Perché Soulèvements è in strada - Les soulevements de la terre
Ci sembra di
straordinario interesse questo documento di Les
soulevements de la terre, uno dei più
interessanti e repressi movimenti francesi degli ultimi anni che declina le
proteste per il clima con la gestione dell’acqua e dunque contro l’agricoltura
intensiva, senza separare le questiona ecologica dalla questione sociale. Non
solo perché ricostruisce in modo puntuale le ragioni della importante quanto
complessa lotta dei contadini in Europa, ma perché allarga il concetto di lotta
dal basso intrecciando umiltà, rabbia e amore per la terra. “L’attuale
movimento, nella sua eterogeneità, è stato questa volta avviato e ampiamente
sostenuto da forze diverse dalle nostre… Possiamo solo rallegrarci del fatto
che oggi la maggioranza degli agricoltori blocchi il paese. Certo è un peccato
che, nei negoziati col governo, siano rappresentati dalla FNSEA e dai padroni
dell’agroindustria…, per di più in un momento in cui i dirigenti del sindacato
di maggioranza non vengono solo copiosamente fischiati in alcuni dei blocchi,
ma non riescono nemmeno più a mantenere le loro basi. Molte persone presenti
nei blocchi organizzati non sono sindacalizzate e non si sentono rappresentate
dalla FNSEA…”. Uno tra le principali ragioni che spingono gli agricoltori alla
protesta è che i gruppi industriali intermediari sia a monte che a valle dei
settori che strutturano il complesso agroindustriale, “li spossessano dei
prodotti del loro lavoro…”. Gli accordi internazionali di libero scambio –
denunciati, tra gli altri, dalla Confédération paysanne e
dalla Coordination rurale -, oltre a mettere in competizione
i contadini di tutto il mondo, hanno accelerato questi processi: così si riduce
il numero di contadini e l’agroindustria espande superfici agricole e profitti.
A tutto questo si aggiunge la brutalità del cambiamento climatico, di cui
l’agricoltura industriale è tra le principali cause. “Pur non avendo lezioni da
impartire agli agricoltori né false promesse da rivolgergli – scrive Les
soulevements de la terre -, l’esperienza
delle nostre lotte a fianco dei contadini – che si tratti di contrastare grandi
progetti, inutili e imposti, come i mega bacini, o di riappropriarsi dei frutti
dell’accaparramento delle terre – ci ha offerto alcune certezze che guidano le
nostre scommesse strategiche… L’ecologia sarà contadina e popolare oppure non
sarà… Crediamo anche nella fecondità e nel potere delle alleanze estemporanee…”
Ecco ormai trascorsa una settimana
da quando il mondo agricolo ha preso ad esprimere chiaramente e nei fatti la
sua rabbia: rabbia di una professione diventata quasi impraticabile, in crollo
sotto la brutalità degli sconvolgimenti ecologici che si annunciano e sotto
asfissianti vincoli economici, normativi, amministrativi e tecnologici. Mentre
i blocchi continuano un po’ ovunque, presentiamo alcune posizioni circa la
presente situazione espresse dal punto di vista dei Sollevamenti della Terra (Les soulevements de la terre).
Siamo un movimento composto da
abitanti delle città e delle campagne, di ecologisti e contadini già installati
sulla terra o in procinto di installarsi. Rifiutiamo la polarizzazione che
alcuni cercano di creare tra questi mondi. Abbiamo fatto della difesa della
terra e dell’acqua – strumenti di lavoro degli agricoltori e degli ambienti di
produzione alimentare – il principio e il punto di ancoraggio della nostra
azione. Da anni ci mobilitiamo contro i grandi progetti di artificializzazione
che li devastano, contro i complessi industriali che li avvelenano e li
monopolizzano. Saremo chiari: l’attuale movimento, nella sua
eterogeneità, è stato questa volta avviato e ampiamente sostenuto da forze
diverse dalle nostre; con obiettivi dichiarati che a volte divergono dai
nostri, che altre volte ci vedono assolutamente d’accordo. In ogni
caso, quando sono iniziati i primi blocchi, noi dei diversi comitati locali
abbiamo aderito ad alcuni di esse e ad alcune azioni. Siamo andati a incontrare
i contadini e gli agricoltori mobilitati, abbiamo parlato con i nostri compagni
di diverse organizzazioni contadine per comprendere la loro analisi della
situazione. Noi stessi ci siamo ritrovati nel dignitoso moto di rabbia di chi
rifiuta di rassegnarsi alla propria estinzione.
