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articoli di Carlo Tombola, Manlio Dinucci e Raniero La Valle e interviste a Ennio Cabiddu e Antonio Mazzeo
AZIENDE ITALIANE SEMPRE PIÙ IMPLICATE NELLE GUERRE IN CORSO – Weapon Watch
Con due articoli sulla Leonardo Spa, l’osservatorio the Weapon Watch inizia la pubblicazione di analisi dedicate ad alcune aziende operanti in Italia, tra quelle più implicate nei conflitti armati in corso, soprattutto in quelli che registrano gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Questa serie di articoli, in parte basati sull‘Atlante dell’industria militare in Italia in via di pubblicazione a cura di Weapon Watch, vuol essere anche una risposta concreta ai ripetuti attacchi governativi alla Legge 185 del 1990 e alla trasparenza che questa impone in materia di esportazione di armamenti: una trasparenza che evidentemente disturba, e non da oggi, operatori privati e decisori pubblici, ma che ora potrebbe rendere cosciente l’opinione pubblica italiana del rapido scivolamento verso uno stato di guerra permanente. Più volte aggirati, quando non apertamente violati nella lettera e nello spirito, la Legge 185 e il Trattato internazionale sul commercio delle armi del 2014 sono gli ultimi baluardi per un’informazione indipendente nei riguardi di un settore economico colluso con la politica, e la cui crescita incontrollata mina alle fondamenta tanto lo stato sociale quanto le garanzie democratiche.
LA MENZOGNA DI LEONARDO IN RISPOSTA AL PAPA – Weaponwatch
Dobbiamo smentire l’azienda delle armi sotto controllo governativo: nella guerra di Israele contro la popolazione palestinese non solo sono presenti armi di Leonardo, ma queste sono state impiegate in azioni di bombardamento indiscriminate su aree urbane densamente abitate.
Su siti specializzati anche italiani è circolato un breve filmato attribuito alle Forze armate israeliane (IDF), in cui si mostrano navi da guerra al largo dalla costa di Gaza che sparano e colpiscono le aree urbane settentrionali della Striscia. Il bombardamento su aree abitate da popolazione civile è stato effettuato con cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62 Multi-Feeding da 76mm, costruiti nello stabilimento Leonardo (ex Oto Melara) della Spezia.
Tali cannoni sono stati consegnati alla Marina militare israeliana nella base navale di Haifa il 13 settembre 2022 con apposita cerimonia, e montati su due nuove corvette della Marina militare israeliana.
Le corvette impegnate nella loro prima azione in battaglia sono INS Magen e INS Oz, le unità navali più grandi e più moderne della Marina militare israeliana.
Appartengono a una commessa di quattro corvette della classe Sa’ar-6, ordinate nel maggio 2015, costruite in Germania dai cantieri ThyssenKrupp e consegnate tra dicembre 2020 e maggio 2021. All’ordine, il costo di ciascuna era stimato di poco inferiore ai 600 milioni di dollari, sostenuto per due terzi dal governo israeliano e per un terzo da quello tedesco. La ragguardevole spesa era stata a suo tempo giustificata con la necessità di difendere i giacimenti di gas metano che Israele controlla nel Mediterraneo e che sono rivendicati dagli stati confinanti.
Ora sono state impiegate per la prima volta nella guerra interna contro i palestinesi di Gaza, occasione propizia per testare sistemi ed equipaggio, e potranno essere impiegate anche in azioni di guerra contro le postazioni di Hezbollah in Libano.
Ora sono state impiegate per la prima volta nella guerra interna contro i palestinesi di Gaza, occasione propizia per testare sistemi ed equipaggio, e potranno essere impiegate anche in azioni di guerra contro le postazioni di Hezbollah in Libano.
I cannoni Oto Melara 76/62 sono adottati da numerose marine militari nel mondo, tra cui dal 1969 da quella israeliana.
A seconda del tipo di munizionamento, hanno una gittata dai 20 km (munizioni convenzionali) ai 35 km (munizioni Vulcano guidate o non guidate), fino ai 50-70 km raggiunti dai missili antiaerei Barak-8 MR-SAM montati sulle nuove corvette.
