Pubblichiamo
la lettera che l’ebreo americano Bertell Olmann scrisse
nell’ottobre del 2004, ma decisamente più attuale che mai. La scelta, già di
per sé inusuale, di dimettersi da un’appartenenza etnico-religiosa (ed in
particolare quella “eletta da Dio”) è ancora più curiosa nella misura in cui
proviene da un professore americano della New York University, un ambiente
certamente non anti-sionista e neppure antisemita. Anzi, è lo stesso professore
di sociologia a raccontarsi anti-israeliano, sconfessando per l’ennesima volta
(cosomai ce ne fosse ancora bisogno) che la critica libera e sacrosanta
all’operato di Israele non ha nulla a che vedere con l’odio razziale e men che
meno religioso nei confronti degli ebrei. Finché le sorti del popolo ebraico
saranno sovrapposte alle aspirazioni sioniste di Israele, il professore farà
radicale atto di dimissioni dal suo stesso popolo. Se ne facciano quindi una
ragione coloro i quali saranno probabilmente stupiti nel venire a conoscenza di
una kippah che si solleva dall’interno, senza ovviamente essere l’unica. Sulla
stessa barca infatti troviamo Ilan Pappe, coraggioso
divulgatore della pulizia etnica dei palestinesi orchestrata da IDF e
Haganah; Edward Said, importante intellettuale e autore
di studi non ortodossi sulla questione palestinese; più indietro nel tempo lo
stesso Ollman riporta le affermazioni di un certo Albert Einstein il
quale condannava già in tempi non sospetti il progetto sionista; senza
dimenticare pensatori come Hannah Arendt, Noam
Chomsky, nonché attivisti del calibro di Mordechai
Vannunu o il nostro Moni Ovadia e
tanti altri ebrei uniti nella dissociazione aperta e consapevole da una delle
peggiori tragedie della storia moderna.
Bertell Ollman, Lettera di dimissioni dal popolo ebraico
Non
ti sei mai chiesto quale sarebbe stato il tuo ultimo pensiero prima di morire,
o prima di credere di morire? Bene, io sì: alcuni anni fa, nei momenti di
declino della consapevolezza prima di andare sotto il bisturi per un intervento
in cui avrei rischiato la vita, ho trovato la risposta. Mentre gli infermieri
spingevano la barella in camera operatoria, sono diventato improvvisamente
consapevole non, come ci si potrebbe aspettare, della paura di morire, ma di
una terribile angst all’idea di morire da ebreo. Ero atterrito all’idea di
concludere la mia vita con il cordone ombelicale ancora legato a un popolo con
cui non posso più identificarmi. Che questo dovesse essere il mio ‘ultimo’
pensiero mi ha sorpreso molto, all’epoca, e mi sorprende ancora. Cosa voleva
dire? e perché è così difficile dimettersi da un popolo?
Sono
nato a Milwaukee da genitori ebrei russi, che non sono mai andati alla sinagoga
o mangiato kasher, ma che spesso a casa parlavano yiddish e si consideravano
ebrei. Sono andato alla scuola ebraica per quattro anni e ho fatto il bar
mitzvà. Con questo retroterra, ho mantenuto qualche vaga credenza religiosa
ebraica fino quasi ai vent’anni, quando sono diventato ateo. Mi identificavo
sempre come ebreo, ma in un senso che è diventato sempre più difficile da
definire. Alcuni dei miei amici erano diventati sionisti, e – benché io abbia
per un breve periodo giocato a pallacanestro per un club giovanile sionista –
non hanno fatto alcun progresso nel convertirmi alla loro causa: credo
principalmente perché il loro scopo di base sembrava richiedere che si
emigrasse in Israele. Tuttavia, ciò che ho imparato in quegli anni sulla Shoà e
sulla critica situazione ebraica nel mondo era sufficiente a far sì che fossi
ben disposto verso l’idea di una patria ebraica, supponendo – ho sempre
aggiunto – che si potesse giungere ad un qualche accordo con i palestinesi che
già vivevano lì. È stato all’università – l’Università del Wisconsin a metà
degli anni ’50 – che sono diventato socialista ed internazionalista. Milwaukee,
almeno la mia Milwaukee, era stata molto provinciale, ed ero stato molto
contento delle opportunità offerte a Madison per incontrare persone da tutto il
mondo. Penso di aver fatto parte di tutte le organizzazioni di studenti
stranieri nel primo anno di università, e di diversi circoli politici
progressisti. È pure stato lì che ho sentito parlare molto di più di
Israele/Palestina: ora però imparavo non come ebreo del Milwaukee ma da
internazionalista, da appartenente alla comunità umana, di cui ebrei e arabi
fanno parte come eguali.
Negli
anni seguenti, mentre il conflitto fra Israele ed i palestinesi prima grave,
diventava gravissimo, ed infine pessimo, sono cominciati a svilupparsi fatti
nuovi – sorprendenti, almeno per me. Mi sono trovato, malgrado i miei migliori
sforzi di essere equo verso entrambe le parti, a diventare sempre più
anti-israeliano: la maggior parte degli ebrei americani, compresi alcuni amici
ebrei mai consideratisi sionisti, invece, sono diventati entusiasti sostenitori
della causa israeliana. Già negli anni ’80, con la prima intifada,
l’oppressione israeliana e l’umiliazione dei palestinesi si sono aggravati
tanto che ho trasalito al pensiero di appartenere allo stesso popolo di coloro
che potevano commettere tali crimini o che, nel caso degli ebrei americani,
potevano razionalizzarli con tanta facilità. Ora le cose hanno raggiunto un
punto tale che voglio andarmene; il problema è come farlo. Si può lasciare un
club, una religione (ci si può convertire), un Paese (si può prendere un’altra
cittadinanza e andare a vivere altrove), persino un genere (data l’attuale
scienza medica), ma come si fa a dimettersi dal popolo in cui si è nati? Per la
repulsione provata per gli atti della propria chiesa, si dice che alcuni
cattolici francesi abbiano scritto una lettera al papa chiedendo un certificato
di sbattezzo. Un precedente? Ma a chi dovrei scrivere? E cosa dovrei chiedere?
