“L’acquisizione di ricchezze attraverso la guerra nasce dalla natura, infatti l’arte venatoria è una parte di essa e si deve usare sia verso gli animali, sia verso quegli uomini che, essendo nati per obbedire, rifiutano di sottomettersi e tale guerra è giusta per natura“. Juan Ginés de Sepúlveda sintetizzava così la giustificazione della guerra come mezzo di evangelizzazione nella “Disputa del Nuovo Mondo” che lo contrappose al frate domenicano, procuratore degli Indios, Bartolomè de Las Casas nel 1550-51. Il teologo spagnolo si rifaceva alla teoria aristotelica della “servitù naturale” ed aggiungeva: “I filosofi insegnano che alle genti barbare e inumane che aborriscono vita civile conviene stare sottomessi al potere di popoli più umani e virtuosi, i quali, con l’esempio della virtù, delle leggi e della prudenza, loro facciano abbandonare la loro bestialità”. La “Disputa”, convocata dall’imperatore Carlo V, non si concluse con un verdetto chiaro e furono quindi i coloni, prima spagnoli e poi delle altre nazioni europee, a scriverlo.
È probabilmente allora che gli europei, sino ad allora marginali nella
storia del mondo, cominciano a interiorizzare l’idea della propria superiorità
e a percepirsi come il centro del mondo, soggetti di una storia universale
nella quale “il resto” diviene oggetto. L’Altro non europeo in questa storia è
sempre un po’ meno che umano. O quando lo è, deve essere educato, alla
cristianità, alla civiltà, alla democrazia…
Su questa percezione di sé si sosterrà moralmente lo sterminio della gran
parte delle popolazioni americane e la deportazione di 12 milioni di schiavi
neri. Poi la spartizione dell’Africa, stabilita a Berlino nel 1884, per
“prendersi cura del miglioramento delle condizioni e del loro [degli indigeni]
benessere morale e materiale”. Intanto l’altro pezzo d’Europa, la
Russia, si “prendeva cura” delle popolazioni della Siberia asiatica.
Nel Mediterraneo la professione di superiorità si affermò più lentamente. Qui l’Occidente era
stato di fronte ad una civiltà che aveva regalato all’Europa il caffè, l’algebra
e la filosofia greca e prodotto imperi che controllavano il commercio globale.
Il lungo conflitto con quel mondo per il controllo del commercio con
l’Oriente non aveva sino a quel momento prodotto l’altro non umano. I
“saracini” erano infedeli, ma pienamente umani.
La hybris occidentale si estese al Maghreb e al Mashreq
con lo smembramento violento dell’impero Ottomano. Napoleone invade l’Egitto,
poi la Francia occupa Tunisia e Algeria, poi fu la volta del Regno d’Italia a
dichiarare guerra alla Turchia e occupare la Tripolitania e la Cirenaica,
infine il britannico Mark Sykes e il francese François Picot si divisero con un
tratto di penna sulla carta geografica le ultime spoglie dell’impero, smembrato
con la Prima guerra mondiale.
Come scrive Edward Said in “Orientalismo”, l’Europa inventa l’Altro
orientale. Ciò permetterà di definire nel trattato di Versailles le popolazioni
del Mashreq come “non in grado di resistere da sole nelle condizioni del mondo
moderno” giustificando così la colonizzazione dello spazio ex ottomano.
Sepulveda non avrebbe saputo fare di meglio.
Dunque, da cinque secoli l’Altro non europeo è un po’ meno che umano o
comunque inferiore e “naturalmente” subordinato o al massimo sotto tutela. Una
dominazione ovviamente “per il suo bene”.
Oggi, che la supremazia occidentale è messa in discussione, ci si dice che
dobbiamo fare la guerra per difendere l’Occidente (con il
corollario del dollaro come moneta di scambio) e che tutti i conflitti
attuali sono “un attacco ai nostri valori”. In Ucraina, come in Palestina.
Ma quali valori?