Possiamo solo rallegrarci
del fatto che oggi la maggioranza degli agricoltori blocchi il paese. Certo è
un peccato che, nei negoziati col governo, essi siano rappresentati dalla FNSEA
e dai padroni dell’agroindustria, per di più in un momento in cui i dirigenti
del sindacato di maggioranza non vengono solo copiosamente fischiati in alcuni
dei blocchi, ma non riescono nemmeno più a mantenere le loro basi. Molte
persone presenti nei blocchi organizzati non sono sindacalizzate e non si
sentono rappresentate dalla FNSEA. Nato nel dopoguerra, questo
sindacato egemone sostiene da decenni lo sviluppo del sistema agroindustriale,
in cogestione con lo Stato. È questo sistema che mette una corda al collo dei
contadini, che li sfrutta per alimentare i propri profitti e che alla fine li
spinge a indebitarsi per espandersi al fine di rimanere competitivi o
scomparire. Nel 1968 Michel Debatisse, allora segretario generale della FNSEA,
prima di diventarne presidente, disse:
“Due terzi delle aziende agricole non hanno, in termini economici, alcun motivo
di esistere. Siamo d’accordo per ridurre il numero degli agricoltori”. Missione
più che riuscita: il numero degli agricoltori e dei lavoratori agricoli è
passato da 6,3 milioni nel 1946 a 750.000 nell’ultimo censimento del 2020.
Mentre il numero dei trattori nelle nostre campagne è aumentato di circa il
1000%, il numero delle aziende agricole è diminuito del 70% e quello dei
lavoratori agricoli dell’82%. In altre parole, più di 4 lavoratori su 5 hanno
abbandonato il lavoro agricolo in un periodo di soli quattro decenni, tra il
1954 e il 1997. E la lenta emorragia continua ancora oggi…
Mentre la dimensione media di
un’azienda agricola in Francia (nel 2020) è di 69 ettari, quella di Arnaud
Rousseau, attuale direttore della FNSEA, ex intermediario e commerciante
sfornato da una business school, ammonta a 700 ettari, senza
contare il fatto che egli sia a capo di una quindicina di imprese, holding e
aziende agricole, nonché presidente del consiglio di amministrazione del gruppo
industriale e finanziario Avril (Isio4, Lesieur, Matines, Puget, ecc.),
direttore generale della Biogaz du Multien (una società di metanizzazione),
amministratore della Saipol, leader francese nella trasformazione dei semi in
olio, o ancora presidente del consiglio di amministrazione di Sofiproteol…
Per i dirigenti della FNSEA, così
come per i leader delle più grandi cooperative agricole – abbondantemente
rappresentate dalla “Fédé” e dai suoi satelliti – è la grande abbuffata: il
reddito medio mensile delle dieci persone più pagate nel 2020 all’interno della
cooperativa Eureden ammonta a 11.500 €.
I redditi medi dei contadini
sventolati sui palcoscenici e il mito dell’unità organica del mondo agricolo
mascherano una disparità di reddito sconcertante e violente disuguaglianze
socio-economiche che non possono più essere dissimulate: i margini
dei piccoli produttori continuano a erodersi mentre i profitti dei complessi
agroindustriali esplodono.
Secondo l’Organizzazione delle
Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), percentuale del prezzo
di vendita destinata agli agricoltori è scesa dal 40% nel 1910 al 7% nel 1997.
E questo ovunque, nel mondo. Dal 2001 al 2022, i distributori e le aziende
agroalimentari del settore lattiero e caseario hanno visto il loro margine
lievitare rispettivamente del 188% e del 64%, sebbene quello dei produttori
vada stagnando, quando non sia semplicemente negativo.