Mentre stigmatizza la scelta dei portavoce di Leonardo di negare l’evidenza e persino la storia dell’azienda, l’osservatorio the Weapon Watch ribadisce il proprio impegno a rendere pubbliche le connivenze e gli interessi nascosti dalle aziende italiane più implicate nell’economia di guerra. Invita anche lavoratori e rappresentanti sindacali delle aziende Leonardo a prendere le distanze dalla politica commerciale del gruppo, oggi materialmente a sostegno di regimi autocratici e di paesi gravemente colpevoli di crimini di guerra e di violazioni ripetute del diritto internazionale.
COSA PRODUCE LEONARDO PER ISRAELE – weaponwatch
Leonardo Spa è il primo produttore di armi nell’Unione Europea, il secondo in Europa, il 13° nel mondo (SIPRI).
Però non ama dare di sé un’immagine militarista e ‘muscolare’, preferisce collocarsi in un generico mercato ADS (aerospazio, difesa, sicurezza) e insistere sul proprio profilo ‘sostenibile’, sebbene fare armi significhi alimentare guerre, l’attività umana più distruttiva e senza dubbio insostenibile, per non parlare di quanto sia devastante sul piano energetico e ambientale.
Nei fatti, l’ex Finmeccanica ha perseguito negli scorsi decenni la dismissione di quasi tutti i settori produttivi civili, per dedicarsi al core business della guerra. Nell’ultimo bilancio del 2022 (pubblicato a fine marzo 2023) dichiara che realizza l’83% del proprio fatturato nel settore difesa, avendo quasi solo clienti governativi (88%). Non è neppure davvero un’azienda a capitale ‘italiano’: a parte la quota del 30,2% detenuta dal Ministero delle finanze, il 51,8% del capitale è nelle mani di investitori istituzionali (cioè banche, fondi d’investimento, fondi pensione) per la gran parte britannici e statunitensi.
Quanto Leonardo sia profondamente partecipe dei conflitti armati in corso, lo dimostra la forte connessione con il sistema militare-industriale di Israele. Prendiamo sempre dall’ultimo bilancio, laddove Leonardo definisce in sintesi il proprio profilo: «Leonardo è leader industriale e tecnologico del settore Aerospazio, Difesa e Sicurezza, forte di una presenza industriale in Italia, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Polonia e Israele». Israele non è solo un cliente, ma ospita stabilimenti e dipendenti di Leonardo.
La presenza diretta di Leonardo in Israele si deve a un’operazione conclusasi nel luglio 2022 con l’acquisizione della società israeliana RADA Electronic Industries, specializzata in radar per la difesa a corto raggio e anti-droni (vedi il comunicato della Campagna BDS Italia), e alla conseguente nascita della nuova società israeliana DRS RADA Technologies, che è – si noti – controllata da Leonardo DRS Inc. con sede negli Stati Uniti. Ha 248 dipendenti in tre sedi israeliane (uffici a Netanya, stabilimento principale a Beit She’an, centro ricerche presso il Gav-Yam Negev Tech Park di Beer Sheva), oltre ai nuovissimi uffici a Germantown, Maryland, ai margini dell’area metropolitana di Washington, D.C.
DRS RADA Technologies ha partecipato alla realizzazione di ‘Iron Fist’, un sistema di protezione attivo montato sui nuovi armoured fighting vehicles (AFV, mezzo corazzato da combattimento) delle Israel Defence Forces (IDF), gli ‘Eitan’ a otto ruote destinati a sostituire i vecchi M113. La prima consegna dei nuovi blindati è avvenuta nel maggio 2023, alla 933a Brigata ‘Nahal’, con previsione di effettivo impiego operativo nel corso del 2024. Tuttavia, l’attacco a sorpresa di Hamas, il 7 ottobre scorso, ha comportato un immediato utilizzo dei nuovi mezzi nella battaglia di Zikim, circa 3 km a nord della Striscia di Gaza, nei pressi di una base militare israeliana attaccata dai militanti palestinesi. Successivamente gli Eitan hanno partecipato all’invasione e alle operazioni militari di Gaza. D’ora in avanti, anche i nuovi blindati israeliani e i sistemi di protezione che montano – tra cui i radar tattici di DRS RADA, del gruppo Leonardo – potranno definirsi battle tested.