Bene, ho deciso di scrivere a TIKKUN, senza chiedere altro che un’udienza.
In
base a quel che ho affermato finora, per alcuni sarebbe facile respingermi come
un ebreo che odia sé stesso, ma sarebbe sbagliato. Sono semmai un ebreo che ama
se stesso, ma l’ebreo che amo in me è quello diasporico, quello benedetto per
2000 anni dal non avere un Paese da definire come proprio. Che questo fosse
accompagnato da molti crudeli svantaggi è ben noto, ma aveva definitivamente un
vantaggio, che torreggiava su tutto il resto. Essendo un outsider in ogni
Paese, ed appartenendo alla famiglia degli outsiders di tutto il mondo, gli
ebrei come insieme sono stati meno affetti dai ristretti pregiudizi che
rovinano tutte le forme di nazionalismo. Se non potevi essere un cittadino nel
pieno senso del termine, ad un livello di parità con gli altri, nel Paese in
cui vivevi, potevi essere un cittadino del mondo, o per lo meno iniziare a
pensarti come tale, persino prima che esistesse il concetto per chiarire questa
sensazione. Non sto dicendo che questo è come realmente pensassero la maggior
parte degli ebrei in diaspora, ma per alcuni era così: fra i più noti ci sono
Spinoza, Marx, Freud e Einstein. Per altri, l’opportunità e l’inclinazione a
fare lo stesso derivavano proprio da quel rifiuto, da tutti sperimentato, nei
Paesi in cui vivevano. Persino il diffuso trattamento degli ebrei come di
qualcuno un po’ meno che umano provocava una risposta universalista. Gli ebrei
sostenevano, quando era possibile, e pensavano, quando una discussione aperta
era impossibile, che, come figli dello stesso Dio, avevano le stesse
caratteristiche umane dei loro oppressori, e che ciò avrebbe dovuto avere la
precedenza su qualunque altro argomento. Quindi l’accusa antisemita, che gli
ebrei sono sempre ed ovunque stati cosmopoliti e non sufficientemente
patriottici, ha almeno questa parte di vero.
Non
molti ebrei, oggi, come è naturale, assumono questa posizione. In un’intervista
del 1990 con Rochelle Furstenberg, nel Jerusalem Report, il più famoso
intellettuale e sionista britannico, Isaiah Berlin, narrava una conversazione
intercorsa con il filosofo francese Alexaner Kojeve, che si dice gli abbia
chiesto: “Sei un ebreo. Il popolo ebraico ha probabilmente la storia più
interessante fra tutti i popoli che siano mai esistiti. E ora volete essere
l’Albania?” La risposta di Berlin è stata: “Sì, lo vogliamo. Per i nostri
scopi, per gli ebrei, l’Albania è un passo avanti”. Da parte di un liberal di elevata
cultura, di un ateo, di uno che sosteneva di non aver mai sperimentato
l’antisemitismo in Inghilterra, e che aveva scritto ampiamente del nazionalismo
e dei suoi pericoli, questa era una risposta sorprendente. Ciò che aveva avuto
la meglio su tutte queste considerazioni, per Berlin, era il desiderio umano di
appartenere, che egli comprendeva come un’appartenenza non solo a un gruppo, ma
ad un luogo specifico. Senza il loro proprio Paese, gli ebrei avevano sofferto
di ogni tipo di oppressione, così come di quella sorta pervasiva di nostalgia
che accompagna ogni esilio prolungato. A Berlin piaceva molto ripetere che quel
che voleva per gli ebrei era che fosse loro permesso essere un “popolo
normale”, con una patria: proprio come gli altri. Sì, proprio come gli
albanesi.
Le
due domande che occorre ancora porre, tuttavia, sono (1) se il naturale impulso
ad appartenere a qualche cosa, che per Berlin fungeva come premessa basilare,
potesse essere soddisfatto da qualcosa di diverso da uno stato nazionale, e (2)
se, nel divenire come l’Albania (persino la Grande Albania), gli ebrei siano
stati obbligati a rinunciare a qualcosa di valore ancora maggiore,
nell’ebraismo della Diaspora. Se è vero – e sono pronto ad ammettere che lo sia
– che la nostra salute mentale ed emotiva richieda un forte legame con altre
persone, non vi è alcun motivo per credere che solo gruppi nazionali, che
occupino il proprio territorio, possano soddisfare questa necessità. Vi sono
gruppi etnici, religiosi, di genere, culturali, politici, di classe, senza
legami speciali con un Paese, che possono funzionare ugualmente. Neri,
cattolici, gay, massoni, lavoratori con coscienza di classe sono alcune delle
popolazioni che hanno trovato modi per soddisfare questa necessità di
appartenere, senza limitarsi ai confini della nazione. L’appartenere alla
nostra comune specie offre ancora un’altra via per ottenere il medesimo scopo.
Data la gamma di possibilità, a quali gruppi ci “uniamo”, o quale gruppo
assumiamo come identità primaria, dipenderà in larga misura da quel che è
disponibile nel tempo e nel luogo in cui abitiamo, come tali gruppi risolvono
(o promettono di risolvere) i nostri problemi più urgenti, e dal nostro essere
socializzati a considerare questi differenti gruppi.