Uno fra i motivi che
spingono il mondo agricolo a bloccare le autostrade, a svuotare
bottiglie di latte al Carrefour (Epinal-Jeuxey), a bloccare le fabbriche
Lactalis (Domfront, Saint-Florent-le-Vieil, ecc.), ad arare un parcheggio
(Clermont-l’Hérault), a bloccare il porto di La Rochelle, a svuotare i camion
provenienti dall’estero, a spargere liquame su una prefettura (Agen), a mettere
sottosopra un McDonald’s (Agens), è che i gruppi industriali
intermediari sia a monte (fornitori, venditori di prodotti agricoli e
attrezzature, aziende di semenze industriali, venditori di fertilizzanti,
pesticidi, alimenti…) che a valle (cooperative di raccolta e distribuzione come
Lactalis, grande distribuzione industriale e agroalimentare come Leclerc…) dei settori
che strutturano il complesso agroindustriale, li spossessano dei prodotti del
loro lavoro.
È questa spoliazione del valore
aggiunto organizzata dalla catena dei settori industriali che spiega come,
oggi, senza le sovvenzioni che svolgono un ruolo perverso di stampelle del
sistema (oltre ad avvantaggiare i più grandi) il 50% di coltivatori e
allevatori avrebbe un conto negativo ante imposte: per i bovini da latte, il
guadagno totale calcolato al di fuori dei sussidi, il quale si aggirava intorno
a una media di 396 € per ettaro tra il 1993 e il 1997, è diventato negativo
alla fine degli anni 2010 (-16 € per ettaro in media), mentre il numero di
agricoltori presi in considerazione da la Rete Informativa Contabile Agraria
del settore è passata in questo periodo da 134.000 a 74.000 [2]…
Gli accordi internazionali
di libero scambio (denunciati dalla Confédération paysanne e
dalla Coordination rurale), oltre a mettere in competizione i contadini di
tutto il mondo, hanno anche accelerato queste depredazioni economiche. Sappiamo
bene che, oggi, quando si parla di “liberalizzazione”, di “aumento di
competitività” o di “ammodernamento” delle strutture, significa che aziende
agricole scompariranno, che la policoltura associata ad allevamento
(rappresentata attualmente solo dall’11% delle aziende agricole) diminuirà,
lasciando solo un deserto verde di monocolture industriali guidate da
agricoltori alla guida di strutture sempre più indebitate e sempre meno in
controllo di uno strumenti di lavoro e di un conto bancario che finisce per
appartenere solo ai creditori.
Il riscontro è senza
appello: meno agricoltori ci sono, meno riescono a guadagnarsi da vivere, a
meno che non espandano continuamente la loro superficie agricola,
divorando i loro vicini. In queste condizioni, “diventare un manager d’impresa”,
come promette la FNSEA, è in realtà ritrovarsi nella stessa situazione di un
autista Uber che si indebita fino al collo per acquistare il suo veicolo,
quando dipende da un unico committente per eseguire la sua attività… a
questo aggiungiamo la brutalità del cambiamento climatico (siccità,
incendi, inondazioni, ecc.), le perturbazioni ecologiche che portano alla
moltiplicazione di malattie emergenti e epizootiche e… e la professione diventa
quasi impossibile, invivibile, tanta e tale è l’instabilità.
Se ci solleviamo, è in gran
parte contro le devastazioni di questo complesso agroindustriale, con il
ricordo vivido delle aziende agricole delle nostre famiglie che abbiamo visto
scomparire e con l’acuta consapevolezza della profondità delle difficoltà che
incontriamo nel nostro cammino d’installazione. Sono queste
industrie e le mega-corporazioni d’accaparramento che le accompagnano –
inghiottendo la terra e le fattorie circostanti, accelerando la trasformazione
in marche della produzione agricola e così uccidendo, silenziosamente, il mondo
contadino – sono queste industrie che abbiamo preso di mira nelle nostre azioni
fin dall’inizio del nostro movimento: e non la classe contadina.