Non è questo il solo recente contributo di Leonardo alla guerra di Israele contro Gaza e la sua popolazione.
Secondo una tattica già utilizzata in altre precedenti invasioni di Gaza, l’avanzata delle truppe israeliane è accompagnata o seguita da giganteschi bulldozer blindati Caterpillar D9, che utilizzano un’impressionante potenza e un ragguardevole peso (450 HP per oltre 70 tonnellate, nell’ultima versione ‘T’) per il movimento terra, lo sminamento e per distruggere le abitazioni e le strutture palestinesi. Soprannominato in Israele ‘Doobi’ (‘orsacchiotto’), è una macchina temibile, al cui impiego si dovette tra l’altro la morte della militante nonviolenta statunitense Rachel Corrie (1979-2003), schiacciata da un bulldozer militare nei pressi del confine tra Gaza e l’Egitto mentre si opponeva alla distruzione di abitazioni palestinesi.
Anche i bulldozer blindati dell’esercito israeliano saranno dotati dei sistemi di protezione attiva e dei radar tattici di DRS RADA.
Lo scorso 27 dicembre il Dipartimento della difesa USA ha annunciato l’assegnazione di un nuovo contratto alla DRS Sustainment Systems, per un valore di oltre 15 M di $. L’utilizzatore finale non sarà l’esercito americano, bensì quello di Israele, attraverso il meccanismo finanziario delle Foreign Military Sales (VEDI). In sostanza, Israele ha “bloccato” 15.375.000 $ sul conto del credito aperto dal governo americano per poter acquistare questi carrelli, che saranno fabbricati nello stabilimento Leonardo/DRS di West Plains, Missouri. L’ordine non lo specifica, ma potrebbe trattarsi di 70-75 esemplari di HDTT da fornire alle IDF entro l’anno 2026.
La DRS Sustainment Systems, del gruppo Leonardo, ha 7.500 dipendenti e fornisce HDTT alle forze armate di Israele almeno dal 2007, quando mise a punto un prototipo adatto alle esigenze dell’esercito insieme a un partner israeliano, Shladot Metal Works, un’azienda di Haifa che produce soprattutto veicoli militari leggeri e pesanti per le IDF. L’innovativo carrello ha solo due assi, e sta sostituendo i precedenti modelli a 3-4-5 assi di più costosa manutenzione.
GUERRA TOTALE? – RANIERO LA VALLE
Mentre è in corso un genocidio a Gaza non dimentichiamo l’Ucraina e il futuro stesso del mondo. Le notizie sono gravi. Stanno preparando la guerra totale con la Russia. Dovrebbero combatterla la NATO, gli Stati Uniti e l’Occidente. Chi sono i soggetti di questo “stanno” non è del tutto chiaro e interamente noto, altri ce ne sono a cui ognuno può cercare di dare il nome in base alle informazioni oggi disponibili. Il nostro compito qui è di darvi queste informazioni, peraltro assai facilmente fruibili dalla semplice lettura dei giornali. Esse trattano tranquillamente l’ipotesi di una guerra totale con la Russia, (previa a quella con la Cina), a ciò preparando l’opinione pubblica sulla base di verbi tutti usati al condizionale, recanti ardite supposizioni non corroborate da alcun dato di fatto ma solo da pregiudizi e da voci. Se poi sono millanterie si vedrà, ma anche queste possono sfuggire di mano.
Citiamo da queste fonti (nel virgolettato che segue il neretto è una sottolineatura dell’originale, le nostre interpolazioni sono in corsivo).
