(Dall’archiviode Il Manifesto). Riproponiamo brani dell’intervista uscita il 9/2/2014 all’intellettuale morto nel 2017
È sempre critico il giudizio di Predrag Matvejevic –
l’autore di Breviario mediterraneo che ama definirsi «jugoslavo» –
sull’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio 2004).
Che bilancio va fatto di questo “giorno”?
Che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna
ripetere nessuno ascolta». Ognuno in questa epoca sembra chiuso nella propria
sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il precedente Giorno della
memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli,
accorrono anche i post-fascisti. E ogni anno abbondano fiction e
rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda
almeno due popoli, riducono tutto alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho
scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne
parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho sostenuto gli esuli italiani
dell’Istria e della Dalmazia condividendo il loro cordoglio nazionale per le
vittime innocenti. L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e
scelto, a Roma, una via fra asilo ed esilio. Continuo anche ora che sono
ritornato a Zagabria. Credevo comunque che le polemiche e le
strumentalizzazioni fossero finite. Invece no.
C’è un caso che ricorda?
Il caso del 2008 dello scrittore di confine Boris Pahor che ha fatto della
coralità del dolore la sua materia, raccontando la tragedia dei crimini
commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte
all’onorificenza offertagli dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano,
insorse dichiarando che l’avrebbe rifiutata se dalla presidenza italiana non
arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi di
Mussolini.
Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un crimine grave e la stragrande maggioranza di queste
vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale
bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri,
che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’infoibamento. La
tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono
stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un
discorso a Pola (una scelta non casuale). E dichiara: «Per realizzare il sogno
mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani
nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come
entra in scena il razzismo, accompagnato dalla pulizia etnica.
Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo
dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla
stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla
lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le
origini, si emigra Ed è appunto in un contesto del genere che si sente
pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della foiba. È il ministro
fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da
solo il nome vittorioso di Giulio Italico, a scrivere già nel 1927: «La musa
istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia
d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria» (da Gerarchia, IX,
1927) aggiungendo anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A
Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin».
Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla
teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai
lavori coatti in questa zona durante la seconda guerra mondiale, ha
testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i
fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari».
La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone italiano,
fa venire brividi.
Cosa risveglia il “Giorno del Ricordo” nell’ex
Jugoslavia?
La storia (con la S maiuscola) aggiunge altri dati poco conosciuti in Italia.
Uno dei peggiori criminali dei Balcani è il duce (poglavnik) degli ustascia
croati Ante Pavelic. Il loro campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in
formato ridotto: lì il lavoro micidiale veniva fatto a mano, mentre i nazisti
lo facevano in modo industriale. Il criminale Pavelic con i suoi seguaci, poté
godere negli anni Trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano
aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.
Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di
massa e singole. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in
Slovenia, in Montenegro. Senza dimenticare la catena di campi di
concentramento, dall’isola di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad
Arbe, di fronte a Fiume. a dove spesso si transitava per raggiungere la Risiera
di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva ad Auschwitz e soprattutto a
Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di
Ginevra e pertanto i prigionieri venivano subito sterminati come cani. E così
molti giunsero alla fine della guerra accaniti: infoibarono anche gli
innocenti, non solo di origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle
che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono
i crimini in prima persona e per proprio conto.
La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse.
Noi abbiamo cercato di parlarne. Oggi ne parlano purtroppo a loro modo
soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di neo-missini slavi. Ho
sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona
sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su nuove esperienze
culturali. Per questo auspico la proclamazione congiunta del «Giorno dei
Ricordi».
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