Se affermiamo che la
liquidazione economica e sociale del mondo contadino e la distruzione degli
ambienti di vita sono strettamente correlate – le aziende agricole scompaiono
allo stesso ritmo degli uccelli dei campi, il complesso agroindustriale stringe
la sua morsa mentre il riscaldamento globale accelera – non ci facciamo certo
sfuggire gli effetti deleteri di una certa ecologia industriale, manageriale e
tecnocratica. La gestione dell’agricoltura secondo norme
ambientali e sanitarie è quindi assolutamente ambigua. Incapace di tutelare
realmente la salute delle popolazioni e degli ambienti di vita, essa ha
soprattutto costituito, dietro buone intenzioni, un nuovo vettore di
industrializzazione delle aziende agricole. Gli investimenti colossali
richiesti dagli aggiornamenti normativi nel corso degli anni hanno ovunque
accelerato il processo di concentrazione delle strutture, la loro
burocratizzazione a suon di controlli permanenti e la perdita di senso del
mestiere.
Ci rifiutiamo di separare
la questione ecologica dalla questione sociale, o di farne una
questione di cittadini consumatori responsabili, di cambiamenti nelle pratiche
individuali o di “transizioni personali”. È impossibile
esigere da un allevatore intrappolato in un settore iper-integrato che faccia
un’improvvisa sterzata e che si sottragga da un modo di produzione industriale,
così come è vergognoso chiedere che milioni di persone strutturalmente
dipendenti dagli aiuti alimentari inizino a “consumare biologico e locale”. Né
vogliamo ridurre la necessaria svolta ecologica del lavoro della terra a una
questione di “regolamenti” o di “un insieme di norme”: la salvezza non arriverà
rafforzando il controllo delle burocrazie sulle pratiche contadine. Nessun
cambiamento strutturale arriverà finché non allenteremo la morsa dei vincoli
economici e tecnocratici che gravano sulle nostre vite: e possiamo liberarcene
solo attraverso la lotta.
Pur non avendo lezioni da
impartire agli agricoltori né false promesse da rivolgergli, l’esperienza delle
nostre lotte a fianco dei contadini – che si tratti di contrastare grandi
progetti, inutili e imposti, come i mega bacini, o di riappropriarsi dei frutti
dell’accaparramento delle terre – ci ha offerto alcune certezze che guidano le
nostre scommesse strategiche.
L’ecologia sarà contadina e
popolare oppure non sarà. I contadini scompariranno insieme alla sicurezza
alimentare delle popolazioni e ai nostri ultimi margini di autonomia di fronte
ai complessi industriali, se non sorgerà un vasto movimento sociale che, di
fronte al loro accaparramento e alla loro distruzione, miri a riappropriarsi
delle terre. E scompariranno se non abbattiamo le barriere
(trattati di libero scambio, deregolamentazione dei prezzi, influenza
monopolistica dell’industria agroalimentare e degli ipermercati sui consumi
delle famiglie…) che sigillano la presa del mercato sulle nostre vite e
sull’agricoltura, se non blocchiamo la corsa a capofitto tecno-soluzionista (il
trittico biotecnologie genetiche / robotizzazione / digitalizzazione), se i
principali megaprogetti della ristrutturazione del modello agroindustriale non
verranno neutralizzati, se non troviamo le leve adeguate di socializzazione
dell’alimentazione che permettano insieme di garantire il reddito dei
produttori e il diritto universale al cibo.
Crediamo anche nella
fecondità e nel potere delle alleanze estemporanee. In un momento
in cui la FNSEA cerca di riprendere il controllo del movimento – in particolare
rimuovendo da alcuni blocchi tutto ciò che non assomiglia ad un agricoltore
“sindacalizzato” dei loro – crediamo che la svolta possa venire dall’incontro
tra gli agricoltori mobilitati e le altre frange del movimento sociale ed
ecologico che si sono sollevate negli ultimi anni contro le politiche
economiche predatorie del governo. Il “corporativismo” è sempre stato il
fondamento dell’impotenza contadina. Proprio come la separazione dai mezzi di
sussistenza agricoli ha spesso segnato la sconfitta dei lavoratori.
Forse è giunto il momento di
abbattere qualche muro – continuando a rafforzare alcuni blocchi, andando
incontro al movimento di chi ancora, in questi blocchi, non ci ha messo piede,
proseguendo nei prossimi mesi le lotte comuni tra abitanti dei territori e
lavoratori della terra.