La “Repubblica” (18 gennaio) riferisce che il giornale “Bild” «ha pubblicato documenti dell’intelligence tedesca sul timore di un attacco (russo) per prendere il Suvalki Gap, corridoio che collega la Bielorussia a Kaliningrad (l’ex Konigsberg). Potrebbe avvenirenel 2025 o anche nel 2024, giustificato per soccorrere i cittadini di origine russa. Il corridoio passa per Polonia e Lituania la cui capitale Vilnius è a 33 chilometri dal confine con la Bielorussia. Quindi un’invasione farebbe scattare l’Articolo V della Nato sulla difesa collettiva. L’Alleanza lo sa bene e ha convocato l’ultimo vertice proprio a Vilnius lo scorso luglio. Da febbraio a giugno (5 mesi) terrà l’esercitazione “Steadfast Defender”, la più grande dalla fine della guerra fredda a cui parteciperanno tutti i 31 Paesi membri in Polonia, Germania e Paesi baltici. La Gran Bretagna ha annunciatoche fornirà 20.000 soldati ma il totale è destinato a superare 40.000 uomini e mezzi» (è ciò che papa Francesco e il capo di Stato europeo che glielo suggerì, chiamerebbero “andare ad abbaiare sul confine della Russia» e che Churchill direbbe “una cortina di ferro innalzata in Europa”).
Ancora “Repubblica”: «Il presidente Biden ha detto che “se non fermiamo Putin in Ucraina il suo appetito crescerà oltre”. La candidata repubblicana (alla Casa Bianca) Nikki Haley ha commentato così: “Putin ha già detto che se vincerà in Ucraina poi toccherà a Polonia e Paesi baltici (quando lo ha detto?). A quel punto saremmo in guerra perché sono Paesi Nato e dovremmo mandare i nostri figli a combattere». E ancora: «Il presidente del Military Committee (della NATO), l’ammiraglio Rob Bauer… ha aperto così la riunione dei 31 leader militari della Nato; “Kiev avrà il nostro sostegno ogni giorno a venire perché l’esito di questo conflitto determinerà il destino del mondo…La Russia teme qualcosa di molto più potente di qualsiasi arma fisica sulla terra: la democrazia…Questa è la vera ragione per cui Putin teme il successo di Kiev, come modello politico e di vita che insidierebbe la stabilità di Mosca. Per difendersi dal pericolo il Cremlino sfrutta la retorica nazionalistica, che ha prima applicato all’Ucraina, ma ora l’allarga ai paesi baltici (dunque l’oggetto della guerra sarebbe ideologico) nella speranza dichiarata (quando?) di ricostruire l’impero sovietico».
Sempre “La Repubblica”: «l’Estonia è in allerta. Nei giorni scori la premier Kaja Kallas ha detto di ritenere probabile un attacco russo all’Europa “nei prossimi tre o cinque anni” confermando vari rapporti dei servizi tedeschi e polacchi. I timori riguardano in particolare i Baltici, dove il Cremlino potrebbe tentare di sobillare le minoranze russofone». Domanda: «“E cosa suggerite per consentire a Kiev di respingere le truppe russe?”. “Un recente documento del nostro ministero della Difesa sostiene che l’Ucraina potrebbe vincere questa guerra se i 40 Paesi del gruppo di contatto di Ramstein stanziassero ciascuno lo 0,25% del loro Pil annuo per l’Ucraina. Il governo estone ha dato l’esempio e ha deciso un aiuto militare a lungo termine all’Ucraina: per i prossimi quattro anni (lungo termine?) l’Estonia è pronta a stanziare lo 0,25% del suo Pil per gli aiuti militari all’Ucraina. Lavoriamo per convincere gli altri Paesi a seguire il nostro esempio”». Domanda: «il presidente ucraino Zelensky ha annunciato a Davos di voler organizzare una conferenza di pace in Svizzera, possibilmente con la Cina (senza la Russia!). È il momento giusto?”. “Per quanto riguarda la pace in Ucraina vediamo il piano di pace di dieci punti proposto dall’Ucraina come l’unico praticabile”».