Per
quanto riguarda ciò che si è perduto nell’acquisire una patria, è importante
riconoscere che il sionismo è una forma di nazionalismo come tutte le altre: il
nazionalismo – come sono stati obbligati a riconoscere pure osservatori ben
disposti come Albert Einstein – ha sempre un prezzo. Mentre ogni ebreo sa che
ad Einstein era stata offerta la presidenza dello stato ebraico, da poco
indipendente, pochi capiscono perché l’aveva rifiutata. A differenza di Berlin,
che voleva che gli ebrei diventassero un popolo “normale” come gli altri,
Einstein ha scritto: “La mia consapevolezza della natura essenziale
dell’ebraismo resiste all’idea di uno stato ebraico con i confini, l’esercito,
ed una misura di potere temporale, non importa quanto modesta. Ho paura del
danno interno a cui andrà incontro l’ebraismo – soprattutto per lo sviluppo di
un gretto nazionalismo nei nostri ranghi, contro il quale abbiamo già da
combattere strenuamente, anche senza uno stato ebraico (da “Our Debt to
Zionism”, in Ideas and Opinions). Chi può dubitare che Einstein avesse ragione
a preoccuparsi? Come tutti i nazionalismi, il sionismo è basato anche su un
esagerato senso di superiorità, attribuito agli appartenenti al proprio gruppo,
e su una sensazione di indifferenza, che confina con il disprezzo, per chi fa parte
di altri gruppi. Gli ebrei sono entrati nella storia del mondo con un estremo
atto di chutzpah (termine difficile da sostituire con un altro), in cui hanno
presupposto un Dio giusto che ha creato tutti, e che poi, per ragioni solo a
lui note, ha scelto che gli ebrei fossero il suo popolo speciale (perché
cristiani e musulmani accettino così felicemente la loro inferiorità di status
in questo accordo non lo capirò mai). Ma ciò che hanno fatto i sionisti è
applicare questo atto originario di chutzpah ai comandamenti divini. Se gli
ebrei un tempo ritenevano di essere stati scelti per ricevere le leggi di Dio
per tutta l’umanità, i sionisti sembrano credere di essere stati prescelti per
trasgredirle ogni volta che interferiscono con l’interesse nazionale. Che posto
resta per credere nell’eguaglianza inerente a tutti gli esseri umani? Dobbiamo
riconoscere che gli antichi ebrei non ricevettero da Dio solo le leggi, ma
anche, apparentemente, la promessa di un particolare pezzo di terra.
Quest’ultima, tuttavia, era sempre legata all’obbedienza degli ebrei a queste
leggi, delle quali la più importante – dato il numero di volte in cui Dio vi fa
riferimento – è il divieto dell’idolatria. Mentre gli ebrei non hanno costruito
alcun idolo della divinità, il loro dossier sull’idolatria – che deriva forse
in parte dal ritegno mostrato nel rappresentare Dio – è stato probabilmente
molto peggiore di quello dei loro vicini. Per oltre 3000 anni, il giudaismo ha
combattuto una guerra, in gran parte perdente, contro l’idolatria, in cui il
Tempio a Gerusalemme, i rotoli della Torà, la terra di Israele giungevano a dar
forma concreta e gradualmente a sostituire le relazioni con Dio ed i precetti
etici corrispondenti, che si immaginava rappresentassero. Ma solo nel sionismo,
la versione attuale di questa idolatria della terra, questi precetti sono stati
sacrificati del tutto. La versione moderna del Vitello d’Oro ha risparmiato a
Mosè la preoccupazione di fracassare i Dieci Comandamenti, perché l’ha compiuto
al posto suo. Che molti dei sionisti di oggi non credano nel Dio dei loro padri
rende semplicemente più facile per loro trasformare la Terra di Israele in un
nuovo Dio. L’idolatria resiste: solo adesso le leggi di Dio possono essere
scritte da un comitato, senza inquinarne il nazionalismo del contenuto con
alcuna pretesa universalistica. Se tale nazionalismo estremo è normale – ciò
che rende Spinoza, Marx, Freud e Einstein del tutto anormali – allora, penso,
Berlin ha finalmente ottenuto la normalità del popolo. Il legame organico che
il sionismo, come è tipico per i movimenti nazionalisti, ritiene scontato fra
il popolo ed il territorio, è altresì immerso in quel tipo di misticismo che
rende impossibile ogni discussione razionale della loro situazione. Questo è
vero tanto per i sionisti religiosi, che credono effettivamente che Dio abbia
fatto un accordo sui beni immobili con i loro progenitori, quanto per i
sionisti laici, che dimenticano comodamente i 2000 anni di diaspora ebraica
nello scommettere sui loro diritti “legali” sulla terra (solo per richiamare le
sofferenze degli ebrei in diaspora quando la discussione si sposta sulla
moralità della loro pretesa). Che spazio lascia questo per far fronte in modo
umano e razionale ai problemi della vita nel ventunesimo secolo? Con e l’etica
e la ragione tagliate su misura per servire in primo – ed in ultimo – luogo
necessità tribali, era solo questione di tempo, perché si materializzasse la
stanza degli orrori, preparata dai sionisti per i palestinesi. Sarebbe forse
questo quel che avevano in mente gli antichi profeti ebrei, quando avevano
predetto che il loro popolo sarebbe diventato “una luce per le nazioni”?
