Cambiare il paradigma scientifico educazionale. Per contrastare il dominio dell'inglese e per rendere effettivo il calcolatore.
Introduzione
Da tempo l’attività scientifica e tecnica, e in particolare quella
elettronica, si basa su due caratteristiche chiave, l’uso della lingua inglese
e l’impiego del calcolatore sia per calcolo e simulazioni, che per
rappresentare l’informazione. Le comunità tecnico scientifiche riconoscono
quelle prassi come fondamento e condizione necessaria per la validazione e la
descrizione delle scoperte. L’uso dell’inglese e del calcolatore sono una
consuetudine consolidata, diventata ormai un paradigma. Lo studio deve
conformarsi a quel paradigma e ciò vale, in particolare, per gli studente che
vogliono diventare membri di quella comunità scientifica con la quale più tardi
dovranno collaborare. Come insegna Thomas S. Kuhn, i ricercatori e scienziati
apprendono i fondamenti della loro disciplina secondo uguali modelli concreti,
e la loro attività successiva sarà in accordo con quelle regole fondamentali di
tradizione di ricerca. Ci sono punti fermi, descritti in libri e manuali
scientifici scritti in inglese che descrivono teorie riconosciute come valide e
che illustrano molte o tutte le applicazioni coronate da successo e confrontano
queste applicazioni con osservazioni ed esperimenti.
Esistono però limiti fondamentali all’approccio, principalmente dovuti
all’uso della lingua inglese. È pur vero che comunicare in inglese è
importante, perché collega tra loro realtà distanti, territorialmente e
culturalmente. Nelle occasioni di incontro di ricercatori e tecnici provenienti
da più parti del mondo, si possono condividere e formulare nuove idee,
raffinare soluzioni e migliorare, globalmente, le capacità produttive. La
collaborazione in ambito scientifico e tecnologico ha anche effetti benefici
sull’innovazione specie se fatta da gruppi eterogenei, dato che le diverse
“culture” compensano o annullano vicendevoli i pregiudizi cognitivi.
Il problema comunque è l’inglese. Questo è un grande vantaggio per i
madre-lingua ma è un notevole svantaggio per gli altri. L’attività scientifica
e tecnica non prescinde dalla propria cultura, identità e, in particolare, la
lingua, il cui ruolo influenza da sempre ogni aspetto della vita. Dover usare
l’inglese da un lato obbliga a “tradurre” i messaggi ma, ancor più, distorce le
sensazioni che vengono scambiate con gli interlocutori madre-lingua. In
aggiunta, si corre il rischio di iniziare a pensare in inglese, perdendo in
questo modo aspetti culturali specifici della propria identità, senza diventare
abili nelle attitudini anglosassoni. Questo secondo aspetto è rilevante, dato
che le capacità matematiche e scientifiche degli anglosassoni sono limitate i
quali, invece, hanno predisposizione ad aspetti organizzativi. Ne consegue una
distinzione gerarchica tra chi produce innovazione e chi viene padroneggiato da
chi è esperto in gestione. Questo è, in effetti, quello che succede
frequentemente nelle Università americane: il professore non genera idee:
queste sono frutto della creatività degli studenti stranieri, ma si occupa del
procacciamento di fondi e di questioni di politica universitaria.
Differenze culturali e apprendimento
La cultura è, in senso antropologico ed etnologico, quel patrimonio sociale
di una popolazione che viene tramandato di generazione in generazione. Esso
comprende il modo di vita, le ideologie, le norme, i valori che si sono
sviluppati e che influenzano l’attività entro la società. La loro trasmissione
tra le generazioni dipende dall’efficacia dell’apprendimento. Lo studioso Geert
Hofstede nel 1991 ha individuato quattro categorie per misurare la tendenza
all’apprendimento linguistico. Possiamo usare alcuni degli stessi parametri per
misurare la predisposizione all’apprendimento tecnico-scientifico.