La stessa “Repubblica riferisce poi delle dichiarazioni fatte da Putin ai sindaci: «Putin ha fatto risalire alle porte aperte dalla Nato a Ucraina e Georgia nel 2008 non solo l’inizio del conflitto in Ucraina, ma anche “una serie di decisioni che hanno portato a ciò che sta accadendo ora in Lettonia e in altre repubbliche baltiche: quando i russi vengono cacciati via. Cose molto serie che influiscono direttamente sulla sicurezza del nostro Paese”». E il giornale commenta: «Se Putin applicasse la sua versione armata della storia imperiale russa, l’elenco dei suoi potenziali obiettivi spazierebbe dalla Finlandia all’Asia centrale fino all’Alalaska… Putin semina. Pianta germogli nello spazio informativo per future aggressioni con il pretesto di difendere i suoi “compatrioti”».
Sulle stesse dichiarazioni di Putin “Il Fatto quotidiano” del 17 gennaio riferisce quanto segue: «”L’Ucraina si rifiuta di negoziare con la Russia”, ha detto Putin aggiungendo: “idioti, tutto sarebbe finito da molto tempo”, e ricordando ancora una volta che erano “d’accordo su tutto” riferendosi ai negoziati poi interrotti, “ma il giorno dopo hanno deciso di gettare tutti gli accordi nella spazzatura, lo hanno ammesso pubblicamente, compreso il capo di quel gruppo di negoziatori… Eravamo pronti, poi è arrivato l’allora primo ministro britannico Boris Johnson e ci ha convinto a non attuare gli accordi”. Questo, secondo Putin, dimostrerebbe che gli ucraini non sono un popolo indipendente”». Ancora di più dimostrerebbe che quando si rifiuta di uscire da una guerra con un negoziato, un accordo o una riconciliazione, resta solo la vecchia logica della guerra, secondo cui se ne esce solo con la vittoria decisa sul campo, e lì decide chi ha vinto, gli Alleati certo non concessero niente alla Germania sconfitta, addirittura la fecero a pezzi. Nessuno l’ha detto a Zelensky (o forse lui non gli ha dato retta) e ora i falsi amici che l’hanno mandato allo sbaraglio, la guerra la devono vincere loro, a spese di tutto il mondo, oppure abbandonarlo, mentre ora Putin dichiara, sempre secondo “Il Fatto”: «”Se la guerra dovesse proseguire così lo Stato ucraino potrebbe subire un colpo irreparabile e molto grave”. Sarebbe infatti “impossibile”, stando al capo del Cremlino, portare via alla Russia i progressi militari effettuati sul campo. Né Mosca cederebbe mai i territori conquistati». Quanto al “destino del mondo” che secondo questi strateghi sarà determinato dall’esito di questo conflitto, esso è così progettato nei documenti sulla Strategia e la Difesa nazionale americane pubblicati nell’ottobre del 2022 dalla Casa Bianca e dal Pentagono (le istituzioni che restano mentre presidenti e ministri passano): si tratta del decennio o dei due decenni decisivi «per far avanzare gli interessi vitali dell’America e per plasmare il futuro dell’ordine internazionale», quando «non c’è nazione meglio posizionata degli Stati Uniti d’America per guidare con forza e determinazione». Saranno loro a superare i loro concorrenti geopolitici e vincere, con il corteo dei loro alleati e partner, la “competizione strategica” con la Russia, considerata come un pericolo immediato, e con la Cina considerata come il vero antagonista a lungo termine capace di reggere la “sfida culminante” lanciatale dagli Stati Uniti, forti della più grande forza militare che ci sia mai stata sulla terra, che nessuno dovrà mai non solo superare, ma nemmeno eguagliare ed è tale da prevalere in ogni possibile conflitto.
Queste sono le informazioni di cui disponiamo e questa la minaccia che grava sul mondo. Per contrastarla ognuno usi la fionda che ha. Una volta c’era la fionda del diritto, oggi la vogliono togliere di mano perfino a Guterres.
Pubblicato sulla Newsletter del Gruppo “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”
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