Certamente no, né questo era qualcosa che gli ebrei stessi avrebbero potuto
immaginare durante il periodo in diaspora, quando probabilmente nessun popolo
diverso da quello ebraico attribuiva un valore maggiore all’eguaglianza ed al
ragionamento umano. Einstein poteva persino sostenere che la più importante
caratteristica dell’ebraismo fosse l’impegno per “l’ideale democratico di giustizia
sociale, unito a quello di aiuto reciproco e di tolleranza fra tutti gli
uomini”, senza che nessuno ridesse di lui. Ora, persino Dio dovrebbe ridere… o
piangere. Se la diaspora, con tutte le sue inadeguatezze morali, ha lasciato
gli ebrei su una specie di piedistallo, da un punto di vista etico, perché ne
sono discesi? Ne sono discesi quando il piedistallo si è rotto. Le condizioni
che erano alla base della vita ebraica in diaspora erano iniziate ad andare a
pezzi con il progresso del capitalismo, della democrazia e dell’illuminismo,
molto prima dell’Olocausto, che ha dato solo il colpo finale. Per quanto strano
ciò possa parere per qualcosa che è durato quasi 2000 anni, l’ebraismo
diasporico era, e poteva essere, solo un periodo di transizione. Emergendo dal
giudaismo biblico, l’ebraismo diasporico era costruito in partenza su una
contraddizione fra la nostalgia per il Paese perduto ed un impegno rivolto al
futuro, anche se spesso esitante e parziale, per i popoli e i luoghi in cui gli
ebrei erano giunti a vivere. L’una guardava indietro, alla tribù ed alla terra
che una volta era chiamata la propria, l’altro guardava a tutta la specie ed al
mondo intero in cui gli ebrei, più di ogni altro popolo, si erano diffusi. Per
la massima parte del tempo, i legami che univano fra loro popoli e luoghi
diversi – culturalmente, religiosamente, commercialmente (questo in gran parte
per opera di ebrei) – erano nella migliore delle ipotesi vaghi: quindi la
possibilità di portare la nuova situazione alla sua conclusione logica, con il
dichiararsi cittadini del mondo, è qualcosa che la maggior parte degli ebrei
non poteva concepire. Tuttavia l’atteggiamento verso il resto dell’umanità, se
non ancora le azioni, rendevano gli ebrei sempre più sospetti fra i popoli, più
radicati in un territorio, fra i quali vivevano: questi non smettevano mai di
condannare gli ebrei per il loro “cosmopolitismo” (una parolaccia, sembra,
praticamente per tutti, tranne che per gli ebrei). In seguito, con le multiple
riconfigurazioni del globo, associate al capitalismo, all’illuminismo, alla
democrazia, infine al socialismo, più ebrei potevano riconoscere di essere
davvero cittadini del mondo, divenendo liberi di dichiararlo pubblicamente.
Ma
lo stesso sconvolgimento economico e sociale, con le nuove opportunità di
avanzamento e lo spaventoso aumento dell’antisemitismo, che hanno fatto sì che
molti ebrei scambiassero l’identità primaria nella tribù con una nella specie
umana, ha condotto altri ebrei a rifiutare l’evolvere del cosmopolitismo a favore
di un rinnovato progetto nazionalista. Non è una coincidenza che così tanti
ebrei divenissero o socialisti o sionisti, alla fine del diciannovesimo e
all’inizio del ventesimo secolo. Mentre prima nessun cambiamento nella
condizione del popolo ebraico era sembrato possibile, ora emergevano due
alternative, che competevano fra loro per il sostegno popolare. L’una cercava
di abolire l’oppressione degli ebrei abolendo tutte le oppressioni, l’altra
mirava allo stesso fine allontanando gli ebrei verso un rifugio che si
supponeva sicuro, in Palestina. Gli stessi processi che avevano fatto sorgere
queste due alternative hanno portato ad una disintegrazione, prima graduale e
poi rapida, dell’ebraismo diasporico. Benché oggi la maggior parte degli ebrei
viva al di fuori di Israele, in ciò che è ancora chiamato “diaspora”, la grande
maggioranza appartiene all’ambito socialista o, sempre più, a quello sionista
(includendo le versioni “soft” dei due campi); ciò che resta sarà probabilmente
attirato in uno o l’altro di questi due ambiti nel prossimo futuro. L’ebraismo
diasporico, come è esistito per quasi 2000 anni, ha praticamente smesso di
essere: si è diviso lungo le linee della sua principale contraddizione, in un
socialismo che si occupa del benessere dell’umanità e in un nazionalismo che si
interessa solo del benessere del popolo ebraico e della riconquista di Israele.
Dal momento che l’ebraismo ha sempre cercato di giungere ad una sintesi di
questi progetti inconciliabili, la separazione definitiva – dimentica la nostalgia
impacchettata ad arte che si fa strada nei media – può essere considerata come
la fine dell’ebraismo stesso. Forse tutto ciò che resta sono ex ebrei che
chiamano se stessi socialisti o comunisti ed ex ebrei che chiamano se stessi
sionisti (la divisione laici/religiosi, fra questi ultimi, per i miei scopi ha
scarsa rilevanza).Se né i socialisti, che rifiutano gli aspetti nazionalisti e
religiosi dell’ebraismo diasporico, né i sionisti, che ne rifiutano le
dimensioni universali ed umaniste (e spesso pure gli aspetti religiosi) sono
ebrei, allora il vero dibattito riguarda quale tradizione ha mantenuto il
meglio della comune eredità ebraica. Malgrado il loro continuo ciarlare di
ebrei, io sosterrei che è il sionismo ad avere meno aspetti in comune con
l’ebraismo. Non è rompendo le ossa ai giovani palestinesi che i saggi ebrei del
passato profetizzavano che il nostro popolo sarebbe diventato “una luce per le
nazioni”. In Israele oggi, dove tzaddik (persona giusta) e mensch (persona
onesta) sono termini che si applicano solo ad alcuni, sui quali la gran
maggioranza della popolazione sputa, e “chutzpah” è giunto a significare la
difesa di ciò che è indifendibile, vi è ben poco a ricordarci del nucleo etico
di una tradizione un tempo nobile.
Quando
ero ragazzino, mia madre, che parlava yiddish, cercava spesso di correggere
qualche mio comportamento aberrante ammonendomi che era uno “shandeh für die
goyim” (che avrei fatto vergognare non solo me stesso ed i miei famigliari, ma
tutti gli ebrei, di fronte ai gentili). Quel che voglio gridare il più forte
possibile, di fronte a tutti i crimini del sionismo e di coloro che cercano di
difenderlo, è che ciò che fanno è uno shandeh für die goyim: grandi capi e i
pesci piccoli, tutti loro sono uno shandeh für die goyim. (Mamma, io ricordo).