I parametri di Hofstede sono: distanza emotiva tra docente e studente,
l’individualismo in opposizione al collettivismo, il genere e il rifiuto
dell’incertezza. Questi quattro fattori sono influenzati dall’uso di una lingua
non madre. La distanza emotiva tra “docente e studente” viene distorta. Nelle
culture dove si da molta importanza alle relazioni gerarchiche, e si ha
rispetto non solo alla “fonte di sapere” ma anche alla figura che lo trasmette.
Si genera un improprio ossequio per che usa solo e in modo fluente la lingua
straniera. Laddove c’è un grande rispetto, l’insegnate non solo è considerato
fonte di sapere ma anche è un modello di comportamento. Ne consegue che, anche
se in modo indiretto, attraverso la lingua straniera vengono impartiti modi di
pensare e qualità morali e comportamentali non conformi alla propria cultura e
tradizione. Per quanto riguarda il secondo parametro, l’uso di una lingua
straniera limita le attività collettive; di conseguenza, spinge verso
l’individualismo. Nelle società collettivistiche, dove l’apprendimento è
favorito dalla collaborazione e da gruppi di studio, come ad esempio in Cina,
la spinta verso l’individualismo porta a una minore efficacia
dell’apprendimento. Il livello di incertezza è aumentato dall’uso di una lingua
straniera. Si rende più difficile la memorizzazione, non solo quella
superficiale ma anche quella che implica la comprensione di quanto appreso.
Colonialismo Linguistico
Pur se non è così evidente, il processo di colonizzazione, che è la
tendenza di certe nazioni ad espandersi e dominare altre realtà per il
controllo e supremazia economica, non è solo ottenuto con mezzi militari, ma
anche con altri strumenti; in particolare, l’esportazione della cultura,
dell’organizzazione, dell’architettura delle città, dei modelli educazionali e
della lingua. Il risultato lo si può ottenere in modo impositivo, ma molto
meglio in forma nascosta. La tecnica è molto antica: venne inizialmente usata
dai romani per la sottomissione della Britannia. I conquistatori favorirono la
romanizzazione della provincia edificando città conformi allo stile romano, e,
come riferisce Tacito, “ammaestrando i figli dei capi nelle arti liberali … in
modo che lo sdegno verso la lingua di Roma si trasformasse in ossequio per la
sua eloquenza. … Anche il modo di vestire dei romani divenne apprezzato … “. Il
progetto era, in definitiva, quello di esportare e imporre la propria cultura e
lingua come superiore, in modo che le persone la accettassero in modo positivo
e non come lo sradicamento dei propri use e tradizioni.
L’importanza della esportazione della lingua inglese fu ben argomentata da
Winston Churchill che in un discorso che fece nel 1943 agli studenti di
Harward, disse:
“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga
superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo
sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”
Si deve allora supporre che l’uso dell’inglese, pur per comunicazioni
tecnico-scientifiche, abbia alcuni inconvenienti. E questi sono molto più del
costo, non trascurabile, che si deve sostenere per imparare la lingua, per
pagare l’ausilio necessario a produrre manoscritti in inglese fluente e, sempre
più, per scrivere proposte per finanziare la propria attività
tecnico-scientifica.
Uno studio fatto su 900 ricercatori ha mostrato che quelli non madre-lingua
impiegano un doppio del tempo per leggere, scrivere o revisionare pubblicazioni
in inglese. La probabilità di vedere rifiutato un articolo per motivi
linguistici è 2,5 volte maggiore dei madre-lingua. Le difficoltà incontrate
sono spesso legate a motivi stilistici o sintattici piuttosto che al contenuto
scientifico delle pubblicazioni. Ne risulta che a parità di capacità
tecnico-scientifica gli studiosi non madre-lingua hanno anche ridotte
opportunità di impiego in istituzioni internazionali.
Tra gli altri inconvenienti c’è anche l’estromissione della lingua
nazionale da ambienti “di prestigio” come università, centri di ricerca e
laboratori scientifici. Come conseguenza c’è la riduzione a un secondo livello
dell’importanza della lingua nazionale, che diventa pertanto la lingua parlata
da fasce sociali “basse”.