[Traduzione di Francesco Zevio]
Contadini - Miguel Martinez
E’ da un po’ che mi manca il tempo per scrivere: un buon
segno, vuol dire che sto facendo molte cose interessanti.
Ieri sera comunque abbiamo
parlato tra amici e complici della grande rivolta contadina che
è scoppiata in queste settimane in Europa.
Piccola scena commovente: i contadini
francesi che sequestrano il cibo importato ai camion che lo stanno portando ai
supermercati perché costa ancora di meno di quello francese, e lo
distribuiscono ai Restos du
coeur per sfamare i senza tetto.
La premessa: alla base
di tutta la nostra vita c’è la produzione agricola.
Che è rappresentata da due
vicini di casa.
Il primo è Giovanni da Montespertoli,
che ieri sera ci faceva assaggiare il vino, il formaggio e la soprassata che
lui cresce, cura e vende al mercato contadino alla Gavinana.
Il secondo è il suo vicino
di campo: un imprenditore del rame con
base a Milano. Un commercialista gli ha suggerito un modo facile per
arricchirsi ancora di più – intercettare i fondi europei per l’agricoltura (il 60% delle risorse europee finisce in
agricoltura), e così lui ha mandato un omino benvestito a Montespertoli a
comprargli un campo che fa cospargere incessantemente di prodotti chimici, dove
ogni tanto qualche operaio viene mandato a raccogliere i prodotti che ottengono i sussidi. Poi si potrebbero
pure buttare, ma c’è pure un ridicolo margine in più a vendergli alla Grande
Distribuzione Organizzata.
Oggi, spiega Giovanni,
tutta la categoria è in difficoltà estrema.
Per poter produrre
abbastanza da ottenere un minimo margine dalle multinazionali della grande
distribuzione, il contadino deve attingere a ogni possibile canale, tra fondi
europei (che però si riversano soprattutto sulle grandi imprese) e prestiti,
per “modernizzare” il proprio lavoro, cioè per fare di ciò che nasce
dalla biodiversità, una replica della fabbrica. Insomma, il sistema
finanziario obbliga il contadino, per sopravvivere, a distruggere l’ambiente; e
il prezzo per salvare l’ambiente consiste nel privare il contadino della sua
sopravvivenza.
La rivolta contadina è
quindi una questione complessa, anche dal punto di vista ambientale. Ma alla
fine, la questione è sempre quella – il modo incredibile in cui il capitalismo
riesce a distruggere sistematicamente ogni possibilità di vita umana e non.
Qualche sera fa,
sull’autostrada che collega Milano e Bergamo, di notte vediamo, tra gli
infiniti capannoni, uno più grande e brutto degli altri, ma tutto illuminato (alla faccia della
sostenibilità) a tricolore – luce verde, rossa e bianca , e la scritta PLANET FARMS.
Colpiti dal kitsch
sovranoidale, indaghiamo: si tratta di un’immensa
fabbrica dove pochi operai producono
un’insalata “senza pesticidi”: infatti non servono, visto che gli insetti non
ci possono entrare, come non ci possono entrare i raggi del sole e nemmeno un
granello di dirt (che in inglese indica
significativamente sia terra che sporco).
E finalmente capisco come
il Green sia il nemico ultimo e assoluto della Natura.
La mattina dopo, dalla
casa di Bergamo dove ci ospitano degli amici, apriamo la finestra e guardiamo
fuori.
Una giornata splendida,
solo se che c’è in lontananza una densa nuvola nerissima: scopriamo che durante
la notte, ha preso fuoco proprio Planet Farms.
Che non sapevo mica che
l’insalata facesse un fumo così:
Sulla rivolta contadina,
suggerisco due importanti letture.
La prima è un articolo di
Dario Dongo, Italia, protesta degli agricoltori contro
Coldiretti. #VanghePulite, che apre un mondo.
La seconda è un articolo
di Igor Giussani, Sulla protesta degli agricoltori tedeschi,
che approfondisce la falsa questione dei sussidi.
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