Socialista ed ex ebreo come sono, immagino di avere ancora troppo rispetto ed
amore per la tradizione ebraica, che ho abbandonato, per volere che il mondo la
veda nello stesso modo in cui giustamente vede e considera ciò che gli ex ebrei,
che si denominano sionisti, stanno compiendo in suo nome. E se il progetto di
cambiare il mio status attuale di ex ebreo con uno di non ebreo fa sì che anche
solo dieci buone persone (il minyan di Dio) agiscano contro la rapina sionista
dell’etichetta ebraica, questo è allora un sacrificio che sono pronto a fare.
A
coloro che si domandano perché le dimissioni di un comunista ateo dal popolo
ebraico debbano infastidire alcuni ebrei, farei solo notare che il più grave
peccato che un ebreo possa commettere – me l’hanno insegnato tutti – è di
lasciare il proprio popolo (in genere convertendosi ad un’altra fede). Una
famiglia risponderà spesso celebrando la shivah per il componente che ha
contravvenuto (trattandolo/a cioè come se fosse morto/a). La profonda vergogna
e l’ira che molti ebrei provano quando questo accade è difficile da spiegare;
però ha probabilmente qualcosa a che vedere con l’intensità del legame sociale
che unisce tutti gli ebrei – in origine, senza dubbio, l’effetto dell’essere i
prescelti da Dio, ma anche di condividere un numero così grande di secoli di
oppressione e di esserne sopravvissuti insieme. Mentre un cristiano si rapporta
a Dio come singolo, la relazione di un ebreo con Dio è sempre stata tramite la
sua relazione con il popolo eletto, un popolo che Dio considera altresì
responsabile collettivamente del fallimento di ciascuno dei suoi componenti.
Operando con un tale incentivo, gli ebrei non hanno mai potuto permettersi il
lusso dell’indifferenza, quando si arrivava alle scelte di vita dei
correligionari. Con un poco di istruzione ebraica, la connessione interna
diviene così radicata che persino alcuni ebrei atei e comunisti possono
soffrire della defezione di un ebreo dal popolo come della perdita di un arto
dal corpo. Certo, il mio continuo identificarmi come ebreo, come un certo tipo
di ebreo, mentre manco di ogni caratteristica di un credente, aiuta a spiegare
perché ho provato una necessità irresistibile di dimettermi, quando “ebreo” è
giunto a significare qualcosa che non potevo accettare (o di cui non potevo non
tenere conto). E lo stesso legame organico può servire a spiegare perché alcuni
ebrei, fra i quali coloro che più critico e dai quali ci si potrebbe aspettare
che gioiscano alle mie dimissioni, possano essere così addolorati dalla forma
che ha preso la mia critica.
Ed
eccomi qui, quasi alla fine della lettera di dimissioni, senza aver ancora
discusso la Shoà. Per molti sionisti questo sarebbe sufficiente a rifiutare
quel che devo dire. A mia difesa, vorrei raccontarvi una storia che Joe Murphy,
ex Vice Cancelliere della City University di New York, usava narrare di sua
madre, ebrea. “Joe”, ci dice che ella ammoniva, “ci sono due tipi di ebrei. Un
tipo ha reagito all’indicibile orrore della Shoà giurando di fare ogni cosa per
assicurarsi che non capiti di nuovo al nostro popolo. L’altro tipo di ebrei,
invece, ha tratto come lezione, dallo stesso terribile evento, di dover fare
qualunque cosa possano per assicurarsi che non capiti più ad alcun popolo, in
alcun luogo. Joe,” proseguiva, “voglio che tu mi prometta che sarai sempre il
secondo tipo di ebreo”. L’aveva promesso, e lo era. Il primo tipo di ebreo,
rappresentato per la maggior parte da sionisti e quindi, nel mio linguaggio, in
realtà da “ex ebrei”, è andato tanto avanti da trasformare senza vergogna la
Shoà stessa in una mazza con cui bastonare qualunque critico che abbia la
temerità di mettere in questione quel che fanno ai palestinesi, apparentemente
per autodifesa. (Vedi il libro The Holocaust Industry, di Norman Finkelstein).
Qualunque critica del sionismo, non importa quanto lieve e giustificata, è
considerata uguale all’antisemitismo, dove antisemitismo è diventato
un’espressione stenografica per indicare persone che hanno qualche
responsabilità della Shoà e che in realtà sperano ve ne sia un’altra. Questa è
un’accusa molto pesante, che si è dimostrata molto efficace a ridurre al
silenzio molti potenziali critici. Non è una coincidenza, quindi, che
l’impressionante ripresa dell’interesse mediatico per l’Olocausto compaia in un
momento in cui il sionismo ha il massimo bisogno di un tale mantello (sudario?)
di protezione. In questo processo, si abusa cinicamente della peggiore
violazione dei diritti umani nella storia per razionalizzare una delle peggiori
violazioni dei diritti umani del nostro tempo. La madre di Joe Murphy si
aspetterebbe che il secondo tipo di ebrei fosse il primo a farlo notare ed a
condannarlo. Questo lascia da parte la questione della sicurezza. I sionisti
insistono che, creando i loro stato, hanno migliorato la sicurezza degli ebrei,
non solo in Israele, ma ovunque. Sfortunatamente, l’abominevole trattamento da
parte di Israele dei palestinesi, insieme all’ipocrisia, degna di un Wiesel, ed
agli affronti sempre più arroganti verso la comunità internazionale, hanno
creato più vero antisemitismo, non solo in Paesi arabi, ma in tutto il mondo,
di quanto non sia probabilmente mai esistito. In questo momento, i sionisti si
sentono al sicuro dalle inevitabili ripercussioni delle loro politiche in virtù
del riparo steso su di loro dagli alleati americani. Con lo stupore del mondo
intero, eccetto, sembra, della maggior parte degli americani, il successo del
sionismo nell’accaparrarsi il supporto politico USA è stato senz’altro
straordinario. Per quanto riguarda il conflitto in Terra Santa, gli americani
potrebbero praticamente fare a meno di scegliere fra Democratici e
Repubblicani, votando direttamente per Sharon. Gli ebrei ortodossi, come
sappiamo, assumono un non ebreo (o shabbes goy) perché accenda loro le luci di
shabbat. Israele, che pure ha molte cose che non può far da sé, è riuscito ad
acquisire il governo USA come proprio shabbes goy: questo paga persino le
bollette dell’elettricità. Se questo non è un miracolo lassù in alto, con Dio
che divide il Mar Rosso, allora dobbiamo imparare com’è successo: non lo
sappiamo davvero, non ancora, non in dettaglio.
