OMS.
[12] Diamond J Armi, acciaio e malattie. Op. cit.
[13] Burgio, E. Environment and Fetal
Programming: The origins of some current “pandemics”. J. Pediatr.
Neonat. Individ. Med. 2015, 4, e040237
[14] https://bmcecolevol.biomedcentral.com/articles/10.1186/1471-2148-10-89
[15] Gignoux CR, Henn BM, Mountain JL. Rapid,
global demographic expansions after the origins of agriculture. Proc
Natl Acad Sci U S A. 2011 Apr 12; 108(15): 6044-9.
[16] Talvolta ci si riferisce agli effetti dell'introduzione massiccia
dell'elettronica e dell'informatica nell'industria come alla Terza Rivoluzione
Industriale, che viene fatta partire dal 1970 (Battilossi S. Le
rivoluzioni industriali, Roma, Carocci, 2002)
[17] Escudero A. La rivoluzione industriale, Milano,
Fenice (1994) pag. 4
[18] Ibid pag. 12
[19] Crutzen coniò il neologismo Antropocene: la prima era
geologica nella quale le attività umane sono state in grado di influenzare la
composizione dell’atmosfera e di alterare il suo equilibrio.
Fonte: La nuova agricoltura contadina. L'alba della rinascita per la
Terra, di AA. VV., collana Ecologist italiano, Libreria Editrice Fiorentina, 2022. pag. 110-120
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