Sulla superiorità morale dell’Occidente ci sarebbe molto da dire. È
l’Europa che ha prodotto il nazismo, culmine del mito della Nazione e del
Razzismo scientifico (entrambe invenzioni europee) e che, come ha acutamente
notato il poeta martinicano Aimé Cesaire, ha fatto in Europa e verso
popolazioni “bianche” ciò che tutte le altre nazioni facevano in Africa senza
troppo scomporsi.
E non si dica che si tratta di cose del passato. Ricordiamo
che l’Occidente ha condannato alla morte per fame mezzo milione di bambini
iracheni per embargo affermando, come ebbe a dire la segretaria di stato USA,
Madeleine Albright, che “ne valeva la pena”. Oppure che l’Europa
assiste indifferente e all’affogamento di migliaia di ragazzi e ragazze nel
Mediterraneo o che nega il diritto di asilo a persone che scappavano da una
guerra di Putin, ma che avevano il torto di essere siriani.
La ferocia che nasce dalla convinzione di avere il diritto di vivere meglio
degli altri è di oggi, non di ieri. Ed è questa concezione dell’altro come
“un po’ meno che umano”, che fa sì che possano essere espressi ad alta voce
pensieri come quelli ascoltati dopo l’eccidio del 7 ottobre.
Questo Israele è diventato davvero un paese europeo, interpretando il mito
europeo della Nazione e praticando la colonizzazione, come hanno fatto tutti i
bianchi occidentali. È la stessa idea di Stato-Nazione che nel continente ha
causato, in due guerre mondiali, cento milioni di vittime, di civili e di
ragazzi vestiti con una camicia di forza color kaki e la testa imbottita di
idiozie identitarie.
E non può meravigliare il silenzio europeo. L’Europa è abituata. La
strage di Gaza, contrariamente a quanto si dice, non è per l’Europa nulla di
nuovo.
Non ha nulla da invidiare all’eccidio di Addis Abeba, quando i coloni
italiani, in rappresaglia per un attentato, spalleggiati dall’esercito, diedero
vita ad una vera e propria “caccia al moro” con il linciaggio indiscriminato di
migliaia di civili, dando fuoco alle case e distruggendo le proprietà.
O alla strage di Amritsar quando l’esercito inglese sparò sulla
folla, dopo averla rinchiusa nella piazza in cui si era radunata per
manifestare contro la Compagnia delle Indie, trucidando centinaia di persone
disarmate.
O al massacro di Hai Pong in cui la Francia repubblicana rase al
suolo l’intero distretto vietnamita uccidendo a cannonate tra 6 e 20mila
persone perché si erano attardate ad abbandonare la zona che la Francia aveva
dichiarato sotto la sua sovranità. Si trattava di “dare una severa lezione a
quelli che ci hanno aggredito a tradimento”.
O ancora al genocidio (riconosciuto tale dalla Germania) degli Herero e dei
Nama quando, dopo aver conquistato con la guerra il territorio, le forze
coloniali tedesche avvelenarono i pozzi per causare la morte per fame e sete,
nell’intento di liberare il territorio dalla loro presenza. La popolazione
nativa fu più che dimezzata.
Tutti questi crimini costituenti il benessere europeo, mai riconosciuti
come tali, sono stati archiviati come “dura legge della storia”. Nessuno se ne
è presa la responsabilità.
È questa percezione di superiorità, che comprende la convinzione di
avere il diritto di vivere meglio degli Altri, che impedisce di provare
empatia per gran parte del genere umano e consente la sconcertante differenza
di trattamento che hanno le vittime bianche da quelle non bianche. Che si
tratti di sfollati ucraini o africani, di immigrati rumeni o africani, di
malati di covid europei o cinesi, di bambini israeliani o palestinesi.
Quelli che meritano pietà e quelli “un po’ meno”.
Pensiamoci quando ci chiameranno per la prossima guerra in difesa
dell’Occidente.
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