Ogni
buona spiegazione, naturalmente, dovrebbe rintracciare i rapporti fra il
governo israeliano, la lobby sionista (nelle sue varie dimensioni), i fondamentalisti
cristiani (che credono che il secondo avvento di Gesù non avverrà fino a che
tutti gli ebrei non siano riuniti in Israele), entrambi i partiti politici USA,
gli elettori ebrei, gli interessi della classe capitalista americana
all’espansione politica ed economica. Perché, per quanto influente Israele sia
stato nel determinare la politica estera americana in Medio Oriente, non
avrebbe potuto avere tanto successo se i suoi interessi non si fossero
sovrapposti in notevole grado con i progetti imperialisti della nostra classe
di governo. Per quanto riguarda la componente sionista in questa relazione, il
passo chiave fu probabilmente compiuto dal governo israeliano nel 1977, quando
Begin e il Likud, giunti al potere, decisero di stringere rapporti più stretti
con i fondamentalisti cristiani negli Stati Uniti (70 milioni di aderenti), per
aiutarli a diventare una lobby politica più efficace ed una per la quale
fossero al primo posto gli scopi del sionismo. Netanyahu, dal lato israeliano,
e Jerry Falwell (che ha ricevuto il prestigioso Premio Jabotinsky e… un jet
privato da Israele), dal lato americano, sono stati particolarmente attivi
nello sviluppare questa alleanza, secondo l’articolo di Donald Wagner su
Christian Century, “Evangelicals and Israel”. L’Amministrazione di Bush II
offre solo la dimostrazione più recente di quanto abbia funzionato bene questa
strategia. Se i Democratici dovessero eliminare i Repubblicani dalla carica, o
in questa elezione, non giunta al termine, o nella prossima, il supporto del
nostro governo per Israele non diminuirebbe affatto: la lobby sionista – in
questo caso, con l’aiuto del voto ebraico, la massima parte del quale va ai
Democratici – è ancora più influente nel partito di Kerry.
Questa
relazione speciale con Israele è tuttavia improbabile che resti stabile, dal
momento che le basi su cui si regge sono rapidamente erose. Tanto per
cominciare, la maggioranza del popolo americano, come mostra ogni sondaggio,
non è mai stato tanto filosionista quanto il/i suo(i) governo/i; le
inclinazioni positive, che esistono, sono state seriamente messe sotto tensione
dalla risposta inumana di Israele all’intifada. Se era possibile considerare
Israele, nelle guerre con il mondo arabo, come un piccolo Davide, che teneva
testa ad un forte Golia, la repressione brutale, da parte del suo esercito, di
un popolo palestinese praticamente disarmato ha capovolto l’analogia: Israele
ora appare come il Golia che angaria. Con nuovi omicidi, nuovi ferimenti, nuove
umiliazioni, più distruzioni di case, più rapine di terra ed acqua, ed ora il
costruire ogni giorno un muro dell’apartheid (spesso alla TV), le politiche
israeliane fanno altresì dubitare della storia ufficiale di Israele, che si
descrive come vittima dello stesso tipo di terroristi che hanno bombardato New
York (degna quindi della nostra simpatia e del nostro aiuto), anziché come una
delle principali istigatrici della violenza musulmana in tutto il mondo. Oltre
a ciò, la crescente impopolarità della guerra in Iraq (una guerra interminabile,
che non avrebbe mai dovuto essere iniziata), della quale Israele e chi più
fortemente lo appoggia, entro il governo USA, erano, come minimo, fra i più
vivaci sostenitori, sta anche producendo effetti sugli atteggiamenti americani
verso Israele. Infine, la crescente insicurezza circa le forniture di petrolio
mediorientale, che ha effetti sui prezzi e sui profitti nell’intera economia –
causata dalle guerre, ma anche dalla crescente barbarie di Israele (con cui gli
Stati Uniti sono inevitabilmente identificati) verso il popolo arabo – ha
cominciato a dividere gli interessi israeliani da quelli del capitalismo USA.
Non passerà molto tempo – se già non è avvenuto – prima che un’importante
sezione della classe capitalista dominante americana inizi a richiedere l’adozione,
da parte del governo USA, di un nuovo approccio verso Israele. Quando la massa
del pubblico americano si accorgerà finalmente dei costi enormi, e sempre
crescenti, in termini di sangue e di denaro, che ha il servire come shabbes goy
di Israele – costi che si presentano, come ora avviene, in un periodo di tagli
profondi al budget per ogni tipo di programmi governativi popolari –, l’ondata
antisemita potrebbe minacciare la sicurezza degli ebrei, e di tutti i tipi di
ex ebrei, ovunque.
L’antisemitismo
è spesso interpretato come un odio irrazionale verso gli ebrei, non per quel
che pensano o che fanno, ma per quel che sono. Questo è scorretto, perché vi
sono dei motivi: solo che sono cattivi motivi, o perché sono falsi (come che
gli ebrei usino il sangue di bambini gentili per fare le matzot per Pessach), o
perché sono esagerati, antichi, irrilevanti, o perché – se li riguardano in
alcun modo (come che gli ebrei siano ricchi, ecc.), concernono solo pochi.