L’uso del calcolatore
È innegabile che il calcolatore è ormai indispensabile per ogni attività e,
specialmente, nel trasferimento della conoscenza scientifica e tecnica, ovvero
per l’educazione a tutti i gradi di formazione. Non serve illustrarne i
notevoli vantaggi, è invece opportuno discuterne gli inconvenienti. In
particolare, è utile analizzare i limiti che riguardano sia la comunicazione
scientifica che l’efficienza educazionale.
Gli studiosi fino a pochi decenni fa usavano carta, penna e la stampa
tipografica. La carta e la penna servivano per fermare le idee e sintetizzare i
ragionamenti. Sono ben note le pratiche di scienziati che tramettevano i loro
pensieri scarabocchiando su tovagliolini di carta o ricevute del ristorante. La
carta o solo la penna erano anche importanti per gli studenti che prendevano
appunti alle lezioni o sottolineavano e scrivevano note a margine nei libri.
Per la comunicazione scientifica, la stampa tipografica ha fatto da padrona
per centinaia di anni. C’erano (e ci sono tuttora) libri di testo, riviste
scientifiche, manuali, tutti ben classificati in biblioteche. Il sistema non
era ottimale, dato che che l’accesso all’informazione era spazialmente limitato
ed era economicamente problematico. Ma chi voleva e aveva risorse, superava gli
inconvenienti e, eventualmente, aveva una propria biblioteca personale di
piccole o anche grandissime dimensioni. Ci sono molti vantaggi nell’uso della
carta stampata. I libri sono di facile uso, richiedono attenzione e
concentrazione, emanano sensazioni che vanno oltre al messaggio letto, come
l’odore della carta, il tatto e il fruscio delle pagine. I libri consentono
pause, la loro lettura è cadenzata dal lettore, rendendo facile la rilettura di
particolari già letti. Infine, un aspetto di fondamentale importanza, è la
durabilità nel tempo. Pur essendo “fragili” i libri resistono all’usura del
tempo per centinaia di anni. Io, ad esempio, ho, tra gli altri, riposti su uno
scaffale, un libretto intitolato Teatro Antico Italiano (tomo secondo) stampato
a Londra nel 1786, una copia del primo volume della Divina Commedia del 1852
(Tipografia di Pietro Fraticelli) e Gli amori pastorali di Dafne e Cloe,
tradotto da Annibal Caro e stampato nel 1800. In biblioteche molto più serie si
trovano pubblicazioni ben più remote. Non è forse chiaro a cosa servano queste
anticaglie, dato che, se utili, si possono scansionare e metterle in rete. Poi,
si possono anche bruciare. Il loro significato, comunque, è che la forma
tipografica dell’informazione dura tantissimo e, molto più importante “lascia
un segno”. E questo, a mio avviso è la cosa più rilevante.
Con l’avvento del calcolatore e con la credenza che la carta danneggi
l’ambiente, il modo di comunicare è completamente cambiato. Le scritte e le
figure nascono e muoiono in pochi minuti sopra di un monitor o un display,
senza dare la possibilità di annotazioni o sottolineature. Le lezioni e le
presentazioni sono fatte con schermate che si susseguono velocemente senza
avere (tipicamente) il tempo di una reale comprensione. Nel campo scientifico
il tradizionale scambio di informazioni tra studiosi che era attraverso
pubblicazioni cartacee, la ricerca nei cataloghi delle biblioteche, la
discussione nei convegni e seminari, è diventato tutto informatico. I documenti
sono quasi esclusivamente digitali, disponibili ovunque e trasferiti
direttamente nella casa o nell’ufficio dell’utente. Si dice che, oltre che
ridurre i tempi di comunicazione, si ha una diminuzione dei costi. Gli autori
possono trasmettere direttamente il contenuto di un articolo, lo aggiornano e
interagiscono per il suo miglioramento usando strumenti informatici. Bel
vantaggio, la velocità esecutiva! O, … forse, no.