Questo è il motivo per cui odiare tutti gli ebrei non è solo irrazionale ma
ingiusto, e, come sappiamo, i risultati sono spesso stati omicidî. Con questa
storia, ogni ebreo, così come ogni non ebreo umano ed equanime, deve opporsi
all’aumento dell’antisemitismo con tutte le sue forze. Che questa storia,
dolorosa com’è, non dia agli ebrei alcun diritto di commettere crimini in
proprio dovrebbe essere evidente. È mostruoso che criminali ebrei rispondano ai
loro accusatori incolpandoli di antisemitismo: questo anche se, come nel caso
dei sionisti, ritengono che i loro crimini servano agli interessi del popolo
ebraico, ed anche se sono riusciti – un altro miracolo? – a far sì che la terza
edizione del Webster International Dictionary abbia definito l’antisionismo una
forma di “antisemitismo”. Nel pretendere che vi sia un’equazione fra
antisionismo ed antisemitismo, naturalmente, i sionisti corrono il pericolo che
la gente accetti la logica di questa posizione, ma non l’uso che ne fanno.
Secondo questa logica, si deve essere insieme antisionista e antisemita, o
nessuna delle due cose. L’ipotesi è che, di fronte a questa scelta, la maggior
parte dei critici onesti faccia semplicemente i bagagli e se ne vada. Ma, dato
il peggiorare del dossier sionista in Palestina, la scelta potrebbe essere
quella opposta. E cioè, alcuni oppositori del sionismo, che vengono convinti
dalla logica qui esposta, e da nient’altro, potrebbero ora diventare anche
antisemiti. Invece di ridurre il numero degli antisionisti, questo modo di
affrontare la questione sta probabilmente creando più antisemiti. Se ne può
solo concludere che, come polizza di assicurazione contro pogrom futuri,
Israele non solo non vale alcunché, ma è decisamente pericolosa per la salute
di coloro che vi hanno messo fiducia e denaro.
A
questo punto, se non prima, molti lettori mi criticheranno perché sembra che io
tratti i sionisti come se fossero tutti uguali. Sono consapevole, naturalmente,
delle molte differenze nel campo sionista, e sono pieno di ammirazione per gli
sforzi coraggiosi dei sionisti più progressisti ed umani nel Meretz, in Peace
Now, nella Tikkun Community, fra altri gruppi, per opporsi all’establishment
israeliano. Non possono andare esenti dalla mia analisi, tuttavia – e non solo
perché le loro riforme sembrano votate al fallimento, dal momento che condividono
almeno alcuni degli assunti fondamentali su cui si basa il sionismo (sia nella
versione Likud, sia in quella Labour). Impiantare uno stato in cui solo gli
ebrei avrebbero avuto la piena cittadinanza, farlo in una terra già abitata da
milioni di non ebrei, cercare di rispondere all’antisemitismo nel mondo con
un’ostentazione di potenza ebraica, tentare di far sì che gli ebrei, ovunque,
si sentissero più sicuri perché ora avevano una terra in cui fuggire (in caso
se ne fosse presentata la necessità), cercare di razionalizzare tutto questo
con una combinazione di mito religioso e dell’esperienza della Shoà – tutto
questo è al cuore del sionismo, ma è anche la logica inerente a tutti questi
modi di vedere che ci hanno portati all’attuale impasse. E non vedo come
avrebbe potuto essere altrimenti. Le occasioni in cui pare che la storia di
Israele avrebbe potuto svilupparsi in modo diverso sono solo chimere per
salvare la faccia. Inoltre, è solo rifiutando da cima a fondo questi modi di
vedere che possiamo considerare il sionismo e la situazione che ha determinato
per quello che realmente sono, iniziando ad orientarci, di conseguenza,
ideologicamente e politicamente.
Per
esempio, ideologicamente, non è più necessario accettare che Israele ci
presenti lo scontro di due diritti, come si esprimono alcuni sionisti moderati,
e persino socialisti. Vi è un diritto: i sionisti, che sono gli invasori e gli
oppressori, sono nel torto. Solo le ipotesi alla base del progetto sionista
hanno fatto sì che alcuni non se ne accorgessero. Significa anche che non
possiamo considerare la violenza perpetrata dal governo sionista contro gli
arabi, e dagli arabi contro gli ebrei in Israele, oggi, nello stesso modo.
Certo, mi possono rincrescere, e mi rincrescono profondamente, tutte le
uccisioni e le distruzioni che si verificano; simpatizzo e soffro più di quanto
io non riesca ad esprimere per le vittime ed i loro cari, da entrambe le parti.