La circolazione delle idee è resa semplice e immediata, ma il problema è la
qualità delle idee. Purtroppo, le società moderne misurano l’innovazione a
peso, indipendentemente dalla qualità. Nelle università si avanza in carriera
se si pubblica tanto e con certi buoni parametri che, ahimè, hanno una minima
relazione con la qualità, quella che dura nel tempo. Il risultato è che di
documentazione scientifica ce n’è in abbondanza, e districarsi diventa quasi
impossibile.
Un aspetto essenziale riguarda il diritto d’autore (o copyright). Questo,
se si vuole pubblicare, viene ceduto alla rivista o all’editore. Una volta,
tale cessione mirava alla diffusione reale della conoscenza attraverso la
stampa tipografica. Chi acquistava il libro o la rivista aveva la reale
disponibilità del prodotto nella forma di scritto su carta. Oggi, invece, il
prodotto è disponibile in modo virtuale. Solo se si scarica il testo si ha una
reale disponibilità, pur informatica. Frequentemente, i testi sono letti sul
monitor e, al massimo, vengono spediti su quella frazione di nuvola che si ha a
disposizione. Il risultato è che la cessione del diritto d’autore non è per una
effettiva distribuzione della informazione ma per creare, in pratica, un
monopolio egemonico di chi prende il possesso dei dati. Una rilettura di un
testo, che è gratuita nel caso di carta stampata, invece, dipende dalle regole
dell’egemone che verifica se l’abbonamento è ancora valido, può stabilire nuove
regole d’uso, decidere di cancellare l’informazione o negarne l’accesso.
La durabilità è un altro fattore critico. I metodi di conservazione dei
dati evolvono nel tempo. Negli anni ’50 c’erano i nastri magnetici, Poi vennero
gli hard-disk. Negli anni ’70 si usavano i floppy disk, seguiti poi dai CD-ROM,
dai DVD e più recentemente dalle chiavette USB e le memorie flash. Infine, (per
il momento) ci sono i servizi di cloud storage. Memorie remote dove l’utente
“salva” i propri dati accedendo con una connessione web. A questo punto è
lecito chiedersi quanto si sia salvato dei dati che erano, ad esempio, sui
floppy disk di tempo fa. Io, personalmente, ricordo di averne buttati in gran
quantità, senza avere la possibilità pratica di cernita e di trasferimento su
supporti più moderni. Il risultato è che la durabilità dei dati è poco più di
una generazione delle unità di “conservazione” dei dati stessi. Al massimo
vent’anni.
Una conseguenza “a latere” è che l’uso del computer non “lascia segni”. Una
civiltà è caratterizzata da “segni” che i posteri ammirano con stupore. Ci sono
siti archeologici e grandi realizzazioni che vengono visitate da migliaia di
persone. I musei raccolgono oggetti e manufatti prodotti dagli antenati. Nelle
università ci sono raccolte di strumenti scientifici e manoscritti di
scienziati famosi. L’era attuale, al contrario, non lascia nulla! Non ci sarà
nulla di cui ricordarci! C’è solo del software e quel poco di hardware che c’è
diventa obsoleto e gettato via poco dopo. E questo, da un punto di vista
sociale, non è un gran risultato: saremo considerati una generazione
invisibile.
Cambiare il paradigma scientifico educazionale
La conclusione di questa lunga analisi della modernità è che esistono, in
aggiunta ai vantaggi, delle negatività significative. Cosa fare, specie per
l’educazione tecnico-scientifica, è un argomento di urgente analisi. Solo un
dibattito e attente proposte possono trovare la via da seguire.
Sono punti molto veri, purtroppo il "nemico" da battere è la comodità: si possono creare e preservare sistemi migliori senza una lingua franca e supporti digitali?
RispondiEliminail problema è che lingua franca e supporti digitali diventano esclusivi :(
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