Tuttavia solo Israele, il suo governo ed i suoi sostenitori, meritano di essere
condannati; non solo perché hanno fatto uso di aerei e di carri armati ed hanno
ucciso molti più innocenti. Di maggior rilevanza qui è il fatto che è il
governo israeliano che ha il monopolio del potere nel Paese: è il governo che
ha creato le regole di questo macabro gioco, al quale i palestinesi sono
obbligati a partecipare in condizioni orrende. Il governo israeliano – solo
esso – può cambiare le regole e le condizioni in qualunque momento: quindi deve
essere considerato responsabile perché le mantiene così come sono. È il vero
terrorista: non come quei poveracci che sono stati fatti tanto impazzire
dall’escalation dell’oppressione e dall’umiliazione ad essa associata da
diventare disposti ad usare come arma il loro corpo. È il terrorismo di stato,
non il terrorismo dei singoli, il problema principale da affrontare per
chiunque voglia por fine a questo conflitto: questo si deve riflettere nelle
nostre tattiche. Sharon ha ragione almeno in un aspetto: Arafat era
irrilevante. Così pure, forse sfortunatamente, lo sono gli altri palestinesi,
quando il problema è come arrivare ad una pace stabile. Invece di accusare i
palestinesi di avere alcune responsabilità per il conflitto, e di diffondere
qualunque effetto possiamo avere, ogni attenzione dovrebbe andare al porre sotto
pressione, sotto ogni tipo di pressione, Israele. Politicamente, questo
significa evitare qualunque genere di associazione con questo stato criminale
(come avevamo fatto in precedenza con il Sudafrica), boicottandolo
economicamente ed in altro modo (tenendolo fuori dalle Olimpiadi, ad esempio),
mettendo i nostri politici sotto pressione perché pongano fine a tutto l’aiuto
USA (tanto privato quanto pubblico) ad Israele, dando supporto a varie sanzioni
(incluse quelle commerciali) contro di esso, richiedendo risoluzioni le più
vigorose possibili presso l’ONU ed in altri forum disponibili, denunciando gli
abusi sionisti dei diritti umani, e, naturalmente, affrontando a testa bassa la
lobby sionista, che si contrapporrebbe a tutto ciò. Azioni simili andrebbero
intraprese in Europa ed altrove, ma, dato il potere americano nel mondo in
genere ed in Israele in particolare, è nel nostro Paese che si deciderà la
sorte del popolo palestinese – e, in definitiva, anche dell’ebraismo e di quel
che è rimasto del popolo ebraico. Mentre isolare Israele nei modi che ho
suggerito danneggerebbe indubbiamente coloro che, entro i suoi confini,
lavorano per cambiare le politiche del governo, nel contempo li aiuterebbe,
innalzando a livelli inaccettabili il costo di dette politiche. Ciò che è
chiaro è che per quegli ebrei, la cui coscienza non si ferma alla linea
ereditaria, il silenzio, la moderazione e l’equidistanza non sono più fra le
opzioni possibili, se mai lo sono state. I regimi oppressivi, dopo tutto, hanno
raramente avuto bisogno di qualcosa di diverso da un sostegno passivo, ed
incompleto, per fare i loro affari. Insieme con il crescente numero di ebrei
che difendono apertamente il comportamento inumano di Israele, questi ebrei,
spesso in buona fede, alimentano anche lo stereotipo antisemita che tutti gli
ebrei sono complici dei crimini del sionismo, meritando quindi l’odio evocato
da detti crimini. Non è questo ciò che la maggior parte degli ebrei hanno
pensato della passività dei cosiddetti “buoni” tedeschi durante il periodo
nazista? Quanto ha contribuito la loro passività, in un’epoca in cui
intraprendere ogni azione era molto più pericoloso di quanto non sia per noi
oggi, all’ostilità provata da così tanti ebrei verso tutti i tedeschi? Una
lotta generalizzata contro il sionismo da parte degli ebrei, quindi, è anche il
modo più efficace di combattere il vero antisemitismo.Inoltre, se il sionismo è
davvero una forma particolarmente virulenta di nazionalismo, e, sempre più, di
razzismo, e se Israele si sta comportando verso la propria minoranza
prigioniera in modi che assomigliano sempre più a come i nazisti trattavano i
loro ebrei, allora dobbiamo anche dirlo. Per ovvi motivi, i sionisti sono molto
sensibili all’essere paragonati ai nazisti (non così sensibili che ciò abbia
posto limiti al loro agire, ma abbastanza per muggire “ingiusto!” e per
accusare di “antisemitismo” quando ciò avviene). Tuttavia i fatti sul terreno,
se non oscurati da una o dall’altra razionalizzazione sionista, mostrano che i
sionisti sono i peggiori antisemiti nel mondo d’oggi, opprimendo un popolo
semitico come nessuna nazione ha fatto, dopo i nazisti. No, i sionisti non sono
ancora così malvagi come i nazisti, non ancora, ma il mondo non è testimone di
una pulizia etnica strisciante contro i palestinesi, proprio in questo momento?
Se i sionisti (ed i loro sostenitori) trovano questo paragone eccessivamente
oltraggioso ed ingiusto, hanno solo da smettere di fare quel che stanno facendo
(e sostenendo): temo però che la logica della loro posizione li conduca in
futuro solo a commettere (ed a sostenere) atrocità ancora maggiori, incluso il
genocidio (un’altra specialità nazista), di quelle che hanno commesso fino ad
ora. Cos’ha mai questo sionismo a che fare con i tradizionali valori ebraici?
Per
quanto mi riguarda, il comico Lenny Bruce ha fornito l’unica buona risposta a
questa domanda, dicendo: “Accidenti, sono ebreo. Count Basie è ebreo. Ray
Charles è ebreo. Eddie Cantor è un goy…. Il Corpo della Marina – molto goy.… Se
vivi a New York o in qualunque altra grande città, sei ebreo. Se vivi a Butte,
nel Montana, sei un goy anche se sei ebreo… Kool-Aid è goy. Il latte evaporato
è goy anche se sono stati ebrei a inventarlo… Il pane di segale è ebraico, e,
come sai, il pane bianco è molto goy…. I negri sono tutti ebrei…. Gli irlandesi
che hanno rifiutato la loro religione sono ebrei…. Il twirling è molto goy”
(Lenny Bruce: Let the Buyer Beware).
A
questo aggiungerei solo: “Noam Chomsky, Mordechai Vanunu, Edward Said sono
ebrei. Elie Wiesel è goy, come anche tutti i neocons ebrei lo sono. Socialismo
e comunismo sono ebraici. Sharon e il sionismo sono molto goy”. E, chissà, se
questa lettura dell’ebraismo dovesse far presa, un giorno potrei far domanda di
riammissione nel popolo ebraico.
Pubblicata per la prima volta il 1 gennaio 2005 sulla
rivista Tikkun.
Bertell Ollman (Milwaukee, 30 aprile 1935), professore
presso il dipartimento di studi politici della New York University. Insegna
sociologia ed è autore di una dozzina di libri sul marxismo e il socialismo.
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